§ Il Mezzogiorno e la crisi

Quale strategia




Dario Giustizieri



Nuova legge per gli interventi straordinari, incentivi per la ripresa economica, interventi per la riconversione e la ristrutturazione industriale, riscoperta dell'agricoltura, progetti speciali, rilancio del turismo: ma il Sud è al centro degli interessi nazionali, o sta per essere definitivamente emarginato? Gli stregoni della politica e della politica economica dicono di no. Intanto, il tempo passa, i problemi si aggravano, i programmi slittano. E lo Stato ha le tasche vuote.


"Nel Mezzogiorno devono essere dislocati non solo gli incrementi di potenziale produttivo nazionale, ma anche la maggior quota possibile degli investimenti sostitutivi della capacità esistente". Così ha dichiarato il ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, Ciriaco De Mita, il quale ha aggiunto: "Questo potrà comportare una disoccupazione transitoria (peraltro coperta dall'istituto della garanzia del salario) nel Nord, in tutti quei casi in cui la ristrutturazione e riconversione in loco non sono giustificabili nè sul piano economico ne su quello della politica di riprogrammazione dell'assetto produttivo del paese. Ma non vi sono alternative, se non si vuole la definitiva emarginazione delle regioni meridionali".
Quale strategia, dunque per il Sud? Il ministro si è detto convinto che la politica di sviluppo meridionale dovrà essere orientata verso le attività industriali: e proprio verso quelle per le quali più grave è il divario rispetto al Nord e alle aree europee altamente industrializzate; e ha richiamato al dovere della consapevolezza che questa nuova e decisiva fase dell'impegno per il Mezzogiorno avrà un suo prezzo: il richiamo vale soprattutto per il Nord e per quei comportamenti sindacali (come il salvataggio della "Innocenti") tesi a conservare i livelli occupazionali tout court, e non in prospettiva. Per il massimo responsabile della politica di intervento nel Sud, è evidente che quanto è stato fatto finora per il Meridione è stato del tutto inadeguato. "E' vietato continuare a credere di far salire, con gli interventi straordinari, il piatto più basso della bilancia di un sistema economico dualistico come il nostro, spezzato in due aree sviluppate in maniera diversa. L'occasione è storica: il riequilibrio produttivo sarà realizzato, una volta per tutte, ora, con la riconversione", o mai più. La direzione non può essere che quella della crescita industriale. Nelle zone depresse neanche l'agricoltura può svilupparsi se non si inserisce nel reddito una componente industriale, nè ci si può illudere di bloccare diversamente l'emigrazione: le persone si muovono sempre secondo le convenienze economiche dettate dalla realtà".
Il dibattito meridionalista apertosi in questa fase autunnale si è arricchito di numerosi interventi. Per un altro ministro, quello del Bilancio e Programmazione Economica, Morlino, ci sono tre novità di fondo: la concreta disponibilità su cui si può contare di una legge già approvata dal Parlamento "per la continuazione, il rinnovamento e l'articolazione dell'intervento straordinario nel Sud"; la contestuale discussione e la definizione di un tipo di intervento nella riconversione industriale con cui il governo vuol dotare il paese, per la prima volta, di una vera e propria politica industriale; e "la ripresa di una politica di piano come alternativa a politiche soltanto congiunturali, sempre negative per il Sud". L'esigenza di novità, ha aggiunto, non deve far dimenticare le scelte di fondo che sono all'origine della nostra esperienza democratica: l'inserimento dell'Italia in un'economia aperta e in processi di integrazione internazionale; la scelta di un'economia di mercato, senza anacronistiche spinte autarchiche; la scelta di ritenere lo Stato responsabile dello sviluppo complessivo del paese.
A questo punto, ha detto Francesco Compagna, intervenendo a distanza nel dibattito, vanno pronunciate alcune di quelle verità che non si vorrebbero sentire, ma che si devono pur dire: una va detta ai sindacati a proposito della politica degli alti salari che alimenta il lavoro nero; un'altra a chi segue la logica sostanzialmente antimeridionalista. come nel caso della "Innocenti", come per l'Alfa Sud e il suo cospicuo assenteismo, come per chi insiste nella politica dello spreco volendo ad ogni costo la costruzione del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro; un'altra verità va detta alle Regioni, perchè è necessario che "si mettano in regola circa la capacità di realizzare gli interventi ordinari loro assegnati dalla Costituzione; un'ultima verità va rivolta al governo che, se aggraverà ulteriormente la spesa corrente (ad esempio, con i contratti del pubblico impiego) darà all'inflazione una spinta fatale. Non è un mistero, dice l'illustre meridionalista, che lo Stato ha le tasche vuote e senza una lira non si può fare politica economica, e tanto meno politica meridionalistica.
A questo punto, una serie di quesiti: si vuole una riconversione generalizzata o limitata ad alcuni grandi settori? e se solo per settori, quali saranno preferiti? quelli in grado di ridurre le importazioni o quelli in condizione di soddisfare la domanda di servizi sociali o quelli ad alto contenuto tecnologico? la riconversione deve frenate oppure no l'emigrazione verso il Nord? di quali strumenti si deve servire? Dei soliti o di nuovi? Deve essere guidata sia politicamente che tecnicamente da un solo organismo, o no?
