Donne magliesi pioniere di educazione civica




Alfredo De Donno



Che cos'è in fondo la beneficenza? Non è un fugace impulso caritatevole, secondo la concezione evangelica dell'"ama il prossimo tuo come te stesso", concezione del resto altissima di fraternità umana, ma è qualche cosa di più costruttivo, che getta le basi ideali di una società governata da princìpi morali profondamente educativi. Il benefattore è appunto la incarnazione di questa società ideale, che non nascerà mai dalla filosofia deterministica ispiratrice del materialismo storico, ma dalla grande matrice del libero arbitrio, ossia dalla capacità creatrice detta volontà umana.
Ci pensavo spesso, rievocando nella intramontabile memoria della lontana giovinezza le figure di tre donne di spiccata moralità, che iniziarono, si può dire, la vita civile della mia città natale. Concetta Annesi, Michela Tamborino e Francesca Capece. La buona e pia Concetta Annesi, di origine popolana, destinò i suoi beni ereditati dal sacerdote Pirtoli, del quale era stata domestica, alla Beneficenza di Maglie allo scopo di creare un Orfanotrofio "per il mantenimento delle fanciulle orlane e l'educazione di quelle povere". come si legge nel testamento del 1831, redatto dal notaio Francesco Minosi. Nel 1855 l'Orfanotrofio era già in funzione. Successivamente il bilancio dell'istituto, non cospicuo ma per allora autosufficiente, si arricchì col lasciato di Geronima Capece, sorella minore di Francesca. L'attuale movimento dell'Orfanotrofio ènotevole, perché si estende dal capoluogo magliese ai Comuni limitrofi, e perciò la benefica istituzione ha importanza provinciale. Non tutte le ricoverate sono a carico dell'amministrazione, perché un congruo numero di costoro ricevono il sostegno dette rette pagate dai parenti residenti altrove per ragioni di lavoro.
Con l'andar del tempo l'Orfanotrofio Annesi Capece ha ricevuto un più ampio sviluppo dall'originaria destinazione, prendendo l'aspetto di asilo e di collegio di educazione insieme. Io ricordo da ragazzo che gli orfanelli ivi ricoverati, accompagnati dalle suore assistenti, partecipavano a pubbliche manifestazioni, sereni e sorridenti, ed anche loquaci, ma sul bavarino di qualcuno si leggeva la precisazione anagrafica "figlio di ignoti". Forse le buone sorelle volevano, con quel motto inconsciamente diffamatorio, anticipare la augurata, ed ora attuale, legge riparatrice sul diritto di famiglia. Ma ora che il bilancio morale è stato sanato, bisogna provvedere a rendere attivo e prospero il bilancia finanziario. Per il momento questo augurio sembra problematico, perché il luminoso esempio delle benemerite iniziatrici non promette numerosi imitatori.
La Presidente del Consiglio di amministrazione, signorina Dina Colucci, ha premurosamente sollevato il problema del rinsanguamento del bilancio nella sua relazione al Sindaco del 15 marzo 1975, ed anche con portavoci giornalistici, sempre utili e opportuni per rendere di pubblica ragione la realtà della situazione, di cui si è ufficialmente responsabili. Poiché si tratta di una istituzione assistenziale che riguarda non solo il locale Comune, ma anche altri, è bene ricordare che la giurisdizione per tale materia è passata alla Regione. Siamo purtroppo ancora in fase di rodaggio e forse i cittadini non hanno, si può dire, "fatto l'orecchio" al senso ed al suono del principio autonomistico. Si suole infatti nelle quotidiane recriminazioni chiamare in causa lo Stato, ma bisogna mettersi in mente che il Governo siamo noi. Più decentrate sono le rispettive competenze e più sono cresciute le nostre responsabilità. Con l'inizio e lo sviluppo della legislazione sociale moderna il dovere della tradizionale "carità", che ha trovato tanti luminosi esempi nelle iniziative individuali, lo abbiamo già premesso, diventa dovere collettivo. Ma bisogna fare attenzione a non sciupare il calore umano e l'istinto materno del personale religioso di una volta col freddo e opaco automatismo della odierna burocrazia. Qualche eccezione degenerativa di false e fatue suore di carità, che di recente sono state protagoniste di clamorosi processi penali,, non deve indurci a fare di ogni erba un lascio. Chi ha avuto occasione di frequentare un ospedale
di grandi città avrà potuto vedere da vicino la differenza di comportamento fra personale laico e personale religioso. Giustizia
vuole che si renda a ciascuno quello che onestamente gli spetta.
