§ Artigianato e arte nel Salento

Cartapesta e ferro battuto




Enzo Panareo



La tradizione dei maestri di bottega leccesi - I "santi di carta" nei giudizi di Giovanni Papini, Alfredo Panzini e Vincenzo Ciardo - Le "illuminazioni" nel ferro e nel rame sbalzato di Antonio D'Andrea.

Malgrado il giudizio ferocemente iconoclasta di Papini, quelli più misurati di Alfredo Panzini e di Vincenzo Ciardo, malgrado i tanti interventi della pubblicistica locale che ampiamente se n'è occupata, i prodotti della cartapesta a Lecce, come fenomeno tipico di artigianato locale diffuso per circa due secoli, non hanno ancora trovato una loro sistemazione critica.
Auspicava, infatti, il Papini che fossero rase "al suolo le manifatture che a Lecce ed altrove fabbricano l'esose e sacrileghe statuette di cartone romano" affinché si potesse avere "diritto di parlare d'una rinascita dell'arte sacro italiana": lo scrittore fiorentino, colpevolmente superficiale data proprio la sua fiorentinità, passava sul fatto che l'arte sacra, che all'Italia ed a Firenze ha dato momenti d'irripetibile splendore, nasce da una concezione tutta interiore del sacro, quasi del tutto sconosciuta al Novecento, e che non sarebbe stato sufficiente demolire le innocue botteghe dei cartapestai leccesi per restituire all'arte sacra italiana quello splendore. Il Panzini, subito dopo, bonariamente osservando i santi leccesi di cartapesta, rilevava che "Questi santi e sante, immersi nella contemplazione del cielo, evidentemente ignoravano i progressi dell'arte", mentre, molti anni dopo, Vincenzo Ciardo, salentino, con spirito ancora più critico, rilevava che "Non sarebbe ragionevole voler giudicare i prodotti dell'artigianato leccese della cartapesta coi medesimi criteri seguiti per le creazioni vere e proprie dell'arte. E nemmeno generoso, dato che il cartapestaio non ambisce ad un rango che non gli compete": dove, però, il famoso pittore restava un po' indietro rispetto a certe, palesi oppure occulte ma facilmente trapelanti, ambizioni di certi cartapestai leccesi dello scorso secolo ed anche del nostro.
In realtà, a Lecce, a proposito della cartapesta, di quest'attività artigianale, tutto sommato fascinosa perché traeva da una materia umile figure che all'improvviso realizzano un attimo di rapimento destinato, però, a spegnersi subito, sempre di arte si è parlato, trascurando in queste figure, ricavate dall'impasto e dalla dipintura della carta pazientemente lavorata e modellata, quel tanto di stucchevole, di rigido, di fermo nel vuoto di un cielo che non c'è, di' una volontà artistica che non è riuscita, forse non proprio per ragioni di materia, ma di interiore spinta, a suscitare la scintilla di una fantasia creatrice che dà alla materia, qualunque essa sia, il segno della verità: conseguenza, forse, di una tradizione culturale, controriformistica ed accademica, che tutto ha chiesto alla forma senza nulla chiedere alla sostanza.
C'è, in altri termini, nelle statue e nei gruppi che comunque si ammirano nel chiaro- scuro delle cavità degli altari barocchi nelle chiese leccesi e della provincia una concezione della santità ingenua, ma tutta esteriore, scoperte, magari immediatamente commovente, nella quale, però, il popolareggiante di certi motivi scultorei, pittorici e decorativi, si conclude nell'effetto facile ed effimero, in una rappresentazione artificiosa del sacro che non riesce ad andare oltre una concezione immanente della vita. Si sente, cioè, che certi rapimenti di santi e di madonne, certa miracolistica scenografia, certi attributi del trascendente, particolarmente quelli che sollecitano la facile commozione e persuasione, restano sulla terra e si sente, purtroppo, che pur nella graziosa minuziosità della decorazione barocca degli altari, cornice adatta a quei santi e a quelle madonne modellati dai cartapestai leccesi
sono proprio quegli altari barocchi.
Il trionfo del profano, in definitiva, dove il misticismo si acquista facilmente!
Arte di bottega, certo, quella della statuaria in cartapesta, ed il termine non dovrebbe aver nulla di riduttivo. C'è, infatti, che l'arte sacra quella per il cui recupero pensava di battersi Papini -, quando, nel Due e Trecento, è stata veramente tale, è riuscita a trasformare le botteghe - si pensi a quelle fiorentine e senesi in basiliche. Le botteghe leccesi, invece, quelle dalle quali fino a pochi anni or sono uscivano santi e madonne, restavano irrimediabilmente botteghe, suggestive, non c'è dubbio, soltanto però per certo mistero di materiali, attrezzi ed odori di colla e di bruciato, tra i quali il cartapestaio, intento al suo paziente lavoro, trascorreva la giornata.
