Questa grande
malata è curabile a patto che si individuino le origini, vicine
e lontane, dei suoi mali, e che abbia indirizzi precisi e intelligenti
che la sottraggano una volta per tutte ali' indeterminatezza e alla contraddittorietà
delle sue attuali funzioni.
Il discorso sui
mali, sulle disfunzioni, sulle tare, organiche o non organiche, della
pubblica amministrazione è un discorso che, tra alti e bassi,
si trascina da anni. O addirittura da decenni. Da tempo immemorabile,
ormai, si parla di riforme, di snellimento, di decentramento, di sburocratizzazione,
e via di seguito. E non se ne parla soltanto. Si fanno studi approfonditi,
si formulano ipotesi di riordinamento, si elaborano programmi più
o meno brillanti, e ... tutto resta come prima. Anzi no! Perché
i problemi si complicano, incancreniscono e si intrecciano in un groviglio
che diventa sempre più inestricabile.
La pubblica amministrazione è una grande malata, forse la più
grande malata del nostro paese. Ma è una malata curabile. A patto
che si individuino le origini, vicine e lontane, dei suoi mali. E che
si sappia che cosa si vuole veramente da lei. Perché il primo
male della nostra pubblica amministrazione - non sembri paradossale!
- è proprio costituito dall'indeterminatezza e dalla contraddittorietà
delle sue funzioni. A che cosa deve servire la pubblica amministrazione?
Non certo a produrre, come purtroppo fa, montagne di scartoffie di dubbia
utilità. E nemmeno, come pure accade, a mantenere in piedi un
certo numero di organismi parassitari, o quasi parassitari, che solo
scomparendo potrebbero rendere un buon servizio al paese.
La funzione vera della pubblica amministrazione - quella, per intenderci,
che essa dovrebbe assolvere e che purtroppo non assolve -è una
funzione essenziale, vitale per meglio dire: la pubblica amministrazione
è il braccio esecutivo del potere politico (inteso, è
bene chiarirlo subito, come potere di governo della cosa pubblica e
non come focolaio di intrighi); è lo strumento fondamentale di
cui il potere politico, come delegato della collettività (almeno
nei regimi democratici), si avvale per realizzare i fini della collettività
stessa; è l'apparato che con i suoi organi -centrali e periferici,
statali e locali - assicura, o dovrebbe assicurare, sempre alla collettività,
i servizi indivisibili necessari e quei servizi che, per la loro natura,
non possono essere affidati ai privati.
Non basta però dire che questa è la funzione (in effetti
si tratta di un complesso di funzioni) che compete all'amministrazione
pubblica. Bisogna aggiungere che questa funzione deve essere svolta
in modo da assicurare al paese sostanziali vantaggi. In altre parole,
questo significa che il costo dei servizi che la pubblica amministrazione
fornisce alla collettività non deve essere sproporzionato: se
questo costo diventa eccessivo, e cioè se la pubblica amministrazione
produce cinque o dieci sottraendo al paese risorse per quindici o per
venti, il bilancio diventa fallimentare. Con tutte le conseguenze che
è facile immaginare. E che, purtroppo, sono quelle che si stanno
verificando.
Scelte e responsabilità
Ma quali sono i
servizi che la pubblica amministrazione deve fornire al paese? E in
base a quali elementi si può calcolare la loro economicità?
E, ancora, quali possono essere gli altri compiti, collaterali ma non
meno importanti, che la pubblica amministrazione deve assolvere o può
essere chiamata ad assolvere?
Non è agevole rispondere a queste domande, soprattutto in un
articolo che, per ovvi motivi, deve essere contenuto in uno spazio relativamente
limitato. Anche perché il discorso sulla pubblica amministrazione,
oltre ad essere già per se stesso molto ampio, sconfina inevitabilmente
nel campo politica, ossia in un campo estremamente vasto. Nelle linee
essenziali, comunque, si può tentare di sintetizzare questo discorso,
accettando le inevitabili limitazioni di un metodo del genere.
Bisogna chiarire subito un punto essenziale, che pure già si
evince da quanto precede: non spetta alla pubblica amministrazione determinare
i fini da realizzare; la pubblica amministrazione deve soltanto adeguare
la sua opera ai fini fissati dal potere politico. Questo però
non significa che la pubblica amministrazione deve essere soltanto uno
strumento passivo. Tutt'altro! Significa che essa deve essere un'esecutrice
intelligente delle direttive politiche. Naturalmente, a condizione che
queste direttive siano intelligenti. Ed anche che siano chiare. E' prima
di tutto una questione di responsabilità, che ognuno, in rapporto
al suo ruolo, deve sapersi assumere.
