§ Problemi del nostro tempo

Nel labirinto della Pubblica Amministrazione




Vittorio Barbati



Questa grande malata è curabile a patto che si individuino le origini, vicine e lontane, dei suoi mali, e che abbia indirizzi precisi e intelligenti che la sottraggano una volta per tutte ali' indeterminatezza e alla contraddittorietà delle sue attuali funzioni.

Il discorso sui mali, sulle disfunzioni, sulle tare, organiche o non organiche, della pubblica amministrazione è un discorso che, tra alti e bassi, si trascina da anni. O addirittura da decenni. Da tempo immemorabile, ormai, si parla di riforme, di snellimento, di decentramento, di sburocratizzazione, e via di seguito. E non se ne parla soltanto. Si fanno studi approfonditi, si formulano ipotesi di riordinamento, si elaborano programmi più o meno brillanti, e ... tutto resta come prima. Anzi no! Perché i problemi si complicano, incancreniscono e si intrecciano in un groviglio che diventa sempre più inestricabile.
La pubblica amministrazione è una grande malata, forse la più grande malata del nostro paese. Ma è una malata curabile. A patto che si individuino le origini, vicine e lontane, dei suoi mali. E che si sappia che cosa si vuole veramente da lei. Perché il primo male della nostra pubblica amministrazione - non sembri paradossale! - è proprio costituito dall'indeterminatezza e dalla contraddittorietà delle sue funzioni. A che cosa deve servire la pubblica amministrazione? Non certo a produrre, come purtroppo fa, montagne di scartoffie di dubbia utilità. E nemmeno, come pure accade, a mantenere in piedi un certo numero di organismi parassitari, o quasi parassitari, che solo scomparendo potrebbero rendere un buon servizio al paese.
La funzione vera della pubblica amministrazione - quella, per intenderci, che essa dovrebbe assolvere e che purtroppo non assolve -è una funzione essenziale, vitale per meglio dire: la pubblica amministrazione è il braccio esecutivo del potere politico (inteso, è bene chiarirlo subito, come potere di governo della cosa pubblica e non come focolaio di intrighi); è lo strumento fondamentale di cui il potere politico, come delegato della collettività (almeno nei regimi democratici), si avvale per realizzare i fini della collettività stessa; è l'apparato che con i suoi organi -centrali e periferici, statali e locali - assicura, o dovrebbe assicurare, sempre alla collettività, i servizi indivisibili necessari e quei servizi che, per la loro natura, non possono essere affidati ai privati.
Non basta però dire che questa è la funzione (in effetti si tratta di un complesso di funzioni) che compete all'amministrazione pubblica. Bisogna aggiungere che questa funzione deve essere svolta in modo da assicurare al paese sostanziali vantaggi. In altre parole, questo significa che il costo dei servizi che la pubblica amministrazione fornisce alla collettività non deve essere sproporzionato: se questo costo diventa eccessivo, e cioè se la pubblica amministrazione produce cinque o dieci sottraendo al paese risorse per quindici o per venti, il bilancio diventa fallimentare. Con tutte le conseguenze che è facile immaginare. E che, purtroppo, sono quelle che si stanno verificando.

