§ Radiografia della nostra Regione

I conti della Puglia




Dario Giustizieri



I dati per il 1975, raccolti dall'Unioncamere, sottolineano gli squilibri esistenti ali' interno dei diversi settori produttivi e delle varie province. -Meno favoriti il Salento e la Capitanata, mentre Bari, Taranto e Brindisi, malgrado la sfavorevole congiuntura, hanno registrato una migliore tenuta.

Il 1975 è stato un anno difficile per l'intera economia meridionale. La Puglia, dunque, non poteva sfuggire alla congiuntura sfavorevole, che poi ha subìto, nell'anno successivo, effetti indotti decisamente negativi. E' proprio dal 1975 che la curva grafica dei settori economico-produttivi pugliesi, (meridionali le italiani), è precipitata di diversi gradi poiché l'economia ha leggi ferree, è segno che queste leggi sono state modificate senza passaggi intermedi, sono state forzate in tempi troppo brevi; non si sono garantiti i necessari supporti e i correttivi che avrebbero potuto - in qualche modo - determinare una discesa morbida: chiuso il paracadute, e chiusolo nel momento in cui l'economia regionale si trovava nella condizione più delicata, quella di un possibile decollo, la caduta era inevitabile. E' un discorso che si può obiettivamente generalizzare: tutto il Sud sta pagando errori e nodi che hanno natura e carattere politico e di politica economica. Non sta a noi analizzare questi errori; e del resto, si tratterebbe di un discorso complesso, che coinvolgerebbe innanzitutto la crisi delle ideologie, la trasformazione del concetto stesso dell'impresa privata, il ruolo dello Stato e della spesa pubblica, le contrattazioni sindacali, la "vexata quaestio" della scala mobile e della sua incidenza sull'inflazione, i rapporti internazionali (comunitari, Nord-Sud, e tra area occidentale ed orientale). Resta il fatto, però, che in un'economia dualistica, qual'è quella italiana, cede per prima, e va più in fondo nel tunnel, quella storicamente più debole: l'economia preindustriale, l'economia con diffusa e irrazionale agricoltura, l'economia che cela la disoccupazione e la sottoccupazione nel settore terziario. Vale a dire, l'economia meridionale.

Se i conti economici della Puglia sono squilibrati, (e basti pensare alle cifre, tutte negative, della dotazione di scorte: segno dell'aumento dei prezzi, del timore degli imprenditori a indebitarsi, delle pessimistiche previsioni di mercato), i conti delle singole province non lo sono meno: l'industria chimica e quella siderurgica (è notissimo che sono dislocate nei "complessi pesanti" di Brindisi e Taranto) hanno garantito redditi, ma non nuova occupazione; hanno tenuto il passo, ma a costo di un calo della produzione (per l'aumento del prezzo del greggio, per le contrattazioni aziendali che avevano appesantito i bilanci correnti, e per l'accresciuto costo del lavoro per addetto); e hanno visto calare le esportazioni, soprattutto nei paesi del bacino mediterraneo. In ogni caso, Taranto, Brindisi e Bari (in particolare il capoluogo pugliese, la cui arca industriale accoglie il numero maggiore e più articolato di industrie manifatturiere e di trasformazione di prodotti di consumo immediato), hanno risentito di meno gli effetti di una congiuntura che, altrove, ha pesato in maniera determinante.

Un'annata non proprio favorevole nel campo agricolo, infatti, ha visto decrescere i redditi delle due province periferiche, quelle di Foggia e di Lecce. E se la Capitanata, vecchio granaio d'Italia, ha potuto mantenere un certo ritmo di esportazione di derrate alimentari, il Salento - al contrario - ha dovuto pagare lo scotto di una politica agricola comunitaria arruffona e controproducente (per noi italiani), con quella "guerra del vino" che, condotta silenziosamente in Germania e clamorosamente in Francia, aggravata dalla concorrenza dei paesi dell'Africa del. Nord, (dove la manodopera agricola costa poco o niente; dove non c'è sicurezza sociale, e dunque gli imprenditori agricoli non pagano i contributi previdenziali e assistenziali; col privilegio di poter immettere sui mercati un prodotto che costa meno della metà di quello italiano), ci ha precluso parecchi mercati, ci ha fatto perdere clienti tradizionali, ci ha costretto a tenere le cantine colme. Limitate le vendite, sono precipitati gli investimenti. Mentre l'acqua del Pertusillo valicava i confini della penisola salentina, mancavano i quattrini per le trasformazioni colturali.