Le scelte, e le relative responsabilità, spettano ai politici.
Alla formazione delle scelte, però, può e deve concorrere
la pubblica amministrazione, soprattutto fornendo ai politici tutti
i possibili elementi di valutazione e tutti gli apporti di esperienza
e di competenza tecnica che è in grado di offrire. Bisogna aggiungere
che questa collaborazione politicotecnica - che è indispensabile
per quello che potremmo definire l'"equilibrio" delle decisioni
- non può essere codificata rigidamente: può essere organizzata,
a patto che non si dimentichi che si tratta soprattutto di un fatto
umano. Con tutte le implicazioni positive e negative, psicologiche e
materiali dei fatti umani.
Il problema decisionale
Il discorso che
è stato fatto fin qui non è un discorso astratto, confinato
in un limbo di teoria pura. Dall'equilibrio che si raggiunge nel campo
decisionale dipende l'attuazione o la non attuazione di ogni decisione:
se una decisione non risponde a motivazioni tecniche ben ponderate saranno
i fatti stessi a renderla inattuabile; o a renderne l'attuazione troppo
costosa e quindi dannosa o, addirittura, controproducente. Il punto
fondamentale è questo: si tratta di una questione di - "rendimento"
- per il paese, s'intende! - delle decisioni e delle azioni pubbliche.
Sia a livello politico che a livello amministrativo.
Il problema decisionale è prima di tutto, come si è detto,
un problema "umano". Ma è anche, come pure si è
detto, un problema organizzativo. Questo argomento richiederebbe un
discorso a parte e perciò, in questa sede, può essere
soltanto sfiorato. Qui è sufficiente dire che la sua soluzione
è legata, prima di tutto, all'impostazione che viene data ai
rapporti fra i due "poteri" politici dello Stato, ossia il
Legislativo e l'Esecutivo, o, per essere più esatti, all'impostazione
che viene data ai rapporti fra gli organi che detengono tali "poteri"
e cioè il Parlamento e il Governo.
La trattazione di tali rapporti, che presentano aspetti e problemi numerosi
e complessi, esula dai fini di questo scritto. Qui però occorre
far notare che nel modo in cui essi vengono impostati, come nell'equilibrio
che in essi si realizza, si può individuare l'origine della maggiore
o della minore rispondenza delle decisioni pubbliche alle esigenze tecniche
e quindi, in ultima analisi, alle necessità del paese.
Un punto ignorato
La maggiore o minore
efficienza di quella che potremmo chiamare l'"organizzazione decisionale"
condiziona, sotto tutti i profili, le attività dell'amministrazione
pubblica. E le condiziona sia per quanto riguarda gli aspetti operativi
che per quanto concerne gli aspetti organizzativi. E' il caso di chiarire
questo punto.
L'adozione di un determinato ordine di priorità nei fini da conseguire
- funzione, è il caso di notarlo, di natura squisitamente politica
- non si traduce solo nell'adozione di determinati procedimenti operativi:
si traduce, o dovrebbe tradursi, in una serie di misure organizzative
di portata più o meno ampia secondo la natura e l'importanza
dei compiti da assolvere. Questo è un punto che, purtroppo, viene
molte volte ignorato nel nostro paese: una delle cose più penose
che si registrano molto spesso da noi è costituita dalla costante
sottovalutazione dei problemi organizzativi, dalla presunzione di poter
portare avanti programmi anche di grande impegno senza strutturare adeguatamente,
appunto in funzione di tali programmi, l'apparato che deve realizzarli.
Si potrà anche obiettare che un tale adeguamento organizzativo
non è certo facile e questa obiezione è senza dubbio giusta;
ma è indubbio, e l'esperienza lo ha dimostrato ampiamente, che
senza di esso le probabilità di successo di qualsiasi programma
si riducono in misura rilevantissima. Quando, addirittura, non si annullano
del tutto.