Scelte e responsabilità

Ma quali sono i servizi che la pubblica amministrazione deve fornire al paese? E in base a quali elementi si può calcolare la loro economicità? E, ancora, quali possono essere gli altri compiti, collaterali ma non meno importanti, che la pubblica amministrazione deve assolvere o può essere chiamata ad assolvere?
Non è agevole rispondere a queste domande, soprattutto in un articolo che, per ovvi motivi, deve essere contenuto in uno spazio relativamente limitato. Anche perché il discorso sulla pubblica amministrazione, oltre ad essere già per se stesso molto ampio, sconfina inevitabilmente nel campo politica, ossia in un campo estremamente vasto. Nelle linee essenziali, comunque, si può tentare di sintetizzare questo discorso, accettando le inevitabili limitazioni di un metodo del genere.
Bisogna chiarire subito un punto essenziale, che pure già si evince da quanto precede: non spetta alla pubblica amministrazione determinare i fini da realizzare; la pubblica amministrazione deve soltanto adeguare la sua opera ai fini fissati dal potere politico. Questo però non significa che la pubblica amministrazione deve essere soltanto uno strumento passivo. Tutt'altro! Significa che essa deve essere un'esecutrice intelligente delle direttive politiche. Naturalmente, a condizione che queste direttive siano intelligenti. Ed anche che siano chiare. E' prima di tutto una questione di responsabilità, che ognuno, in rapporto al suo ruolo, deve sapersi assumere.
Le scelte, e le relative responsabilità, spettano ai politici. Alla formazione delle scelte, però, può e deve concorrere la pubblica amministrazione, soprattutto fornendo ai politici tutti i possibili elementi di valutazione e tutti gli apporti di esperienza e di competenza tecnica che è in grado di offrire. Bisogna aggiungere che questa collaborazione politicotecnica - che è indispensabile per quello che potremmo definire l'"equilibrio" delle decisioni - non può essere codificata rigidamente: può essere organizzata, a patto che non si dimentichi che si tratta soprattutto di un fatto umano. Con tutte le implicazioni positive e negative, psicologiche e materiali dei fatti umani.

Il problema decisionale

Il discorso che è stato fatto fin qui non è un discorso astratto, confinato in un limbo di teoria pura. Dall'equilibrio che si raggiunge nel campo decisionale dipende l'attuazione o la non attuazione di ogni decisione: se una decisione non risponde a motivazioni tecniche ben ponderate saranno i fatti stessi a renderla inattuabile; o a renderne l'attuazione troppo costosa e quindi dannosa o, addirittura, controproducente. Il punto fondamentale è questo: si tratta di una questione di - "rendimento" - per il paese, s'intende! - delle decisioni e delle azioni pubbliche. Sia a livello politico che a livello amministrativo.
Il problema decisionale è prima di tutto, come si è detto, un problema "umano". Ma è anche, come pure si è detto, un problema organizzativo. Questo argomento richiederebbe un discorso a parte e perciò, in questa sede, può essere soltanto sfiorato. Qui è sufficiente dire che la sua soluzione è legata, prima di tutto, all'impostazione che viene data ai rapporti fra i due "poteri" politici dello Stato, ossia il Legislativo e l'Esecutivo, o, per essere più esatti, all'impostazione che viene data ai rapporti fra gli organi che detengono tali "poteri" e cioè il Parlamento e il Governo.
La trattazione di tali rapporti, che presentano aspetti e problemi numerosi e complessi, esula dai fini di questo scritto. Qui però occorre far notare che nel modo in cui essi vengono impostati, come nell'equilibrio che in essi si realizza, si può individuare l'origine della maggiore o della minore rispondenza delle decisioni pubbliche alle esigenze tecniche e quindi, in ultima analisi, alle necessità del paese.

Un punto ignorato

La maggiore o minore efficienza di quella che potremmo chiamare l'"organizzazione decisionale" condiziona, sotto tutti i profili, le attività dell'amministrazione pubblica. E le condiziona sia per quanto riguarda gli aspetti operativi che per quanto concerne gli aspetti organizzativi. E' il caso di chiarire questo punto.
L'adozione di un determinato ordine di priorità nei fini da conseguire - funzione, è il caso di notarlo, di natura squisitamente politica - non si traduce solo nell'adozione di determinati procedimenti operativi: si traduce, o dovrebbe tradursi, in una serie di misure organizzative di portata più o meno ampia secondo la natura e l'importanza dei compiti da assolvere. Questo è un punto che, purtroppo, viene molte volte ignorato nel nostro paese: una delle cose più penose che si registrano molto spesso da noi è costituita dalla costante sottovalutazione dei problemi organizzativi, dalla presunzione di poter portare avanti programmi anche di grande impegno senza strutturare adeguatamente, appunto in funzione di tali programmi, l'apparato che deve realizzarli. Si potrà anche obiettare che un tale adeguamento organizzativo non è certo facile e questa obiezione è senza dubbio giusta; ma è indubbio, e l'esperienza lo ha dimostrato ampiamente, che senza di esso le probabilità di successo di qualsiasi programma si riducono in misura rilevantissima. Quando, addirittura, non si annullano del tutto.