Soprattutto in tema di assistenza pubblica dunque, ora che l'ordinamento regionale è in completa attuazione, il principio autonomistico deve trovare la sua piena efficienza. Il lontano, quasi remoto suggerimento del barone Liborio Romano ai consiglieri di Cavour a Napoli nel 1860 ha, si può dire, un ritorno di fiamma col riordinamento regionale. Afa allora l'arroganza piemontese non poteva ascoltare i saggi consigli di un autentico esperto amministratore, per quanto "terrone". Garibaldi invece lo aveva intuito, e se lo teneva caro, ma l'idillio durò poco; e mentre Garibaldi salpava per Caprera col suo sacco di semente, don Liborio se ne tornò a Patù, amareggiato, ma con la coscienza tranquilla. Ora, però tocca ai meridionali risolvere là questione meridionale, ed ai Magliesi curare gelosamente, direi con slancio in gara competitiva, lo sviluppo e il perfezionamento delle loro belle istituzioni.
Sicuro, in gara competitiva, come abbiamo appreso dalle dichiarazioni del Presidente dell'Ospedale Michela Tamborino", un'altra gentildonna magliese che volle arricchire la sua città natale di una istituzione di assistenza sanitaria con slancio di pioniera per il suo tempo. Sentivo dire da ragazzo che i familiari avevano cercato, con espedienti dilatori, di indurre la generosa signora a desistere dai suoi nobili propositi, o per lo meno a rimandare la pratica attuazione in altro tempo, forse con la speranza di raffreddarne: l'entusiasmo. Ma donna Michela tenne duro, e l'ospedale nacque, splendido retaggio dei posteri. Una nuova ala ha ampliato l'antico edificio, moderne attrezzature lo hanno elevato ad un alto livello fra gli ospedali della Provincia, e la provvidenziale istituzione ha perciò assunto una importanza che non può non suscitare l'interesse delle popolazioni salentine. Il reparto infettivi, di recente istituzione, ha degnamente arricchito la rinomanza già notevole del nosocomio, oltre la cerchia cittadina. Naturalmente un'altra donna, Clementina Palma, continuò l'esempio dell'iniziatrice Tamborino, peché prima di morire, rifece e corredò a sue spese la sala operatoria dell'ospedale. Ma qualche nome maschile non manca fra i benefattori, quello per esempio di Leonardo Scilardi, oriundo leccese e magliese di elezione. Egli donò i suoi beni all'ospedale, e la cittadinanza tutta sarebbe stata lieta di salutare, memore e grata, la munificenza di qualche locale latifondista, ma non lo può fare per non rompere la poco lodevole consuetudine del "mèno dà chi più possiede". Comunque la nobile gara è sempre aperta, e gli uomini beati possidenti non si lasceranno sorpassare d'alle donne.
Ed eccoci all'astro più fulgido del firmamento femminile magliese: Francesca Capece. Nel 1843 la Duchessa Francesca Capece, maritata al Duca Antonio Lopez di Taurisano, senza prole, legò ai Gesuiti tutto il suo cospicuo patrimonio, precisando che le rendite fossero devolute alla fondazione di un Istituto di istruzione. Per curiosità storico-biografica ricorderemo che il casato della nobildonna si ornava dei seguenti titoli feudali: Baronessa di Maglie, Duchessa di Taurisano e Marchesa di San Marzano. Ma tutti questi titoli automaticamente caddero con l'atto di donazione, e simbolicamente le rimase quello di Principessa della Pubblica Istruzione. E si deve infatti sottolineare che la Duchessa nello scegliere i suoi esecutori testamentari non preferì i Gesuiti per vocazione religiosa particolare, ma per fiducia nella laboriosità e spirito di iniziativa della famosa Compagnia. Tanto è vero che Ella seguì le mosse dei Gesuiti perché corrispondessero alla sua fiducia, decisa a revocarla nel caso essi non si fossero scrupolosamente dedicati all'attività scolastica, scopo precipuo della donazione. Senonchè, mentre la generosa donatrice sperava in un placido tramonto della sua vita, l'improvvisa bufera del Quarantotto minacciò di travolgerla in una svolta drammatica e romanzesca.
Nella bella e dotta orazione, che il professore Salvatore Panareo tenne per celebrare il centenario dell'Istituto Capece, si trovano tutti i dati della memoranda vicenda, che dalla dispersione dei Gesuiti con relativo incameramento del loro beni si minacciò di annientare la munifica donazione. I beni della Duchessa erano diventati beni dei Gesuiti.
Perciò con la loro confisca rischiava di essere confiscata la pubblica istruzione, tanto ardentemente desiderata dalla nobile donatrice. E ci volle tempo e tenacia per restituire alla Fondazione Capece un chiaro riassetto amministrativo, dal quale poi nacque il Liceo Ginnasio che seppe meritarsi una gloriosa esistenza. Così l'albero piantato nel 1863, con la legittima rivendicazione da parte del Comune del paradossalmente confiscati beni della Duchessa Capece, ebbe, in seguito una rigogliosa ramificazione.