Fini strumentali
e fini propulsivi
Si è voluto
porre l'accento su questi fattori perché, se si vuol fare una
critica obiettiva, e soprattutto costruttiva, non si può prescindere
da certi principi fondamentali. Alla pubblica amministrazione, infatti,
si possono affidare moltissimi obiettivi. Ma non si può pretendere
che essa li consegua, o che li consegua in modo soddisfacente, se non
si adottano impostazioni organizzative ed operative adeguate. Tutto
ciò apparirà maggiormente in risalto esaminando i fini
che vengono generalmente attribuiti alla pubblica amministrazione.
Bisogna precisare, prima di tutto, che non è facile stabilire
fra tali fini una graduatoria, una scala "di importanza".
Le priorità possono variare in rapporto a condizioni particolari,
al mutare delle situazioni, :eccetera. In linea di massima, comunque,
possiamo assegnare alla pubblica amministrazione due ordini di fini:
quelli che possiamo definire "strumentali"' e quelli che possiamo
indicare come "propulsivi".
Questa distinzione, dettata più che altro da motivi di chiarezza,
non va ovviamente considerata come assoluta o categorica, ma va interpretata
con elasticità. I fini "strumentali" sono quelli il
cui conseguimento è destinato a rendere possibile il perseguimento
di altri fini. Si può fare qualche esempio. La "sicurezza
interna" e la "sicurezza esterna" sono dei fini essenzialmente
"strumentali": conseguirli significa creare condizioni di
ordine e di stabilità tali da garantire un ordinato progresso
al paese; e significa anche creare condizioni idonee a consentire alla
stessa pubblica amministrazione di operare, direttamente o indirettamente,
a sostegno dell'economia e del progresso del paese. Quest'azione a sostegno
dell'economia e del progresso del paese rientra nella categoria dei
fini "propulsivi". Essa però non è possibile
se non si realizzano quei fini "strumentali" di cui si è
parlato.
Si è già detto che, nella realizzazione di tutti i suoi
fini, "strumentali" e "propulsivi", la pubblica
amministrazione deve, o dovrebbe, seguire dei criteri di economicità.
Naturalmente, in un breve articolo, questo argomento può essere
soltanto sfiorato. Basta considerare la complessità -dei problemi
tecnici ed organizzativi posti dai due fini strumentali di cui si è
parlato - la "sicurezza interna" e la "sicurezza esterna"
- per rendersi conto delle implicazioni di un argomento del genere.
La "sicurezza interna", ad esempio, investe da un lato i problemi
relativi all'ordine pubblico ed alla strutturazione delle forze necessarie
a mantenerlo e, da un altro lato, i problemi - non solo amministrativi
ma anche giuridici e giurisdizionali - dell'amministrazione della giustizia:
dall'organizzazione della polizia giudiziaria alla definizione, anche
in rapporto alla normativa ed alle procedure vigenti, delle competenze
delle varie sedi giurisdizionali, sia in materia civile, sia in materia
penale e sia in materia amministrativa. La "sicurezza esterna",
invece, investe prima di tutto le strutture delle forze armate, in rapporto
ai compiti loro attribuiti, al tipo di strategia difensiva adottata
ed al quadro internazionale in cui il paese è inserito.
Già da questa scorsa sommaria sì può valutare l'entità
e la complessità dei problemi da affrontare per poter realizzare
questi fini con criteri di economicità. L'argomento è
estremamente complesso e qui non è possibile approfondirlo. Si
può dire solo che, sia per quanto concerne la "sicurezza
interna" che per quanto riguarda la "sicurezza esterna",
l'adozione di determinati modelli organizzativi invece di altri può
produrre effetti economici rilevantissimi, non solo per quanto riguarda
l'economia di gestione dei servizi ma anche per quanto ha a che fare
con i riflessi che certi acquisti, o certi sviluppi tecnologici (come
quelli dei materiali militari, ad esempio), possono avere nell'economia
del paese.
Un terreno minato
Passando al campo
dei fini "propulsivi" che la pubblica amministrazione deve
persegire, è il caso di avvertire subito che si entra in un vero
e proprio campo Minato. Nella definizione di tali fini e del loro ordine
di priorità, infatti, si può individuare l'essenza delle
decisioni politiche. Ma si può anche individuare l'origine di
molti nodi che spesso rallentano o paralizzano le attività amministrative.
In sintesi, questi fini "propulsivi", possono essere riassunti
in un solo obiettivo complesso: il progresso socio-economico del paese.
