§ Pagine di storia salentina

Un precursore dell'Illuminismo




Luciano Milo



La figura e l'opera di Giulio Cesare Vanini, taurisanese, ancora al centro di accese polemiche: affrancò l'uomo da ogni condizionamento religioso, fu espressione anticipatrice del libero pensiero; o, come sostennero i giudici dell'Inquisizione, fu solo un irriducibile apostata blasferno?

Nacque da Giovambattista e da Beatrice Lopez de Noguera: e ben presto si rivelò spirito vivace, curioso, irrequieto; avido di letture e pronto al dialogo, aperto al contatto umano: doti che non gli verranno mai meno, nel lungo arco della sua vita. Giulio Cesare Vanini visse in un'età critica, in un'epoca che sentiva - intenso - il bisogno di uno spirito nuovo, di una cultura diversa, che dessero uno scrollone e liberassero l'uomo da un passato che ormai non aveva più nulla da dire. Quanto del neoclassicismo e dell'età rinascimentale poteva proiettarsi nell'arte, nella letteratura e nelle scienze, era poca cosa. Alle porte della storia bussava il pensiero barocco, un discutibile pensiero artistico, che avrebbe sconvolto i canoni di un'età che pure aveva illuminato il mondo, ma che avrebbe finito quasi col contemplare se stesso, la sua astrusa bizzarria, il suo vuoto verticale, la sua frondosa ampollosità, l'estremo compiacimento dell'arte per l'arte; ma bussava anche il pensiero scientifico, quello che ci avrebbe dato i momenti più alti, anticipatori della ricerca moderna, e soprattutto che avrebbe coinvolto, per forza di cose, morale e religione, modi di vivere e modi di credere, di sentire, di essere soggetti razionali.
Imperava Carlo V, tiranno generoso e temibile, sui cui dominii non tramontava mai il sole: un sole che sorgeva in una lontana provincia, il Salento, estremo oriente dell'orgogliosa capitale spagnola. E in questo estremo oriente nacque Giulio Cesare Vanini. Erano i primi mesi del 1585. Periferia di una provincia decentrata, Taurisano viveva - come tutti i centri salentini e meridionali dell'Italia spagnola - giorni di estrema miseria, tributaria e vittima di un impero che, con guerre a catena, funestava l'Europa. Lasciato il paese natio, il giovane Vanini è a Napoli, studente in giurisprudenza. Si addottora dopo la morte del padre, che lo lascia privo di mezzi di sostentamento. E' il 1606. Due anni dopo lo ritroviamo a Parigi, dove segue gli studi teologici, che lo porteranno a indossare, poco più tardi, l'abito carmelitano. Girerà poi per l'Europa, predicando con impetuoso fervore. Fino a che scatterà qualcosa, una molla, uno spirito un sentimento, che si tradurranno in una nuova visione del mondo, della morale, della religione. E' profezia? E' eresia?
Le testimonianze che ci restano sono variamente interpretate: la figura del taurisanese resta ancora al centro di accesissime polemiche. Alcuni ritengono Giulio Cesare Vanini uno dei primi spiriti che affrancarono l'uomo da ogni condizionamento religioso, espressione anticipatrice del libero pensiero, che avrebbe dominato nelle epoche successive, fino ai nostri giorni; per altri, invece, e primi fra tutti i giudici dell'inquisizione, fu solo un irriducibile apostata blasfemo. In effetti, in lui sono già presenti, e in modo assai scoperto, le istanze dell'Illuminismo, le richieste della sovranità della ragione, cioé le esigenze dell'uomo di essere e di sentirsi al centro del mondo, artefice del proprio destino, costruttore della vita, dominatore della natura. al di fuori - e al di sopra - di tutto. Condizione primaria per realizzare questa supremazia non poteva essere che l'abbattimento della morale religiosa, dunque la negazione di valori e concezioni della tradizione: in ultima analisi, la rottura, senza rimpianti, col passato.
Vanini scruta nei testi sacri: approfondisce, critica, distrugge. Li trova traboccanti di oscenità (immortalità, furti, sopraffazioni, incesti, poligamie; strutture verticali della società, oppressione dei deboli); e ritiene che prodigi e miracoli altro non siano che il tributo favolistico che cementa una serie di atti contro gli esseri umani, volti ad ottenebrare le innate facoltà razionali dell'uomo, ad oscurarne la fantasia, a limitarne la purezza genuina, la sua naturale autonomia. Le religioni, dunque - e non solo quella cristiana: tutte le religioni - distruggono le capacità critiche dell'individuo con la superstizione e il terrore dell'al di là: inferno, purgatorio, paradiso, resurrezione, reincarnazione, sono strumenti ideologici per rendere il pensiero umano succubo e impotente.
