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Occupazione e costo di lavoro in uno studio di Fuā




Guglielmo Tagliacarne



La società editrice il Mulino di Bologna pubblica in questi giorni uno studio del prof. Giorgio Fuà, titolare della cattedra di Politica Economica all'Università di Ancona, riguardante alcuni scottanti problemi del lavoro in Italia.
Si tratta di un libriccino di circa cento pagine, quindi di piccola mole, ma densissimo di dati elaborati a fondo, di confronti internazionali, di note metodologiche, e corredato da importanti considerazioni.
I risultati forniti in questo studio sono il frutto di una ricerca intitolata "La utilizzazione della forza lavoro in Italia nel quadro della integrazione internazionale", che è in corso dal 1974 presso la Facoltà di Economia di Ancona con un finanziamento del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Il libro del Fuà prende le mosse dai tassi di attività in Italia e in 14 altri paesi intorno al 1970, e dalla constatazione che l'Italia figura con una percentuale anormalmente bassa, pari soltanto a quella dell'India. La bassa attività è specialmente notevole per le donne.

Si è cercato di spiegare le differenze dei tassi di attività fra uomini e donne con fattori come la confessione religiosa (l'Islam contrasterebbe il lavoro femminile), la costituzione politica (il lavoro femminile sarebbe favorito dal socialismo), lo stadio di sviluppo economico (la donna troverebbe lavoro più facilmente nelle economie preindustriali oppure nelle economie mature, e più difficilmente negli stadi intermedi), ma le formule esplicative semplici non reggono alla prova. Si può solo dire che le grandi differenze rilevate nei tassi di attività femminili sono probabilmente imputabili a tutto un complesso di condizioni materiali, istituzionali e di costume dalle quali dipende, in primo luogo, se il lavoro femminile sia frequente o, raro e, in secondo luogo, se la statistica rispecchi fedelmente o sottovaluti o magari sopravvaluti le sue dimensioni reali.
Un esame particolare riguarda i tassi di attività a seconda dell'età. Si constata un forte declino dei tassi di attività maschile nelle età anziane e giovanili, che è fenomeno comune a tutti i Paesi, ma che risulta più accentuato in Italia, fino a toccare livelli eccezionalmente bassi, in particolare per l'età iniziale di pensionamento.
Il modesto e decrescente tasso di attività che si constata in Italia è connesso al rapido esodo dall'agricoltura; per cui, l'intera famiglia si è trasferita nelle città, ma solo alcuni membri vi hanno trovato un impiego. E' probabile che la diminuzione di attività dovuta a tali spostamenti sia soltanto apparente, nel senso che mentre le attività marginali in agricoltura venivano incluse nella statistica delle forze di lavoro, quelle svolte dopo il trasferimento in città sfuggono alle registrazioni perché spesso c'è un interesse a nasconderle in quanto contravvengono ai contratti collettivi e alle norme previdenziali e fiscali.
In conclusione il tasso di attività anormalmente basso sembra imputabile al fatto che oltre le forze di lavoro registrate ufficialmente, esiste una massa di lavoratori cosiddetti occulti. Ai 19 milioni e mezzo di lavoratori registrati, ne esisterebbero almeno due milioni o due milioni e mezzo che sfuggono alle statistiche (indagini Frey e Doxa).
Va notato che, se è vero che il numero delle persone realmente occupate è considerevolmente sottovalutato, si deve ritenere che anche il prodotto per occupato (o produttività), che figura nei nostri conti economici è difettoso, L'A. riconosce che il lavoro occulto è presente anche in altri Paesi, ma in misura molto inferiore a quella che si riscontra in Italia; quindi mentre siamo ultimi nel lavoro ufficialmente registrato, saremmo primi in quello occulto.
Passando ad esaminare il costo del lavoro, l'A. constata che i redditi da lavoro hanno assorbito più dell'intero prodotto netto, lasciando le imprese con un margine insufficiente per l'ammortamento e senza nessun margine per l'interesse del capitale.
Il rapporto tra il livello dei costi del lavoro e il livello dei prezzi del prodotto in questi ultimi anni è difficilmente sostenibile dalle imprese. Si dovrebbe quindi affrontare una fase di ridimensionamento dell'industria attraverso l'eliminazione di attività in essere e il ridotto flusso di attività nuove; oppure ottenere un riaggiustamento del rapporto salari prezzi. Attualmente gran parte dell'economia lavora in condizioni diverse e più arretrate rispetto a quelle che sono ufficialmente note.
L'A. espone molti dati che dimostrano la rincorsa salariate, la quale potrebbe alla fine recare danno anche agli stessi lavoratori che, avvantaggiati in termini retributivi, possono trovarsi danneggiati in termini occupazionali (specialmente per i giovani,).
L'aspirazione a non restare al di sotto dell'Europa per quanto riguarda le retribuzioni e le condizioni di lavoro contrasta con le nostre capacità produttive e le nostre riserve disponibili, che sono assai inferiori.
Alla fine il Fuà si domanda se lo stato di aspirazione non debba essere ridimensionato. Qualcuno ritiene che la tensione che risulta dal confronto fra livello retributivo e possibilità effettive possa alla fine dare utili frutti, ma il nostro A. vi scorge invece un pericolo. Egli teme che il tentativo di comportarci come se fossimo più sviluppati di quanto siamo realmente, abbia in ultima analisi il risultato di ritardare o deviare il nostro sviluppo.
Le considerazioni e i dati forniti dal Fuà trovano conferma in altri studi di economisti e statistici, fra i quali vogliamo ricordare il prof. Giuseppe de Meo, autore di pregevoli opere sui conti economici e in particolare sugli effetti del costo del lavoro, fortemente superiore in Italia rispetto a quello dei paesi della Comunità e superiore a quello consentito dal livello economico del nostro Paese, molto al di sotto degli altri Paesi a economia industriale.


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