Questo progresso può essere perseguito in molti modi, anche se,
nel puntare al suo conseguimento, non si può prescindere da un'esigenza
fondamentale: ossia dalla necessità di mettere e mantenere in
moto un processo capace di "autoalimentarsi", per produrre,
col ritmo necessario, le risorse occorrenti ad ulteriori iniziative.
Uno dei compiti primari della pubblica amministrazione può essere
individuato proprio nell'esercizio di tutte le azioni indispensabili
all'avvio, al controllo ed all'eventuale correzione di un processo del
genere. Queste azioni, sulle quali potrà essere opportuno tornare
in seguito, sono soprattutto di natura finanziaria, ma possono anche
assumere altri aspetti ed altri contenuti (attività di pianificazione,
di coordinamento operativo, ecc.).
E proprio qui si entra nel campo minato. Perché l'azione pubblica
mirante a mettere in moto quel processo di cui si è parlato non
può avere nessun vero valore se non viene basata su scelte chiare
e precise. Non si tratta di scelte di poco conto: si tratta di stabilire
quale tipo di distribuzione o di ridistribuzione di redditi si vuole
attuare, quali consumi, pubblici o privati, si vogliono incentivare,
quali equilibri, sia interni che esterni, si vogliono perseguire, quali
priorità si vogliono adottare, quali settori economici si vogliono
potenziare. E si tratta di stabilire, in questo quadro, le modalità
di azione dell'amministrazione pubblica, le caratteristiche dei suoi
interventi, le leve -fiscale, monetaria, finanziaria, della creazione
di economie esterne, eccetera - che essa deve impiegare. E, ancora,
si tratta di fissare le competenze dell'amministrazione statale e quelle
delle amministrazioni locali; e quelle da attribuire ad organismi fiancheggiatori
(enti istituzionali, enti economici pubblici, grandi imprese, ecc.)
Non è possibile affrontare, in questa sede, il tema -delle scelte,
che richiederebbe, parecchi ponderosi volumi. Qui, piuttosto, si vuole
porre l'accento su un altro fatto: sulle caratteristiche organizzative
ed operative che la pubblica amministrazione deve, o dovrebbe, assumere,
per rendere possibile la realizzazione degli obiettivi scelti in sede
politica. Ed è proprio su questo argomento che dovremo soffermare
l'attenzione.
Il campo delle
applicazioni
Si può dire
che ogni tipo di politica presuppone un certo tipo di organizzazione
amministrativa. Questa "regola", naturalmente, va interpretata
con attenzione, ma può comunque essere considerata fondamentalmente
valida. E' il caso di chiarirne meglio le implicazioni.
Se, ad esempio, si vuole uno Stato capace di intervenire in modo massiccio
nell'economia, è necessario estendere le attività della
mano pubblica a molti settori: da quello creditizio a quello industriale,
da quello delle infrastrutture a quello del commercio con l'estero.
Se, al contrario, si vuole che lo Stato si limiti a svolgere una funzione
regolatrice, senza intervenire attivamente e direttamente nei principali
settori economici, è necessario ridurre al minimo indispensabile
gli interventi della mano pubblica.
In entrambi i casi, la gamma delle possibili soluzioni è molto
ampia. Nel primo caso, lo Stato può adottare., per le imprese
che intende indirizzare, metodi di controllo e di gestione sia diretti
che indiretti; nel secondo caso può attuare i suoi interventi
regolatori mediante la manovra di leve diverse, che possono andare da
quella fiscale a quella monetaria. D'altronde, non è possibile
escludere differenti combinazioni fra le azioni del primo e del secondo
tipo. Il campo delle applicazioni è praticamente illimitato.
Tre Stati sovrapposti
Si è insistito
- pur senza poterli approfondire - su questi argomenti, che a prima
vista possono sembrare solo teorici, per un motivo essenziale: perché
solo adottando un certo metro di misurazione, o se si preferisce un
certo modello teorico, si può analizzare il comportamento di
un determinato apparato, al fine di esprimere su di esso delle valutazioni
critiche.
Come si è detto all'inizio, il primo male della nostra pubblica
amministrazione è costituito dall'indeterminatezza e dalla contraddittorietà
delle sue funzioni. La nostra pubblica amministrazione, infatti, è
caratterizzata da strutture, da procedimenti operativi e da norme giuridiche
che, a voler essere blandi, si possono definire non concordanti fra
loro.