Forse, più che nei santi e nelle madonne, il cartapestaio leccese ha rivelato l'ingegno, addirittura l'estro creatore, il senso della verità cui non sfugge il significato della vita, nei pastori da presepe. Ma in queste raffigurazioni siamo nel profano e siamo, altresì, in una tradizione che, occupando una vasta area geografica - si pensi ai pastori napoletani del Settecento -, è riuscita a diventare, malgrado l'anonimato prevalente degli artigiani, autentico valore culturale.
Arte, dunque, senz'altro no, malgrado i clamori di certa pubblicistica locale che, sull'onda dell'entusiasmo municipalistico, non ha saputo, per difetto di spirito critico, superare il pregiudizio di un artigianato cui soltanto una tradizione spirituale e culturale diversa ed una personalità forte, prorompente, dotata di senso della creazione, avrebbero potuto consentire di diventare arte. Eppure, non è che mancassero ad alcuni cartapestai leccesi la conoscenza del modellato, del quale, peraltro, hanno lasciato apprezzabili testimonianze, e buoni elementi del disegno.
Non, però, che con tutto ciò si debba assolutamente sottoscrivere la ferocia papiniana che oggi, cori le esperienze acquisite, fa appena sorridere!
Con la cartapesta, d'altronde, si cimentarono a Lecce, già nel Settecento, ingegni in qualche caso di rilievo, sul filo di una pallida tradizione che se si è spenta naturalmente, ed anche senza lasciare eccessivi rimpianti - che non siano quelli, legittimi, degli studiosi di cose locali -, è stato perché il tempo, con la sua implacabilità giustiziera, non le ha riconosciuto un valore culturale che, in realtà, non c'era.
La cartapesta, i suoi minuti ed ingegnosi processi di lavorazione, certa rifinitura paziente che badava all'effetto immediato più che al valore scultoreo e pittorico con i quali qualificare l'opera, sono passati a Lecce attraverso personalità in qualche caso anche vigorose, le quali hanno lasciato opere di eccellente fattura.
Da Pietro Surgente, Mesciu Pietru te li Cristi, morto a 85 anni, nel 1827, che si cimentò anche con la terracotta, ad Achille De Lucrezi, che tenne bottega al Vicolo del Marescallo, nella vecchia Lecce nella quale le botteghe dei cartapestai si annidavano per lasciare alle fette di sole, che prepotentemente s'inserivano passando tra una colonna angolare ed un balcone barocco, i tralicci delle statue da asciugare mentre a mano a mano diventavano santi e madonne, la cartapesta cominciò a realizzare quella sua modesta concezione del sacro che l'avrebbe caratterizzata fino al naturale estinguersi.
Il De Lucrezi tenne addirittura cenacolo nella sua bottega nella quale convenivano. per lunghe ed accese discussioni di carattere artistico, ma anche per inconfessabili pettegolezzi, poeti, scrittori, giornalisti, pittori e musicisti, i quali nella seconda metà dell'Ottocento e nei primi del Novecento rappresentavano il fior fiore della cultura leccese. Si creava così, nella bottega del De Lucrezi, un'atmosfera di serena intellettualità che, tutto sommato, non poteva non suscitare l'orgoglio del cartapestaio. Afferma a questo proposito il Ciardo: "Una certa aria di bohème provinciale, vivace e spregiudicata, conferisce all'ambiente una fisionomia sui generis, che attira interesse e simpatia".
Ma prima del De Lucrezi, aveva operato con la cartapesta Antonio Maccagnani del quale il più famoso Maccagnani, Eugenio, lo scultore di ottimo livello, era nipote.
Che il De Lucrezi sia stato della cartapesta leccese "il maestro rinnovatore (il primo)", secondo l'opinione di un ricercatore, non c'è alcun dubbio, se si tiene conto del fatto che fu appunto il De Lucrezi ad approfondire sia sul piano della scultura che su quello della pittura la ricerca di soluzioni più idonee ad avviare l'esercizio della cartapesta sull'improbabile cammino dell'arte. La Sacra Famiglia, nella Cattedrale di Brindisi, conferma un impegno che va ben oltre i moduli stereotipati nei quali quasi tutti i cartapestai, specialmente quelli venuti dopo il De Lucrezi, erano caduti o cadranno. Il gruppo della Sacra Famiglia rivelo, infatti, una plasticità di buona scuola ed un senso del ritmo compositivo veramente originale.