Si può dire che tutta la vita civile di Maglie, estesa fino all'estremo lembo del Capo di Leuca, ha avuto per centro motore l'Istituto Capece. Dalla fioritura di un artigianato artistico, alimentato dalla rinomata Scuola d'Arte e Mestieri, di cui fu animatore Egidio Lanoce, a tutta la profilicazione complementare dell'insegnamento classico e scientifico. Il Liceo-Ginnasio Capece, per serietà e severità di studi, che col Preside Pietro Pellizzari ebbe il suo vero primo vitale impulso, ha raggiunto una brillante rinomanza a raggio regionale, valicando anche i confini del Salento.
Cari, indelebili ricordi, anche se lontani. Si studiava molto allora, e non si contestava affatto. Contestare per chi, per che cosa? Assolutamente impensabile poi per una ragione disciplinare. "Vada dal Preside!". Ci andai. Il mio Preside era Giuseppe Gabrieli, l'illustre orientalista, che da Maglie passò alla romana Accademia dei Lincei. Tentai di giustificarmi, ma un secco perentorio "Tacete!" mi chiuse la bocca. E il mio indimenticabile insegnante di Italiano Pasquale De Lorentiis? Bonario, sempre assorto, un occhio semichiuso per filtrare lo sguardo da miope e illuminare con l'altro vivido il viso acceso e affinato da una rada arguta barbetta, costantemente tormentata dalle dita nervose. Era poeta, filodrammatico, sportivo. Recitava Dante con calore e finezza di teatrante. Dopo il dolcissimo e sensuale "La bocca mi baciò tutto tremante", il quasi soffiato "E caddi come corpo morto cade", che poi sentii recitare con lo stesso tono da Ruggero Ruggeri. Un giorno De Lorentiis convocò gli studenti nel salone dell'Istituto, gremito anche di pubblico vario, per ascoltare la dizione del suo poemetto Banzai Nippon, composto per celebrare la vittoria del Giappone nella guerra russo-giapponese del 1904. Versi frementi di echi carducciani, ispirati da sdegnosa protesta contro l'autocrazia czaristica e da ammirazione per la impetuosa trionfale vitalità di un popolo nuovo.
E' doveroso ricordare qualche nome di allievi dell'Istituto Capece che sono emersi per fama nella scienza, nelle lettere, nelle arti. Quelli, per esempio dei clinici Bottazzi e De Blasi di rinomanza internazionale, nati nell'estremo lembo del Capo di Leuca; dello squisito acquarellista Casciaro, che immortalò nei suoi lavori impressionistici pittoreschi scorci della sua terra natìa. E non va taciuto il nome dello scultore Mangionello, nato Mangione, che poi ottenne per legge di ringentilire il primitivo più rozzo cognome, essendo il vincitore del concorso per il monumento a Benedetto Brin. Il giurista Pantaleo Gabrieli di Calimera fu eletto dai magistrati membro dell'Alta Corte Costituzionale e morì ancora in carica. Insieme con Lui ricorderà un altro "primo della classe" nell'antico Procuratore del Re Gino Miglietta, che esercitando magistratura a Pavia in tempi difficili, mi sembra nel 1925, ritenne suo dovere Perseguire e punire per la prima volta gli squadristi fascisti propinatori di olio di ricino agli oppositori, e perciò responsabili di violenza privata. Ma il servile ministero della così detta Giustizia lo
trasferì in Calabria. Il locale giornale del regime credette offenderlo pubblicando la notizia che il coraggioso magistrato era partito senza i loro onori. Ma il caro Gino inviò una lettera in cui diceva: "Me ne vado senza i vostri onori che non ho mai chiesti, ma col mio onore che non ho mai perduto". Lapidario. Il magliese Gino Miglietta, che non faceva politica militante, ma si professava scrupoloso servitore della legge, deve essere ricordato come un precursore della Resistenza. Sappiamo che nuove energie riaccendono la fiaccola della poesia fra allievi e insegnanti dell'Istituto Capece, ma come non ricordare il nome di Francesco Negro, insegnante, poeta, musicista? Col suo verseggiare guido, melodioso, esuberante sembrava che il suo spirito giovanile lottasse vittoriosamente per liberarsi dalla prigione del suo corpo minorato.
Di tutta questa poliedrica vitalità intellettuale insomma l'Istituto Capece resta sempre il centro motore, che fa sentire le sue robuste vibrazioni dalla Terra d'Otranto in su. E la morale di questa storia luminosa ci induce alla seguente conclusione. Tre Donne magliesi hanno dato l'avvio alla istruzione pubblica, all'assistenza sociale, alla vita civile di tutto il Salento. La gentilezza femminile ha precorso i tempi, gettando le basi di ciò che con linguaggio moderno si chiama educazione civica. Francesca Capece, Concetta Annesi e Michela Tamborino dunque non sono vissute invano, e i loro nomi sono ormai indelebilmente scritti nella storia della civiltà salentina.

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