Fini strumentali e fini propulsivi

Si è voluto porre l'accento su questi fattori perché, se si vuol fare una critica obiettiva, e soprattutto costruttiva, non si può prescindere da certi principi fondamentali. Alla pubblica amministrazione, infatti, si possono affidare moltissimi obiettivi. Ma non si può pretendere che essa li consegua, o che li consegua in modo soddisfacente, se non si adottano impostazioni organizzative ed operative adeguate. Tutto ciò apparirà maggiormente in risalto esaminando i fini che vengono generalmente attribuiti alla pubblica amministrazione.
Bisogna precisare, prima di tutto, che non è facile stabilire fra tali fini una graduatoria, una scala "di importanza". Le priorità possono variare in rapporto a condizioni particolari, al mutare delle situazioni, :eccetera. In linea di massima, comunque, possiamo assegnare alla pubblica amministrazione due ordini di fini: quelli che possiamo definire "strumentali"' e quelli che possiamo indicare come "propulsivi".
Questa distinzione, dettata più che altro da motivi di chiarezza, non va ovviamente considerata come assoluta o categorica, ma va interpretata con elasticità. I fini "strumentali" sono quelli il cui conseguimento è destinato a rendere possibile il perseguimento di altri fini. Si può fare qualche esempio. La "sicurezza interna" e la "sicurezza esterna" sono dei fini essenzialmente "strumentali": conseguirli significa creare condizioni di ordine e di stabilità tali da garantire un ordinato progresso al paese; e significa anche creare condizioni idonee a consentire alla stessa pubblica amministrazione di operare, direttamente o indirettamente, a sostegno dell'economia e del progresso del paese. Quest'azione a sostegno dell'economia e del progresso del paese rientra nella categoria dei fini "propulsivi". Essa però non è possibile se non si realizzano quei fini "strumentali" di cui si è parlato.
Si è già detto che, nella realizzazione di tutti i suoi fini, "strumentali" e "propulsivi", la pubblica amministrazione deve, o dovrebbe, seguire dei criteri di economicità. Naturalmente, in un breve articolo, questo argomento può essere soltanto sfiorato. Basta considerare la complessità -dei problemi tecnici ed organizzativi posti dai due fini strumentali di cui si è parlato - la "sicurezza interna" e la "sicurezza esterna" - per rendersi conto delle implicazioni di un argomento del genere. La "sicurezza interna", ad esempio, investe da un lato i problemi relativi all'ordine pubblico ed alla strutturazione delle forze necessarie a mantenerlo e, da un altro lato, i problemi - non solo amministrativi ma anche giuridici e giurisdizionali - dell'amministrazione della giustizia: dall'organizzazione della polizia giudiziaria alla definizione, anche in rapporto alla normativa ed alle procedure vigenti, delle competenze delle varie sedi giurisdizionali, sia in materia civile, sia in materia penale e sia in materia amministrativa. La "sicurezza esterna", invece, investe prima di tutto le strutture delle forze armate, in rapporto ai compiti loro attribuiti, al tipo di strategia difensiva adottata ed al quadro internazionale in cui il paese è inserito.
Già da questa scorsa sommaria sì può valutare l'entità e la complessità dei problemi da affrontare per poter realizzare questi fini con criteri di economicità. L'argomento è estremamente complesso e qui non è possibile approfondirlo. Si può dire solo che, sia per quanto concerne la "sicurezza interna" che per quanto riguarda la "sicurezza esterna", l'adozione di determinati modelli organizzativi invece di altri può produrre effetti economici rilevantissimi, non solo per quanto riguarda l'economia di gestione dei servizi ma anche per quanto ha a che fare con i riflessi che certi acquisti, o certi sviluppi tecnologici (come quelli dei materiali militari, ad esempio), possono avere nell'economia del paese.