Di Giovanni Andrea De Pascalis, vissuto nella seconda metà dell'Ottocento, il Gigli scrisse che "dette alla cartapesta un sentimento mondano", cogliendo in tal modo l'autentico significato dell'operare del De Pascalis, il quale aveva appreso il disegno e la modellatura nella stabilimento di Ceramica Paladini e l'esercizio della cartapesta nella bottega del De Lucrezi. Morì giovane, a soli 33 anni, ma già aveva dato, con lo studio al quale si era tenacemente applicato, opere di buon livello.
Fu con la diffusione delle missioni cattoliche, dunque delle chiese, che si dovevano affollare con santi e madonne dalla facile suggestività, che la cartapesta leccese varcò l'Oceano, ma fu allora anche che si pose su di un piano industriale che ne avrebbe ancor più limitato le già scarse potenzialità artistiche.
Se di periodo d'oro, infatti, si vuol parlare per la cartapesta leccese, è all'Ottocento che bisogna rifarsi, in quel periodo bisogna cercare esemplari che facciano della cartapesta un momento minore, ma irripetibile dell'impegno diciamo così artistico, ed anche del costume, leccesi. Fu nell'Ottocento, infatti, che nelle botteghe di questi artigiani, forti di una loro dignità professionale, si sviluppò un discorso autentico nel quale, se non l'arte, certe più o meno confessate aspirazioni, allevate nel calore di amicizie salde ma anche in certa legittima gelosia per i segreti del mestiere, timidamente prendevano corpo.
Con Giuseppe Manzo, Luigi Guacci e qualche altro siamo ormai al Novecento e la cartapesta leccese è del tutto diventata una industria. La bottega, di romantico sapore ottocentesco, luogo di amabili conversari, lascia il posto allo stabilimento nel quale la cartapesta è modellata come il cartone romano e il carton pièrre francese. I pochi lavoranti, apprendisti desiderosi d'imparare i segreti del mestiere, diventano numerosi negli stabilimenti e l'elaborazione delle statue diventa più un fatto collettivo che individuale.
Eppure, da questi stabilimenti escono ancora buoni prodotti. Vanno ricordati alcuni gruppi di Carmelo Bruno. La Pietà, per esempio, o Il transito di S. Giuseppe, fortemente plastici, nei quali la cura dei particolari non scade mai nel banale, ma resta in una essenzialità che rivela la maestria del cartapestaio.
Ma a poco a poco le botteghe, o gli stabilimenti come ormai si chiamano, vanno chiudendo: il tramonto della cartapesta, anche per oggettive ragioni di domanda, è inevitabile.
Oggi restano sugli altari barocchi leccesi, ma anche sugli altari di mezzo mondo, le statue dei cartapestai leccesi. Esse testimoniano dell'incerto nascere, del vigoroso progredire e dell'inevitabile decadere di una forma di artigianato che non si è mai tradotta in arte. Ma i santi e le madonne di questi cartapestai, gruppi e singole figure dal sangue e dalla lacrima facile, dal modellato a volte sicuro a volte invece incerto, sono ormai divenuti, nella consapevolezza cui il mondo moderno è pervenuto, i silenziosi mediatori di una lede che cerca altre e più certe dimensioni.
Artigianato locale anche quello del ferro, che però a Lecce trovò la personalità che lo avrebbe portato a diventare espressione d'arte.
Il ferro che diventa duttile nelle mani dell'artefice dopo che è diventato idea nella sua coscienza, il ferro che docilmente si piega alla volontà dell'artefice passando per il fuoco vivo che è tutt'uno con quello della creazione, il ferro divenne nell'ispirazione di Antonio D'Andrea, prima che nelle sue mani, arte.
Si tratta, nel complesso. di un'avventura emozionante che parte dalle lontane origini dell'uomo, quando il ferro distinse un'era, una civiltà addirittura, ed arriva, attraversando le inquietudini creative dei secoli, fino ai nostri giorni, quando in una rumorosa bottega leccese la materia fredda, inanimata, diventa vita - leggerezza, grazia, amore - nella fantasia di questo "maestro" cui non è duro l'esercizio del battiferro, perché proprio in quella materia fredda ed inanimata egli ha individuato la forma da tradurre in momento, ed in risultato, d'arte.
Quando Antonio D'Andrea modulava nel ferro i motivi delle sue creazioni era come se la materia incandescente cantasse., sprizzando faville, e le figure che a mano a mano emergevano stupite, si librassero in un cielo che solo e loro era riservato.