La nostra pubblica amministrazione è il prodotto di impostazioni
diverse, ispirate a fini diversi, che si sono susseguite nel tempo,
sovrapponendosi le une alle altre; è il risultato di disposizioni
legislative contrastanti, di ordinamenti differenti, di leggi e leggine
varate spesso in modo disorganico; è la conseguenza di istanze
contraddittorie, sancite da regimi politici legati a principi divergenti
o addirittura antitetici. Diciamolo chiaro e tondo: noi non abbiamo
uno Stato solo; abbiamo almeno tre Stati sovrapposti, uno Stato pre-fascista,
uno Stato fascista ed uno Stato post-fascista e anti-fascista. E' bene
precisare questo punto essenziale, ad evitare errate interpretazioni
che potrebbero destare suscettibilità fuori posto.
Dicendo che noi abbiamo tre Stati sovrapposti non si fa un discorso
ideologico. Si fa semplicemente un discorso tecnico. Ciascuno di questi
tre Stati ha dato luogo, in rapporto alle concezioni politiche che lo
ispiravano, ad un ordinamento giuridico, ad una struttura organizzativa
e ad una metodologia operativa. Nessuno dei tre ordinamenti giuridici
ha abrogato quello precedente; nessuna delle tre strutture organizzative
ha sostituito quella preesistente; nessuna delle tre metodologie operative
ha preso totalmente il posto di quella che era in auge prima. Questo
è il punto. Con questi sistemi, la continuità dello Stato
- fatto estremamente importante e, bisogna dirlo, estremamente positivo
- è stata assicurata; ma è stata assicurata - e questo
è il fatto negativo - non attraverso il mutamento ma attraverso
la sovrapposizione. Perciò, in questo momento, noi abbiamo uno
Stato che è, nello stesso tempo, autoritario e democratico, accentratore
e decentratore nel campo amministrativo, dirigista e liberista nel campo
economico, ossia abbiamo uno Stato, che, nello stesso tempo, è
tutto e il contrario di tutto.
Stato e apparato
Può essere
opportuno, a questo punto, spendere qualche parola per chiarire il significato
che qui si vuole attribuire alla parola Stato. E' noto che le definizioni
dello Stato sono innumerevoli - in particolare i giuristi si sono sbizzarriti
a coniarne parecchie - ed è altrettanto noto che, finora, con
nessuna di tali definizioni si è riusciti a cogliere in modo
completo, ossia a sintetizzare in maniera adeguata, quel fenomeno estremamente
complesso che è lo Stato moderno. Perciò, per evitare
errate interpretazioni, è opportuno dire che qui si vogliono
attribuire al termine Stato - come si può evincere chiaramente
dal discorso - due significati essenziali: quello di un ordinamento
giuridico complesso ed omnicomprensivo e quello di un apparato operativo
del pari complesso. E qui occorre qualche ulteriore precisazione.
Com'è noto, gli enti che hanno una personalità giuridica
pubblica diversa da quella dello Stato sono parecchi. Alcuni di questi
enti - come le Regioni, le Province e i Comuni - hanno, per un'ampia
gamma di attribuzioni, una competenza territoriale ben delimitata; altri,
con giurisdizione su tutto il territorio nazionale - Enti previdenziali,
ecc. e con giurisdizione territorialmente limitata Camere di Commercio,
Enti per il Turismo, ecc.
svolgono, spesso per conto dello Stato, funzioni "istituzionali"
precise; altri ancora - i grandi enti economici (IRI, ENI, EFIM, ecc.)
- controllano larghi settori dell'economia. I poteri di tutti questi
enti derivano sempre, è bene non dimenticarlo, dall'ordinamento
dello Stato, o, in altre parole, dalla volontà politica dello
Stato tradotta in formule giuridiche.
