La società
editrice il Mulino di Bologna pubblica in questi giorni uno studio del
prof. Giorgio Fuà, titolare della cattedra di Politica Economica
all'Università di Ancona, riguardante alcuni scottanti problemi
del lavoro in Italia.
Si tratta di un libriccino di circa cento pagine, quindi di piccola
mole, ma densissimo di dati elaborati a fondo, di confronti internazionali,
di note metodologiche, e corredato da importanti considerazioni.
I risultati forniti in questo studio sono il frutto di una ricerca intitolata
"La utilizzazione della forza lavoro in Italia nel quadro della
integrazione internazionale", che è in corso dal 1974 presso
la Facoltà di Economia di Ancona con un finanziamento del Consiglio
Nazionale delle Ricerche.
Il libro del Fuà prende le mosse dai tassi di attività
in Italia e in 14 altri paesi intorno al 1970, e dalla constatazione
che l'Italia figura con una percentuale anormalmente bassa, pari soltanto
a quella dell'India. La bassa attività è specialmente
notevole per le donne.

Si è cercato
di spiegare le differenze dei tassi di attività fra uomini e
donne con fattori come la confessione religiosa (l'Islam contrasterebbe
il lavoro femminile), la costituzione politica (il lavoro femminile
sarebbe favorito dal socialismo), lo stadio di sviluppo economico (la
donna troverebbe lavoro più facilmente nelle economie preindustriali
oppure nelle economie mature, e più difficilmente negli stadi
intermedi), ma le formule esplicative semplici non reggono alla prova.
Si può solo dire che le grandi differenze rilevate nei tassi
di attività femminili sono probabilmente imputabili a tutto un
complesso di condizioni materiali, istituzionali e di costume dalle
quali dipende, in primo luogo, se il lavoro femminile sia frequente
o, raro e, in secondo luogo, se la statistica rispecchi fedelmente o
sottovaluti o magari sopravvaluti le sue dimensioni reali.
Un esame particolare riguarda i tassi di attività a seconda dell'età.
Si constata un forte declino dei tassi di attività maschile nelle
età anziane e giovanili, che è fenomeno comune a tutti
i Paesi, ma che risulta più accentuato in Italia, fino a toccare
livelli eccezionalmente bassi, in particolare per l'età iniziale
di pensionamento.
Il modesto e decrescente tasso di attività che si constata in
Italia è connesso al rapido esodo dall'agricoltura; per cui,
l'intera famiglia si è trasferita nelle città, ma solo
alcuni membri vi hanno trovato un impiego. E' probabile che la diminuzione
di attività dovuta a tali spostamenti sia soltanto apparente,
nel senso che mentre le attività marginali in agricoltura venivano
incluse nella statistica delle forze di lavoro, quelle svolte dopo il
trasferimento in città sfuggono alle registrazioni perché
spesso c'è un interesse a nasconderle in quanto contravvengono
ai contratti collettivi e alle norme previdenziali e fiscali.
In conclusione il tasso di attività anormalmente basso sembra
imputabile al fatto che oltre le forze di lavoro registrate ufficialmente,
esiste una massa di lavoratori cosiddetti occulti. Ai 19 milioni e mezzo
di lavoratori registrati, ne esisterebbero almeno due milioni o due
milioni e mezzo che sfuggono alle statistiche (indagini Frey e Doxa).
Va notato che, se è vero che il numero delle persone realmente
occupate è considerevolmente sottovalutato, si deve ritenere
che anche il prodotto per occupato (o produttività), che figura
nei nostri conti economici è difettoso, L'A. riconosce che il
lavoro occulto è presente anche in altri Paesi, ma in misura
molto inferiore a quella che si riscontra in Italia; quindi mentre siamo
ultimi nel lavoro ufficialmente registrato, saremmo primi in quello
occulto.
Passando ad esaminare il costo del lavoro, l'A. constata che i redditi
da lavoro hanno assorbito più dell'intero prodotto netto, lasciando
le imprese con un margine insufficiente per l'ammortamento e senza nessun
margine per l'interesse del capitale.
Il rapporto tra il livello dei costi del lavoro e il livello dei prezzi
del prodotto in questi ultimi anni è difficilmente sostenibile
dalle imprese. Si dovrebbe quindi affrontare una fase di ridimensionamento
dell'industria attraverso l'eliminazione di attività in essere
e il ridotto flusso di attività nuove; oppure ottenere un riaggiustamento
del rapporto salari prezzi. Attualmente gran parte dell'economia lavora
in condizioni diverse e più arretrate rispetto a quelle che sono
ufficialmente note.
L'A. espone molti dati che dimostrano la rincorsa salariate, la quale
potrebbe alla fine recare danno anche agli stessi lavoratori che, avvantaggiati
in termini retributivi, possono trovarsi danneggiati in termini occupazionali
(specialmente per i giovani,).
L'aspirazione a non restare al di sotto dell'Europa per quanto riguarda
le retribuzioni e le condizioni di lavoro contrasta con le nostre capacità
produttive e le nostre riserve disponibili, che sono assai inferiori.
Alla fine il Fuà si domanda se lo stato di aspirazione non debba
essere ridimensionato. Qualcuno ritiene che la tensione che risulta
dal confronto fra livello retributivo e possibilità effettive
possa alla fine dare utili frutti, ma il nostro A. vi scorge invece
un pericolo. Egli teme che il tentativo di comportarci come se fossimo
più sviluppati di quanto siamo realmente, abbia in ultima analisi
il risultato di ritardare o deviare il nostro sviluppo.
Le considerazioni e i dati forniti dal Fuà trovano conferma in
altri studi di economisti e statistici, fra i quali vogliamo ricordare
il prof. Giuseppe de Meo, autore di pregevoli opere sui conti economici
e in particolare sugli effetti del costo del lavoro, fortemente superiore
in Italia rispetto a quello dei paesi della Comunità e superiore
a quello consentito dal livello economico del nostro Paese, molto al
di sotto degli altri Paesi a economia industriale.
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