Donde provenisse questo battiferro implacabile nel perseguire le sue idee è stato accennato: il barocco leccese è li, leziosamente prepotente ed ammaliante, con le sue graziose decorazioni, con i suoi balconi fioriti appunto nel ferro, scenograficamente predisposti per trasmettere a chi ne volesse recepire i suggerimenti certe idee da tradurre in creatività originale.
C'è tutta una cultura in questo trapasso di secoli, una cultura nutrita di perseveranza nell'inseguire i fantasmi poetici, quelli che hanno permesso alle rappresentazioni bibliche ed alle parabole evangeliche, agli episodi della più popolare agiografia ed al paganeggiante misticismo di una natura fervida nella sua felicità, di diventare, mediante il ferro, valore artistico. Talchè, il santo cristiano diventa momento della natura e questa, pudica religione dei sensi. In tal modo Antonio D'Andrea, il "maestro" del ferro leccese, realizzò il miracolo, traendolo dalla materia informe, aggredibile soltanto col fuoco che tutto purifica nel mentre annulla le scorie.
Scorrendo la ricca produzione di "maestro" Antonio emerge subito un particolare che, se da un lato commuove, dall'altro non suscita stupore: la ricorrenza dei motivi francescani. L'umile figura del Santo d'Assisi, il santo povero che cantò "frate focu... bello et iocundo et robustoso et forte", affascinò questo artigiano il quale al fuoco appunto chiedeva, quotidianamente ed umilmente, la forza per piegare il ferro alla sua volontà. Le parabole francescane, gli attributi del Santo, i momenti di una elevazione che ha sfidato i secoli ed ho fortificato i poveri, ritornano - continua - mente nella produzione di D'Andrea e testimoniano di una forza di persuasione che sembra avere tutti gli attributi del fuoco con il quale si misurò il povero di Assisi.
Preferibilmente nel rame sbalzato Antonio D'Andrea raccontò con la leggerezza del tratto che gli era propria i motivi della vita di San Francesco, perché il rame sbalzato, più che il ferro battuto dove i motivi ideologici debbono essere ridotti all'essenziale, consentiva all'artigiano un racconto disteso, nel quale tratteggiare nei particolari la figura del Santo che si muove tra le sue creature. In tal modo il ferro diventava pensiero e poi azione di fede. In certe sue note di "Diario" Antonio D'Andrea espresse una religiosità di fondo salda, tenace, ricca di contenuti di pensiero, che è la riprova, in termini di meditazione, della fede che sorreggeva l'operare artistico: pagine illuminanti dalle quali balza, come da un rame accortamente lavorato, una personalità d'artista completa.
Natura essenzialmente lirica, Antonio D'Andrea chiese al ferro di raffigurare, anzi di ricreare, il lirismo dello natura, un lirismo fatto di tralci e viticci, foglie ed uccelli, agili flessuosi quadrupedi i quali sembrano balzare dai supporti o dalle decorazioni per chiudere la loro avventura nell'aria. Nella raffigurazione di questi elementi di un mondo elementare, incontaminato, il battiferro riversava la sua gioia di vivere un contatto tonto esaltante qual è quello che il ferro incandescente consente all'artista che ne sa domare il flusso. Ed in questo egli era un po' come il Santo d'Assisi il quale domava con lo sguardo o con la parola mansueta le belve.
Allievo di Alberto Gerardi, all'Istituto d'Arte di Roma, Antonio D'Andrea aprì la sua "bottega" a Lecce nel 1938. Questa divenne ben presto luogo d'incontro di uomini i quali cercavano la verità della poesia e la trovavano nel miracolo dell'artigiano severamente accigliato che domava il ferro. "Bottega" come cenacolo, dunque, nella quale le idee passavano attraverso il fuoco di una conversazione nella quale quegli uomini andavano, riconoscendo il loro destino d'artisti: scrittori, poeti, giornalisti, letterati cui era di conforto la tenacia di "maestro" Antonio nel momento in cui questo affrontava e realizzava i suoi ferri battuti.
Ambiente colto, pertanto, raffinato, quello dal quale nascevano i ferri battuti di Antonio D'Andrea, ambiente che realizzò dal finire degli anni Trenta agli anni Cinquanta, passando per la bufera della guerra alle revisioni del dopoguerra, uno dei momenti più caratteristici della Lecce intellettuale, un momento del quale i ferri battuti di "maestro" Antonio rappresentano un segno tra i più distintivi.


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