Se si considerano questi fattoti, appare chiaro che mentre al termine
Stato inteso come ordinamento si può dare un significato preciso,
al termine Stato inteso come apparato si possono attribuire almeno due
significati, uno più ristretto ed uno più ampio: quello
più ristretto riferito solo all'amministrazione statale, ossia
all'apparato amministrativo direttamente dipendente dallo Stato persona
giuridica; quello più ampio, riferito a tutto il complesso dell'apparato
pubblico, comprendendo quindi, nella dizione di Stato-apparato, anche
gli apparati degli altri enti dotati di personalità giuridica
pubblica, sia territoriali (Regioni, Province e Comuni) che istituzionali
(Enti previdenziali, ecc.) ed economici. Per esigenze di chiarezza,
in questa sede, e proprio al fine di porre in evidenza - sia pure, com'è
ovvio, nelle grandissime linee - i rapporti intercorrenti fra le varie
componenti del sistema pubblico, lo Stato-apparato verrà inteso
nel significato più limitato, ossia come complesso di organi
direttamente dipendenti dallo Stato persona giuridica pubblica.
Rapporti assurdi
organizzazione paralizzante
A questo punto,
il discorso si riallaccia a quanto si è detto prima a proposito
della coesistenza, o della sovrapposizione, nel nostro paese, di almeno
tre Stati. Questo, purtroppo, è valido qualunque significato
si voglia attribuire alla parola Stato: noi abbiamo tre ordinamenti
statuali sovrapposti; e tre apparati statali egualmente sovrapposti.
Vediamo un pò di analizzarne, molto brevemente, gli aspetti essenziali.
Per quanto riguarda la sovrapposizione di tre ordinamenti, può
essere sufficiente dire che i primi due sono ordinamenti essenzialmente
accentratori, mentre il terzo è un ordinamento fondato in più
larga misura sui principi del decentramento. Anche questo è un
discorso che richiederebbe approfondimenti impossibili in un breve articolo.
Si può dire comunque che questa antitesi fra i tre ordinamenti
si manifesta, con conseguenze non certo positive, sia nei rapporti fra
gli organi centrali e gli organi periferici dello Stato che nei rapporti
fra lo Stato e gli enti locali: si manifesta con la scarsa autonomia
funzionale di molti organi periferici statali, con una serie soffocante
di controlli più o meno formali, e, soprattutto, con sovrapposizioni
di competenze che talvolta sconfinano nell'assurdo.
La cosa più grave di questa sovrapposizione, però, è
che essa è completamente in antitesi con qualsiasi criterio di
organizzazione moderna. Sia l'accentramento che il decentramento, insiti
nei tre ordinamenti sovrapposti, sono ispirati a principi ben lontani
da quelli che dovrebbero valere nell'epoca degli elaboratori elettronici,
dei centri e dei terminali collegati in "tempo reale", eccetera.
Proprio gli sviluppi tecnologici degli ultimi decenni, e in particolare
degli ultimi anni, che hanno reso possibili collegamenti prima impensabili,
non solo fra il centro e la periferia ma anche fra i differenti enti,
dovrebbero consigliare di rivedere, nel quadro della funzionalità
e non dei principi astratti, i criteri di ordinamenti contraddittori,
per eliminare ogni zavorra e gettare le basi di una nuova organizzazione.
Un confine evanescente
E' evidente che,
a questo punto, il confine fra l'ordinamento e l'apparato comincia a
diventare evanescente. In effetti, gli ordinamenti disciplinano l'organizzazione
e le attività degli apparati. Perciò non è sempre
facile condurre il ragionamento rispettando certi confini che, in alcuni
casi, appaiono chiaramente arbitrari (e che, comunque, appaiono giustificati,
molte volte, più da esigenze di chiarezza e di analisi che da
necessità di altro genere). D'altra parte, ora, può essere
opportuno esaminare gli apparati, pur senza perdere di vista gli ordinamenti.
Avvertendo che quando si parlerà di apparato statale si intenderà
l'apparato dipendente dallo Stato persona giuridica e, invece, quando
si parlerà di apparato pubblico si intenderà il complesso
costituito dall'apparato statale e dagli apparati degli altri enti pubblici.
E' noto che l'apparato dello Stato ha il suo fulcro in un'organizzazione
centrale, costituita da un certo numero di ministeri, ciascuno dei quali
è dotato di una sua specifica competenza. Le note dolenti cominciano
proprio da questa organizzazione centrale, che non si è formata
attraverso una progressione organica ma attraverso una serie di aggiunte
e di sovrapposizioni non sempre razionali. Bisogna aggiungere che, sebbene
la nostra Costituzione dica che "la legge fissa il numero e le
attribuzioni dei ministeri", non si è mai fatta una legge
organica per fissare i criteri ordinatori dell'organizzazione centrale
dello Stato. In un paese nel quale si sfornano leggi con una frequenza
veramente impressionante, non è stata ancora fatta - e non si
sa se e quando sarà fatta - la legge più importante, quella
che deve dire come deve essere fatto l'apparato di governo. Eppure,
sono passati quasi ventotto anni dalla promulgazione della Costituzione.