Un terreno minato

Passando al campo dei fini "propulsivi" che la pubblica amministrazione deve persegire, è il caso di avvertire subito che si entra in un vero e proprio campo Minato. Nella definizione di tali fini e del loro ordine di priorità, infatti, si può individuare l'essenza delle decisioni politiche. Ma si può anche individuare l'origine di molti nodi che spesso rallentano o paralizzano le attività amministrative.
In sintesi, questi fini "propulsivi", possono essere riassunti in un solo obiettivo complesso: il progresso socio-economico del paese. Questo progresso può essere perseguito in molti modi, anche se, nel puntare al suo conseguimento, non si può prescindere da un'esigenza fondamentale: ossia dalla necessità di mettere e mantenere in moto un processo capace di "autoalimentarsi", per produrre, col ritmo necessario, le risorse occorrenti ad ulteriori iniziative. Uno dei compiti primari della pubblica amministrazione può essere individuato proprio nell'esercizio di tutte le azioni indispensabili all'avvio, al controllo ed all'eventuale correzione di un processo del genere. Queste azioni, sulle quali potrà essere opportuno tornare in seguito, sono soprattutto di natura finanziaria, ma possono anche assumere altri aspetti ed altri contenuti (attività di pianificazione, di coordinamento operativo, ecc.).
E proprio qui si entra nel campo minato. Perché l'azione pubblica mirante a mettere in moto quel processo di cui si è parlato non può avere nessun vero valore se non viene basata su scelte chiare e precise. Non si tratta di scelte di poco conto: si tratta di stabilire quale tipo di distribuzione o di ridistribuzione di redditi si vuole attuare, quali consumi, pubblici o privati, si vogliono incentivare, quali equilibri, sia interni che esterni, si vogliono perseguire, quali priorità si vogliono adottare, quali settori economici si vogliono potenziare. E si tratta di stabilire, in questo quadro, le modalità di azione dell'amministrazione pubblica, le caratteristiche dei suoi interventi, le leve -fiscale, monetaria, finanziaria, della creazione di economie esterne, eccetera - che essa deve impiegare. E, ancora, si tratta di fissare le competenze dell'amministrazione statale e quelle delle amministrazioni locali; e quelle da attribuire ad organismi fiancheggiatori (enti istituzionali, enti economici pubblici, grandi imprese, ecc.)
Non è possibile affrontare, in questa sede, il tema -delle scelte, che richiederebbe, parecchi ponderosi volumi. Qui, piuttosto, si vuole porre l'accento su un altro fatto: sulle caratteristiche organizzative ed operative che la pubblica amministrazione deve, o dovrebbe, assumere, per rendere possibile la realizzazione degli obiettivi scelti in sede politica. Ed è proprio su questo argomento che dovremo soffermare l'attenzione.

Il campo delle applicazioni

Si può dire che ogni tipo di politica presuppone un certo tipo di organizzazione amministrativa. Questa "regola", naturalmente, va interpretata con attenzione, ma può comunque essere considerata fondamentalmente valida. E' il caso di chiarirne meglio le implicazioni.
Se, ad esempio, si vuole uno Stato capace di intervenire in modo massiccio nell'economia, è necessario estendere le attività della mano pubblica a molti settori: da quello creditizio a quello industriale, da quello delle infrastrutture a quello del commercio con l'estero. Se, al contrario, si vuole che lo Stato si limiti a svolgere una funzione regolatrice, senza intervenire attivamente e direttamente nei principali settori economici, è necessario ridurre al minimo indispensabile gli interventi della mano pubblica.
In entrambi i casi, la gamma delle possibili soluzioni è molto ampia. Nel primo caso, lo Stato può adottare., per le imprese che intende indirizzare, metodi di controllo e di gestione sia diretti che indiretti; nel secondo caso può attuare i suoi interventi regolatori mediante la manovra di leve diverse, che possono andare da quella fiscale a quella monetaria. D'altronde, non è possibile escludere differenti combinazioni fra le azioni del primo e del secondo tipo. Il campo delle applicazioni è praticamente illimitato.