Alcune risposte le dà Napoleone Colajanni: "Una politica di riconversione industriale - dice - deve tendere in primo luogo ad una industria più competitiva, e per raggiungere questo risultato occorrono maggiori investimenti, selezionati secondo rigorosi criteri qualitativi. Infatti, per spiegare le difficoltà attuali non basta riferirsi alle differenze di costo del lavoro". In secondo luogo, l'asse dell'industrializzazione va spostato a Sud, perché "non esiste la possibilità che una parte dell'industria viaggi su livelli competitivi a scapito del sottosviluppo meridionale, perché quest'ultimo incide e inciderà sempre più sull'intera economia nazionale. Bisogna quindi prevedere una costanza dell'occupazione al Nord e nelle aree industrializzate e una sua espansione nel Mezzogiorno. Recupero di efficienza e nuovo sviluppo richiedono un forte momento di programmazione".
Sindacati e Confindustria. Per i primi, la Cgil sostiene la necessità di un quadro di sviluppo esplicito e chiaro, nel quale "non deve assolutamente apparire un processo di ripresa caratterizzato dalla riduzione della base produttiva e dell'occupazione: qualora ciò si dovesse prefigurare, i sindacati richiederebbero un'immediata modifica delle scelte attualmente portate avanti". Per la Confindustria. il responsabile per i problemi del Mezzogiorno, Giustino, dopo aver rilevato che il Sud ha bisogno di nuovi investimenti per creare posti di lavoro, si èchiesto in che direzione debbano essere indirizzati, in quali settori, per produrre che cosa e per chi. Mentre al primo quesito è facile rispondere, ha affermato, per gli altri sono in atto - non solo in Italia, ma in tutto il mondo - studi diretti a dare una risposta alle nuove istanze. Le maggiori difficoltà, per gli imprenditori privati, si incontrano nel momento in cui devono essere decisi i tipi di produzione e i mercati in grado di assorbite i prodotti, tale è la concorrenza a livello planetario, e tanto sofisticate sono le tecnologie produttive.
Infine, due meridionalisti. Il primo, Pasquale Saraceno, economista di livello europeo; il secondo, Vittore Fiore, esponente di quel gruppo di intellettuali che viene dalla scuola di Dorso, Fortunato e Salvemini.
Per Saraceno è stato giustamente osservato che i risultati che possono essere attesi dalla nuova legge per il Sud saranno strettamente correlati al tipo di volontà politica che presiederà alla sua attuazione e all'efficienza di cui saranno dotati tutti gli organi e i soggetti cui la legge stessa si riferisce. "Non si può però non sottolineare - ha detto - che, comunque, occorre porsi alcuni interrogativi: è possibile nell'attuale situazione pervenire, entro la data stabilita, all'approvazione dei programmi? i programmi devono essere costretti entro i limiti delle risorse assegnate? data l'incertezza della situazione economica, si può immaginare che periodicamente (ad esempio, ogni anno) i programmi vengano riveduti, nuovi obiettivi vengano posti, e nuove decisioni siano prese? Dalla risposta a queste domande, secondo Saraceno, dipenderà il futuro delle regioni meridionali. Se non tutto il futuro, buona parte di esso.
Altre domande sono poste da Vittore Fiore: la legge, egli dice, avvia un processo di regionalizzazione, in un momento di indebitamento catastrofico degli enti meridionali. Questi enti, sapranno servirsi dell'intervento pubblico per affrontare in modo produttivo vecchi e nuovi compiti? sapranno organizzare la domanda pubblica per la creazione di infrastrutture di base per la crescita delle capacità operative? Non è quindi da considerarsi prioritaria la predisposizione di un "progetto speciale" per lo sviluppo di strutture tecnologiche nelle regioni meridionali? E ancora: sapranno le regioni del Sud cogliere tutte le opportunità che la legge offre loro per superare le proprie carenze organizzative, per adottare metodi moderni di amministrazione e di gestione dei servizi, per applicare i controlli sui risultati di piani e progetti, e infine per il lavoro complessivo di pianificazione regionale integrata?
Per il Mezzogiorno, dunque, ci si interroga ancora: come accade da oltre un secolo in una storia che si ripete con drammatica puntualità. Quale strategia, o quali strategie? La strada da percorrere è tutta in salita, dice Compagna. Bene: non saranno certo decine di migliaia di giovani meridionali (operai, diplomati, laureati) a rifiutarsi di percorrerla. Purché si sappia dove va a finire, e che cosa c'è là dove finisce. Non saranno milioni, di emigrati a opporsi al cammino, perché essi il "cammino della speranza" lo hanno fatto, pagando di persona: purché cessino le emorragie che hanno spopolato intere aree meridionali. Questione di volontà politica, si dice. Ed è in gran parte vero. C'era un solo, lunghissimo albero nel deserto americano in cui fu installata la prima di centinaia di grandi industrie elettroniche. Da quell'albero ha preso il nome la più grossa concentrazione urbana e industriale dell'America moderna: Palo Alto. Tutt'intorno, un'agricoltura meccanizzata, irrigata, selezionata dalla ricerca scientifica, dà redditi da capogiro e offre le sementi per quella "corn belt" che è la cintura del mais che va dall'Atlantico al Pacifico, producendo più cereali di quanti può rendere l'Ucraina, dove il grano si raccoglie ben due volte all'anno. Tutto questo è economia moderna, è produrre razionalmente, è volontà di "far politica e politica economica": esattamente il contrario di quel che avviene da noi; e, forse, il contrario di quel che si vuol fare, riconversione industriale o no, rilancio economico o meno, del Mezzogiorno.


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