Il risultato di questo fatto non certo brillante è costituito
dall'esistenza di vari dicasteri di discutibile utilità, da sovrapposizioni
di competenze non necessarie e da molte complicazioni di cui sarebbe
molto meglio fare a meno. Può bastare qualche esempio. Il nostro,
tanto per cominciare, è l'unico paese occidentale con tre ministeri
finanziari (tutti gli altri ne hanno uno solo): quello del Bilancio
e della Programmazione Economica, quello del Tesoro e quello delle Finanze.
Già questa è una complicazione non necessaria. Però
ad essa bisogna aggiungerne un'altra, che, a voler essere ottimisti,
rende le cose paradossali. Di questi tre ministeri, il primo, quello
del Bilancio e della Programmazione, dovrebbe coordinare l'opera degli
altri due; però, l'organo tecnico idoneo ad esercitare le attività
di coordinamento e di controllo della finanza pubblica, la Ragioneria
Generale dello Stato, alla quale fa capo il cosiddetto "sistema
delle Ragionerie", non dipende dal ministero del Bilancio ma da
quello del Tesoro. In altre parole, questo significa che il ministero
teoricamente controllante non controlla e che un ministero teoricamente
controllato controlla. Cose che succedono nel nostro paese, ove la soluzione
più semplice, ossia quella dell'unificazione dei ministeri del
Tesoro e delle Finanze e della contemporanea trasformazione del ministero
del Bilancio in un ministero dell'Economia non viene nemmeno presa in
considerazione.
Sempre per restare nel campo degli esempi riguardanti l'organizzazione
centrale - o, se si preferisce, l'amministrazione centrale - dello Stato,
si può guardare quanto succede nel campo dei trasporti, sottoposti
alla giurisdizione di due dicasteri: quello dei Trasporti e dell'Aviazione
Civile e quello della Marina Mercantile. Ora, i casi sono due: o la
politica dei trasporti è un fatto unitario e allora deve bastare
un solo ministero; o è un fatto che presenta caratteristiche
proprie secondo ogni ambiente operativo - aria, terra e mare - e allora
i dicasteri devono diventare tre. La mezza misura di due dicasteri è
un'altra di quelle soluzioni ambigue che sono tipiche del nostro sistema
pubblico. Si potrebbe continuare a lungo, parlando, ad esempio, delle
sovrapposizioni di competenze fra il ministero degli Esteri e quello
del Commercio con l'Estero, o di quelle fra il ministero dell'Industria
e il ministero delle Partecipazioni Statali, ma quanto si è detto
è già sufficiente ad illuminare il quadro.
Un'occasione
sprecata
Con l'istituzione
delle Regioni a statuto ordinario, avvenuta alcuni anni orsono, si pensava
di poter conferire allo Stato nel suo complesso un nuovo equilibrio
più valido di quello preesistente. Forse mai un'occasione così
promettente è stata sprecata in un modo così misero.
Le Regioni sono nate con due tare di fondo, che in sostanza riflettono
la sovrapposizione degli ordinamenti di cui si è parlato: sono
nate come enti non sostitutivi di altri enti - ad esempio le province,
la cui utilità diviene sempre più discutibile - ma destinati
ad inserirsi in un paesaggio già fin troppo affollato; e sono
nate con confini che hanno un significato economico molto discutibile.
E' il caso di precisare brevemente questi due punti.
Nel quadro di un sistema pubblico di nuovo tipo, le Regioni avrebbero
potuto assumere un ruolo molto più fondamentale di quello che
finora hanno assunto. Ma questo sistema avrebbe dovuto essere basato,
da un lato, a monte potremmo dire, su una radicale riorganizzazione
dell'amministrazione statale, centrale e periferica, e dall'altro lato,
a valle potremmo dire, su una riorganizzazione altrettanto radicale
degli enti minori, con l'eventuale abolizione delle province e il raggruppamento
dei comuni in entità più forti e più rispondenti
alle esigenze odierne. D'altra parte, i confini delle regioni sono stati
determinati non in base a criteri di omogeneità economica delle
aree da amministrare - eppure esistevano precisi studi della CEE in
proposito - ma in base a criteri puramente tradizionali. Così,
dei nuovi organismi nati vecchi si sono sovrapposti ad una pletora di
altri organismi anch'essi invecchiati.