Tre Stati sovrapposti

Si è insistito - pur senza poterli approfondire - su questi argomenti, che a prima vista possono sembrare solo teorici, per un motivo essenziale: perché solo adottando un certo metro di misurazione, o se si preferisce un certo modello teorico, si può analizzare il comportamento di un determinato apparato, al fine di esprimere su di esso delle valutazioni critiche.
Come si è detto all'inizio, il primo male della nostra pubblica amministrazione è costituito dall'indeterminatezza e dalla contraddittorietà delle sue funzioni. La nostra pubblica amministrazione, infatti, è caratterizzata da strutture, da procedimenti operativi e da norme giuridiche che, a voler essere blandi, si possono definire non concordanti fra loro.
La nostra pubblica amministrazione è il prodotto di impostazioni diverse, ispirate a fini diversi, che si sono susseguite nel tempo, sovrapponendosi le une alle altre; è il risultato di disposizioni legislative contrastanti, di ordinamenti differenti, di leggi e leggine varate spesso in modo disorganico; è la conseguenza di istanze contraddittorie, sancite da regimi politici legati a principi divergenti o addirittura antitetici. Diciamolo chiaro e tondo: noi non abbiamo uno Stato solo; abbiamo almeno tre Stati sovrapposti, uno Stato pre-fascista, uno Stato fascista ed uno Stato post-fascista e anti-fascista. E' bene precisare questo punto essenziale, ad evitare errate interpretazioni che potrebbero destare suscettibilità fuori posto.
Dicendo che noi abbiamo tre Stati sovrapposti non si fa un discorso ideologico. Si fa semplicemente un discorso tecnico. Ciascuno di questi tre Stati ha dato luogo, in rapporto alle concezioni politiche che lo ispiravano, ad un ordinamento giuridico, ad una struttura organizzativa e ad una metodologia operativa. Nessuno dei tre ordinamenti giuridici ha abrogato quello precedente; nessuna delle tre strutture organizzative ha sostituito quella preesistente; nessuna delle tre metodologie operative ha preso totalmente il posto di quella che era in auge prima. Questo è il punto. Con questi sistemi, la continuità dello Stato - fatto estremamente importante e, bisogna dirlo, estremamente positivo - è stata assicurata; ma è stata assicurata - e questo è il fatto negativo - non attraverso il mutamento ma attraverso la sovrapposizione. Perciò, in questo momento, noi abbiamo uno Stato che è, nello stesso tempo, autoritario e democratico, accentratore e decentratore nel campo amministrativo, dirigista e liberista nel campo economico, ossia abbiamo uno Stato, che, nello stesso tempo, è tutto e il contrario di tutto.

Stato e apparato

Può essere opportuno, a questo punto, spendere qualche parola per chiarire il significato che qui si vuole attribuire alla parola Stato. E' noto che le definizioni dello Stato sono innumerevoli - in particolare i giuristi si sono sbizzarriti a coniarne parecchie - ed è altrettanto noto che, finora, con nessuna di tali definizioni si è riusciti a cogliere in modo completo, ossia a sintetizzare in maniera adeguata, quel fenomeno estremamente complesso che è lo Stato moderno. Perciò, per evitare errate interpretazioni, è opportuno dire che qui si vogliono attribuire al termine Stato - come si può evincere chiaramente dal discorso - due significati essenziali: quello di un ordinamento giuridico complesso ed omnicomprensivo e quello di un apparato operativo del pari complesso. E qui occorre qualche ulteriore precisazione.
Com'è noto, gli enti che hanno una personalità giuridica pubblica diversa da quella dello Stato sono parecchi. Alcuni di questi enti - come le Regioni, le Province e i Comuni - hanno, per un'ampia gamma di attribuzioni, una competenza territoriale ben delimitata; altri, con giurisdizione su tutto il territorio nazionale - Enti previdenziali, ecc. e con giurisdizione territorialmente limitata Camere di Commercio, Enti per il Turismo, ecc.
svolgono, spesso per conto dello Stato, funzioni "istituzionali" precise; altri ancora - i grandi enti economici (IRI, ENI, EFIM, ecc.) - controllano larghi settori dell'economia. I poteri di tutti questi enti derivano sempre, è bene non dimenticarlo, dall'ordinamento dello Stato, o, in altre parole, dalla volontà politica dello Stato tradotta in formule giuridiche.
Se si considerano questi fattoti, appare chiaro che mentre al termine Stato inteso come ordinamento si può dare un significato preciso, al termine Stato inteso come apparato si possono attribuire almeno due significati, uno più ristretto ed uno più ampio: quello più ristretto riferito solo all'amministrazione statale, ossia all'apparato amministrativo direttamente dipendente dallo Stato persona giuridica; quello più ampio, riferito a tutto il complesso dell'apparato pubblico, comprendendo quindi, nella dizione di Stato-apparato, anche gli apparati degli altri enti dotati di personalità giuridica pubblica, sia territoriali (Regioni, Province e Comuni) che istituzionali (Enti previdenziali, ecc.) ed economici. Per esigenze di chiarezza, in questa sede, e proprio al fine di porre in evidenza - sia pure, com'è ovvio, nelle grandissime linee - i rapporti intercorrenti fra le varie componenti del sistema pubblico, lo Stato-apparato verrà inteso nel significato più limitato, ossia come complesso di organi direttamente dipendenti dallo Stato persona giuridica pubblica.