Tra le cifre che proponiamo, alcune sono di grande interesse. Quella che riguarda la pesca, ad esempio: la nostra regione, insieme con le aree di Mazara del Vallo, in Sicilia, e di San Benedetto del Tronto, nelle Marche, produceva il massimo reddito da attività marittime d'altura e oceaniche: la crisi che ha investito questo settore sembra irreversibile: invecchia l'età media delle flottiglie, si riducono a vista d'occhio gli addetti, mentre i nostri mari si impoveriscono sempre più, i rischi connessi alla pesca in acque sud-mediterranee crescono di giorno in giorno (i sequestri di pescherecci italiani sono ormai cronaca pressoché quotidiana), i trattati internazionali ci costano fior di miliardi, il settore rischia di cadere in mano di pochi, o pochissimi, che possono stravolgere il mercato; e poi: se non bastassero i giapponesi, che navigano ormai su battelli attrezzati elettronicamente, ci sono spagnoli e portoghesi, che esportano in Italia montagne di pesce azzurro in scatola!

Altra voce che va presa con cautela, quella dei redditi prodotti dagli alberghi, indicativa del movimento turistico: il settore è solo in minima parte in mano pugliese. Sono imprenditori extraregionali, o addirittura stranieri, quelli che tirano le fila dei nostri più moderni centri ricettivi. Il denaro che arriva in Puglia, dunque, in buona parte riprende le vie dell'esilio. Per noi resta un'occupazione stagionale, dunque sporadica e vincolata all'andamento della stagione. Sotto questo aspetto, sarà interessante avere a disposizione i dati del 1976, anno che, (malgrado le sfavorevoli condizioni meteorologiche), ha visto incrementarsi nella nostra regione gli investimenti nelle strutture e nei servizi turistici.

C'è infine da considerare un ultimo aspetto, che interessa un pò tutte le regioni meridionali: la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, non è determinata più soltanto dalla mancanza di posti di lavoro; questi mancavano anche prima, eppure le cifre delle persone in cerca d'occupazione non erano così vertiginose. E' venuta alla ribalta per un fatto che era ben prevedibile: aperta a tutti la scuola (come era giusto che fosse, d'altronde), ottenuto il "pezzo di carta", i giovani non emigrano più; sembrano ormai finiti i tempi della "disperazione contadina"; sta per chiudersi definitivamente il capitolo della valigia di cartone rosso, dei viaggi per Torino e per Milano, per Düsseldorf, per Francoforte, per Ginevra, per Zurigo, per Nancy, per la Saar, per la Ruhr, per le miniere del Belgio, per i cantieri edili di mezza Europa. Le anabasi superano le migrazioni: i ritorni colmano e travolgono le partenze. Con questa nuova realtà occorre farei conti, e sono conti politici ed economici. Non tenerne conto, significa andare incontro alla bancarotta.

Le previsioni per il 1977 parlano di "crescita zero": se ne parla tanto, che quasi sembra si voglia esorcizzare questa prospettiva. Una crescita zero, cioè una pagina bianca per l'economia nell'arco di un anno, in realtà si trasforma in un conto in rosso, per la massa di debiti contratti all'estero. Siamo ormai al di là del diciassette miliardi di dollari. Non crescere, dunque, non vorrà dire restare come si era un anno prima; significa scendere sotto l'ultimo livello di guardia, perché quei debiti hanno un alto costo quotidiano, per pagare il quale è necessario, vitale, aumentare produttività ed esportazioni, limitare spese le consumi. Altrimenti, sarà solo un lancio di boomerang: inefficienza, sprechi, contraddizioni, si ritorceranno contro di noi. Contro l'economia nazionale, in primo luogo; contro quella del Mezzogiorno, immediatamente; e, nell'ambito di questa economia fragilissima, contro le province più povere, che saranno quelle che dovranno pagare di più.


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