Si può obiettare che una nuova organizzazione, come quella ipotizzata
qui, non poteva, e non può, essere creata dall'oggi al domani.
Giustissimo! Ma quanti anni sono passati dall'entrata in vigore della
Costituzione ad oggi senza che si siano fatti veramente dei passi avanti
nella riorganizzazione del sistema pubblico?
I bilanci pubblici
Bisognerebbe aggiungere
molte altre -cose, ma, solo per elencarle, occorrerebbero dei volumi.
E' il caso solo di porre l'accento su qualche altra tara del nostro
sistema pubblico. O, se si preferisce, della nostra pubblica amministrazione.
Per esempio, si può parlare delle impostazioni finanziarie in
uso nell'ambito di tale sistema. O di tale amministrazione.
E' noto che i bilanci pubblici - sia quello dello Stato che quelli degli
enti minori - sono ispirati al principio della competenza: sono cioè
bilanci che contemplano il diritto a riscuotere determinate entrate
e la facoltà di contrarre, fino a certi limiti, impegni di spesa.
Ora il bilancio di competenza presenta senza dubbio dei vantaggi per
quanto concerne il controllo della correttezza amministrativa, ma ha
un significato molto scarso sotto il profilo economico: infatti, non
rispecchia nè previsioni di entrate effettive, nè previsioni
di spese effettive. Ora, in un paese nel quale si parla da anni, anche
in questo caso da tempo immemorabile, di programmazione, non sarebbe
,stato male adottare dei meccanismi - piani finanziari scorrevoli, eccetera
- più consoni alle esigenze della programmazione stessa. Se l'attività
finanziaria pubblica - che deve necessariamente costituire il fulcro
di ogni politica programmata - è basata su meccanismi inadeguati,
come si può pensare al successo della programmazione? A parte
il fatto che non esistono meccanismi di coordinamento fra la finanza
statale e quella locale. Nel nostro paese, però, il primo programma
economico pluriennale fu trasformato in legge dello Stato, con l'illusione
forse che questa patente giuridica potesse renderlo realizzabile anche
in mancanza di un'organizzazione adeguata. Se veramente si pensò
questo è meglio non fare commenti.
Responsabilità
della classe politica
Il discorso sui
mali della pubblica amministrazione è molto lungo e qui è
stato solo sfiorato. Non è stato possibile, per ovvi motivi,
dedicare nemmeno un breve cenno ad altri argomenti che pure avrebbero
meritato un pò di attenzione: alla riforma tributaria, concepita
per semplificare le cose e complicatasi inutilmente per strada, ed ai
suoi collegamenti con la finanza statale e locale; al groviglio del
parastato ed alla sua incidenza sui prelievi di risorse dai settori
produttivi; ai legami operativi fra la pubblica amministrazione e il
settore degli intermediari finanziari (banche, istituti di credito a
medio e lungo termine, ecc.), eccetera.
Qui, piuttosto, per porre termine ad un discorso che altrimenti rischia
di divenire eccessivamente lungo, è il caso solo di formulare
qualche breve considerazione di chiusura.
Come si è detto all'inizio, il primo male della nostra pubblica
amministrazione è costituito dall'indeterminatezza e dalla contraddittorietà
delle sue funzioni. All'origine di questo male c'è proprio quella
sovrapposizione di ordinamenti di cui si è parlato. Sarebbe stato
possibile eliminare questa sovrapposizione? E potrebbe esserlo oggi?
Certamente, si può rispondere. Era possibile ieri, se ci fossero
state idee chiare sugli scopi da raggiungere. E' possibile oggi, a patto
che si realizzi la stessa condizione. La principale responsabilità
di tutto questo - per il passato come per il presente e per il futuro
- appartiene alla classe politica. L'amministrazione pubblica può
fare solo ciò che le viene chiesto, con gli ordinamenti e con
i mezzi che le vengono dati. Se si considera tutto ciò, bisogna
ammettere che il vero miracolo è che essa stia ancora in piedi.
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