Rapporti assurdi organizzazione paralizzante

A questo punto, il discorso si riallaccia a quanto si è detto prima a proposito della coesistenza, o della sovrapposizione, nel nostro paese, di almeno tre Stati. Questo, purtroppo, è valido qualunque significato si voglia attribuire alla parola Stato: noi abbiamo tre ordinamenti statuali sovrapposti; e tre apparati statali egualmente sovrapposti. Vediamo un pò di analizzarne, molto brevemente, gli aspetti essenziali.
Per quanto riguarda la sovrapposizione di tre ordinamenti, può essere sufficiente dire che i primi due sono ordinamenti essenzialmente accentratori, mentre il terzo è un ordinamento fondato in più larga misura sui principi del decentramento. Anche questo è un discorso che richiederebbe approfondimenti impossibili in un breve articolo. Si può dire comunque che questa antitesi fra i tre ordinamenti si manifesta, con conseguenze non certo positive, sia nei rapporti fra gli organi centrali e gli organi periferici dello Stato che nei rapporti fra lo Stato e gli enti locali: si manifesta con la scarsa autonomia funzionale di molti organi periferici statali, con una serie soffocante di controlli più o meno formali, e, soprattutto, con sovrapposizioni di competenze che talvolta sconfinano nell'assurdo.
La cosa più grave di questa sovrapposizione, però, è che essa è completamente in antitesi con qualsiasi criterio di organizzazione moderna. Sia l'accentramento che il decentramento, insiti nei tre ordinamenti sovrapposti, sono ispirati a principi ben lontani da quelli che dovrebbero valere nell'epoca degli elaboratori elettronici, dei centri e dei terminali collegati in "tempo reale", eccetera. Proprio gli sviluppi tecnologici degli ultimi decenni, e in particolare degli ultimi anni, che hanno reso possibili collegamenti prima impensabili, non solo fra il centro e la periferia ma anche fra i differenti enti, dovrebbero consigliare di rivedere, nel quadro della funzionalità e non dei principi astratti, i criteri di ordinamenti contraddittori, per eliminare ogni zavorra e gettare le basi di una nuova organizzazione.