Ma allora, cos'è Dio? Niente e nessuno. Prende il suo posto una "Natura che è Dio che è egli medesimo Natura". La Natura vaniniana è dolce, buona, signora dell'universo, guida delle nostre azioni, regina incontrastata delle cose del mondo. Come è stato acutamente notato, questa visione naturatistica è del tutto originale: e occorrerà attendere alcuni secoli e la venuta di Nietzsche per ritrovare una critica altrettanto spietata nei confronti del Cristianesimo, considerato (motto probabilmente per l'altezza di certi suoi valori: amore per il prossimo, rispetto per l'uomo e il mondo che lo circonda, morale che coincide con la purezza assoluta, e via dicendo) religione superiore, e dunque più temibile, cioé più menzognera. Il Cristianesimo, sostiene Vanini, è la maledizione della carne; fa degli uomini un allevamento di idioti; forza e violenta le naturali, buone inclinazioni dell'anima umana; turba - con la falsa prospettiva della vita eterna - il pensiero di chi, grazie alla natura, deve invece godersi la vita; costringe milioni di uomini a sacrificarsi sull'ara della superstizione e dell'illusione. Scrutate la natura, sostiene Vanini, penetrate i suoi misteri, che attendono di essere conosciuti, leggete i suoi fenomeni: la natura redime l'uomo su questa terra, mentre religione e teologia lo vogliono inerte, massificato, passivo.
Alla luce di moderne proiezioni scientifico-religiose (da Lamark a Darwin, da Lombroso a Sergi, al Niceforo; e soprattutto dopo il naufragio della dottrina positivista), sarebbe fin troppo facile controbattere le teorie del taurisanese: e basterebbe affermare che è l'uomo a servirsi dei fenomeni e delle ferree leggi della natura per dominare la stessa natura e gli stessi uomini, con strumenti di distruzione in grado di cancellare la vita, di sconvolgere forse per sempre gli immensi e delicati equilibri su cui si è retto, per miliardi di anni-luce, il "sistema" biofisico terrestre: basterebbe ricordare questo, per avvertire che, se dolce e buona può essere la natura, dolce e buono l'uomo non è, né legittimi - dal punto di vista morale e civile - sono i suoi intenti e principi. Né, d'altro canto, una qualsiasi religione (e tanto meno quella cristiana) può ridursi alla visione di frustratrice d'ogni dignità umana: distorsioni e schiavitù la religione ha creato, forse anche più di quanto consentito; non a caso oggi si riconsidera la storia delle Crociate, ritenute senza più ombra di dubbio anticipatrici dei genocidi e delle invasioni e dominazioni, dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo; e la figura del missionario che. la croce in pugno, precedeva i "Conquistadores", oggi si giudica in senso critico, come alibi e carta di credito per un colonialismo che, (dato acquisito nella coscienza moderna), ha fatto il suo tempo.
Tuttavia, se questo è il "male", va riconsiderato anche il "bene", e particolarmente per il Cristianesimo, che rivoluzionò una concezione del mondo, salvò una civiltà, ne raccolse e trasformò l'eredità, tramandò opere letterarie, stimolò l'arte, riordinò l'agricoltura, raccolse popoli dispersi, li cementò con un'arma più
forte di qualunque forza: l'amore. Diede dignità ai vinti, rivelò la pietà ai barbari vincitori, dischiuse i limiti angusti della vita naturale, indicando una proiezione nella vita soprannaturale, costringendo l'uomo a vivere e ad agire per un fine che lo trascendeva.
Fu condannato dalle autorità religiose come ateo e bestemmiatore. Gli si diede una caccia senza tregua. Catturato a Tolosa (era il 9 novembre 1619), subì la tortura, fu strangolato; gli fu mozzata la lingua; infine il corpo, irriconoscibile, fu gettato al rogo; le ceneri, disperse. Contraddizione abnorme: il Cristianesimo che insegnò il perdono per i nemici, generò l'Inquisizione, il cui vocabolario non conteneva né la grandezza del perdono, né la bellezza della pietà.


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