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§
IL CORSIVO
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L'una tantum dell'emigrato |
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Sergio
Zavoli
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Mario Frau, questo
disoccupato di Nuoro che in una casa di Milano depone sui materassi, in
cucina, un figlio di due anni e un altro di tre, rincalza loro le coperte,
li bacia e quindi apre il rubinetto del gas lasciandosi morire accanto
alle sue vittime - non si saprà mai se addormentate da una favola
o dal veleno che lui ha liberato - è uno di quei "pazzi di
miseria" che la gente ben nata si rifiuta di giudicare perché,
colpita dall'orrore del gesto, non ha tempo né voglia di occuparsene
più di tanto: "I figli, vivaddio, poteva risparmiarli; cosa
c'entravano loro, povere creature". Infatti, non c'entravano. Così
come, nella vicenda di Marzo Frau, non c'entrava in particolare nessuno:
non la moglie, che forse aveva le sue buone ragioni per dormire nell'atrio
della stazione con un figlio avuto da un altro uomo; non la fabbrica,
l'officina, la bottega con la scritta "non si assume".- non
il compagno, o il vicino di casa, che pure lo aveva sentito dire "una
volta o l'altra mi ammazzo con tutti quanti". E neppure Milano, una
città imbronciata nei suoi problemi; non chiusa, ma non più
disposta a intrattenerti e nemmeno, forse, a trattenerti. I meridionali a Milano, al contrario, non sono più gli uccelli sul ramo, sempre pronti a tornare. Vogliono essere di casa, ostentano con la città una confidenza che non hanno; alle prese con la velocità di una lingua che non capiscono; relegati nel quartiere che tenta di ripetere il luogo di origine, ma che non è più borgo, vicinato, mutualità spontanea, rapporto personale. Questa gente, così giovane e così antica, è preda di molte provocazioni. Milano è enorme, le sue strade di periferia non si estinguono nei campi, ma entrano in altre città. Qui, dove tutti i rancori sono possibili, gli immigrati hanno scoperto che al Nord si può fare giustizia del Sud; qui, dove il passaggio dall'indistinto reticolo popolare alle maglie già salde della piccola borghesia avviene quasi per contatto, la gente del Sud avverte che il salto è possibile, che è a portata di mano. Ma il salto, qui, era costato la lotta di generazioni operaie e non è oggi realizzabile attraverso la "facilità" in cui finisce, falsamente lusingata, l' urgente rivalsa contadina. Tutto, a Milano, era passato attraverso la solidarietà laboriosa, la protesta organizzata, l'utopia del possibile. Questi giovani dell'"altra Italia" non hanno, né forse potevano avere, i sogni razionali dei poveri che qui si sono liberati. Ad essi, dunque, tocca il duplice peso di rifiutare la propria storia e di entrare in un'altra: in un'altra che nel frattempo si è fatta dura, anch'essa, quasi quante la loro. Mario Frau non si è scontrato con la fabbrica, con l'officina o con la bottega; il cartello su cui sta scritto "non si assume", stavolta, non l'ha messo il padrone, ma la crisi: non c'è operaio disoccupato, a Milano, che oggi lo strapperebbe dal portone. Il sindacato ha il suo daffare a Roma e i consigli di fabbrica fanno miracoli per capire quel che gli vien detto da tanto lontano. Chi lavora stenta a difendere il posto; chi non lavora può solo sperare di sottrarlo a qualcuno. Per Frau, a Milano, oggi non c'è spazio. Storie come la sua, dunque, si sarebbero potute risolvere prima, tutti insieme, quando ancora sarebbe stato possibile; e una volta per tutte. Questa "una tantum", invece, per un disastro tutto prevedibile, oggi la pagano solo i Mario Frau. |
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