Un confine evanescente

E' evidente che, a questo punto, il confine fra l'ordinamento e l'apparato comincia a diventare evanescente. In effetti, gli ordinamenti disciplinano l'organizzazione e le attività degli apparati. Perciò non è sempre facile condurre il ragionamento rispettando certi confini che, in alcuni casi, appaiono chiaramente arbitrari (e che, comunque, appaiono giustificati, molte volte, più da esigenze di chiarezza e di analisi che da necessità di altro genere). D'altra parte, ora, può essere opportuno esaminare gli apparati, pur senza perdere di vista gli ordinamenti. Avvertendo che quando si parlerà di apparato statale si intenderà l'apparato dipendente dallo Stato persona giuridica e, invece, quando si parlerà di apparato pubblico si intenderà il complesso costituito dall'apparato statale e dagli apparati degli altri enti pubblici.
E' noto che l'apparato dello Stato ha il suo fulcro in un'organizzazione centrale, costituita da un certo numero di ministeri, ciascuno dei quali è dotato di una sua specifica competenza. Le note dolenti cominciano proprio da questa organizzazione centrale, che non si è formata attraverso una progressione organica ma attraverso una serie di aggiunte e di sovrapposizioni non sempre razionali. Bisogna aggiungere che, sebbene la nostra Costituzione dica che "la legge fissa il numero e le attribuzioni dei ministeri", non si è mai fatta una legge organica per fissare i criteri ordinatori dell'organizzazione centrale dello Stato. In un paese nel quale si sfornano leggi con una frequenza veramente impressionante, non è stata ancora fatta - e non si sa se e quando sarà fatta - la legge più importante, quella che deve dire come deve essere fatto l'apparato di governo. Eppure, sono passati quasi ventotto anni dalla promulgazione della Costituzione.
Il risultato di questo fatto non certo brillante è costituito dall'esistenza di vari dicasteri di discutibile utilità, da sovrapposizioni di competenze non necessarie e da molte complicazioni di cui sarebbe molto meglio fare a meno. Può bastare qualche esempio. Il nostro, tanto per cominciare, è l'unico paese occidentale con tre ministeri finanziari (tutti gli altri ne hanno uno solo): quello del Bilancio e della Programmazione Economica, quello del Tesoro e quello delle Finanze. Già questa è una complicazione non necessaria. Però ad essa bisogna aggiungerne un'altra, che, a voler essere ottimisti, rende le cose paradossali. Di questi tre ministeri, il primo, quello del Bilancio e della Programmazione, dovrebbe coordinare l'opera degli altri due; però, l'organo tecnico idoneo ad esercitare le attività di coordinamento e di controllo della finanza pubblica, la Ragioneria Generale dello Stato, alla quale fa capo il cosiddetto "sistema delle Ragionerie", non dipende dal ministero del Bilancio ma da quello del Tesoro. In altre parole, questo significa che il ministero teoricamente controllante non controlla e che un ministero teoricamente controllato controlla. Cose che succedono nel nostro paese, ove la soluzione più semplice, ossia quella dell'unificazione dei ministeri del Tesoro e delle Finanze e della contemporanea trasformazione del ministero del Bilancio in un ministero dell'Economia non viene nemmeno presa in considerazione.
Sempre per restare nel campo degli esempi riguardanti l'organizzazione centrale - o, se si preferisce, l'amministrazione centrale - dello Stato, si può guardare quanto succede nel campo dei trasporti, sottoposti alla giurisdizione di due dicasteri: quello dei Trasporti e dell'Aviazione Civile e quello della Marina Mercantile. Ora, i casi sono due: o la politica dei trasporti è un fatto unitario e allora deve bastare un solo ministero; o è un fatto che presenta caratteristiche proprie secondo ogni ambiente operativo - aria, terra e mare - e allora i dicasteri devono diventare tre. La mezza misura di due dicasteri è un'altra di quelle soluzioni ambigue che sono tipiche del nostro sistema pubblico. Si potrebbe continuare a lungo, parlando, ad esempio, delle sovrapposizioni di competenze fra il ministero degli Esteri e quello del Commercio con l'Estero, o di quelle fra il ministero dell'Industria e il ministero delle Partecipazioni Statali, ma quanto si è detto è già sufficiente ad illuminare il quadro.

Un'occasione sprecata

Con l'istituzione delle Regioni a statuto ordinario, avvenuta alcuni anni orsono, si pensava di poter conferire allo Stato nel suo complesso un nuovo equilibrio più valido di quello preesistente. Forse mai un'occasione così promettente è stata sprecata in un modo così misero.
Le Regioni sono nate con due tare di fondo, che in sostanza riflettono la sovrapposizione degli ordinamenti di cui si è parlato: sono nate come enti non sostitutivi di altri enti - ad esempio le province, la cui utilità diviene sempre più discutibile - ma destinati ad inserirsi in un paesaggio già fin troppo affollato; e sono nate con confini che hanno un significato economico molto discutibile. E' il caso di precisare brevemente questi due punti.
Nel quadro di un sistema pubblico di nuovo tipo, le Regioni avrebbero potuto assumere un ruolo molto più fondamentale di quello che finora hanno assunto. Ma questo sistema avrebbe dovuto essere basato, da un lato, a monte potremmo dire, su una radicale riorganizzazione dell'amministrazione statale, centrale e periferica, e dall'altro lato, a valle potremmo dire, su una riorganizzazione altrettanto radicale degli enti minori, con l'eventuale abolizione delle province e il raggruppamento dei comuni in entità più forti e più rispondenti alle esigenze odierne. D'altra parte, i confini delle regioni sono stati determinati non in base a criteri di omogeneità economica delle aree da amministrare - eppure esistevano precisi studi della CEE in proposito - ma in base a criteri puramente tradizionali. Così, dei nuovi organismi nati vecchi si sono sovrapposti ad una pletora di altri organismi anch'essi invecchiati.
Si può obiettare che una nuova organizzazione, come quella ipotizzata qui, non poteva, e non può, essere creata dall'oggi al domani. Giustissimo! Ma quanti anni sono passati dall'entrata in vigore della Costituzione ad oggi senza che si siano fatti veramente dei passi avanti nella riorganizzazione del sistema pubblico?

I bilanci pubblici

Bisognerebbe aggiungere molte altre -cose, ma, solo per elencarle, occorrerebbero dei volumi. E' il caso solo di porre l'accento su qualche altra tara del nostro sistema pubblico. O, se si preferisce, della nostra pubblica amministrazione. Per esempio, si può parlare delle impostazioni finanziarie in uso nell'ambito di tale sistema. O di tale amministrazione.
E' noto che i bilanci pubblici - sia quello dello Stato che quelli degli enti minori - sono ispirati al principio della competenza: sono cioè bilanci che contemplano il diritto a riscuotere determinate entrate e la facoltà di contrarre, fino a certi limiti, impegni di spesa.
Ora il bilancio di competenza presenta senza dubbio dei vantaggi per quanto concerne il controllo della correttezza amministrativa, ma ha un significato molto scarso sotto il profilo economico: infatti, non rispecchia nè previsioni di entrate effettive, nè previsioni di spese effettive. Ora, in un paese nel quale si parla da anni, anche in questo caso da tempo immemorabile, di programmazione, non sarebbe ,stato male adottare dei meccanismi - piani finanziari scorrevoli, eccetera - più consoni alle esigenze della programmazione stessa. Se l'attività finanziaria pubblica - che deve necessariamente costituire il fulcro di ogni politica programmata - è basata su meccanismi inadeguati, come si può pensare al successo della programmazione? A parte il fatto che non esistono meccanismi di coordinamento fra la finanza statale e quella locale. Nel nostro paese, però, il primo programma economico pluriennale fu trasformato in legge dello Stato, con l'illusione forse che questa patente giuridica potesse renderlo realizzabile anche in mancanza di un'organizzazione adeguata. Se veramente si pensò questo è meglio non fare commenti.

Responsabilità della classe politica

Il discorso sui mali della pubblica amministrazione è molto lungo e qui è stato solo sfiorato. Non è stato possibile, per ovvi motivi, dedicare nemmeno un breve cenno ad altri argomenti che pure avrebbero meritato un pò di attenzione: alla riforma tributaria, concepita per semplificare le cose e complicatasi inutilmente per strada, ed ai suoi collegamenti con la finanza statale e locale; al groviglio del parastato ed alla sua incidenza sui prelievi di risorse dai settori produttivi; ai legami operativi fra la pubblica amministrazione e il settore degli intermediari finanziari (banche, istituti di credito a medio e lungo termine, ecc.), eccetera.
Qui, piuttosto, per porre termine ad un discorso che altrimenti rischia di divenire eccessivamente lungo, è il caso solo di formulare qualche breve considerazione di chiusura.
Come si è detto all'inizio, il primo male della nostra pubblica amministrazione è costituito dall'indeterminatezza e dalla contraddittorietà delle sue funzioni. All'origine di questo male c'è proprio quella sovrapposizione di ordinamenti di cui si è parlato. Sarebbe stato possibile eliminare questa sovrapposizione? E potrebbe esserlo oggi? Certamente, si può rispondere. Era possibile ieri, se ci fossero state idee chiare sugli scopi da raggiungere. E' possibile oggi, a patto che si realizzi la stessa condizione. La principale responsabilità di tutto questo - per il passato come per il presente e per il futuro - appartiene alla classe politica. L'amministrazione pubblica può fare solo ciò che le viene chiesto, con gli ordinamenti e con i mezzi che le vengono dati. Se si considera tutto ciò, bisogna ammettere che il vero miracolo è che essa stia ancora in piedi.


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