Salento in cifre (Appendice)




Dor Mazzarani



I dati che presentiamo in quest'ultimo appuntamento con la "Rassegna" sono il risultato finale di quelli che li hanno preceduti: sono gli indicatori della "qualità della vita", cioè del grado di sviluppo dei beni e dei servizi di cui si dispone nella penisola salentina. In un certo senso, dopo aver raccolto le cifre della popolazione e delle sue attività fondamentali (agricoltura, industria, attività terziarie), dopo aver riassunto, sempre attraverso le elaborazioni della Associazione per lo sviluppo dell'Industria nel Mezzogiorno, i movimenti demografici, (che più che di una "mobilità" nel lavoro, indicano una "disponibilità" dei meridionali al lavoro: parliamo delle partenze disperate, al Nord o all'estero, alla ricerca di una qualsiasi occupazione, di un salario, e di un tenore minimo di vita), ora proponiamo le cifre della "ricchezza" (o della povertà) del Salento: disporre di sportelli bancari, di posti-letto negli ospedali pubblici o nelle cliniche privato; aver comprato un'automobile, aver pagato un abbonamento alla radio o alla televisione; avere speso una certa cifra per spettacoli cinematografici; poter contare su un dato numero di farmacie, di ritrovi pubblici, di alberghi e pensioni, di pubblici esercizi, significa poter vivere in un'area a bassa, media o alta concentrazione di servizi locali, di strutture portanti: dal panorama generale di queste strutture emerge la possibilità (o l'impossibilità) di orientare la propria economia, di indirizzare le scelte, di misurare il grado di sviluppo sociale. In altri termini, vuoi dire avere le basi per aprire un discorso che è nello stesso tempo economico e politico, disporre di una dettagliata documentazione statistica dalla quale è indispensabile partire per indicare serie direttrici di sviluppo produttivo e civile.
Inutile girare intorno alla realtà: il Salento registra una notevole scarsità di servizi e beni, vive di un'economia che, tranne poche eccezioni, è essenzialmente fondata sui settori primario e terziario, (per l'agricoltura si lamentano scarsi sbocchi commerciali, per l'accanita concorrenza a livello interno e internazionale, per la scarsa protezione legislativa a livello comunitario; per quel che riguarda il commercio, i dati sono chiari: frantumazione degli esercizi, scarsità di centri di vendita all'ingrosso, cooperazione pressoché inesistente, catene di distribuzione quasi del tutto ignorate). Da qui, il circuito di depressione che ha sempre pesato sullo sviluppo globale del Salento; e da qui, le cifre vertiginose che hanno interessato, e continuano - anche se in tono minore - ad interessare ancora oggi tanti comuni e centri abitati, soprattutto del Basso Salento, nel settore dell'emigrazione: i "treni della speranza" hanno decimato intere comunità: economie lontane e ricche (Francia, Belgio, Svizzera, Repubblica Federale Tedesca; ed economie transoceaniche) hanno assorbito braccianti e manovali, i profughi della fame e del bisogno, i nomadi del lavoro, i disperati pendolari che hanno affrontato migliaia di chilometri, una o due volte all'anno, per i brevi ritorni: perché una delle caratteristiche dei nostri emigrati è proprio quella del volo improvviso, della rivolta contro la miseria, ma è soprattutto quella delle radici paesane che non hanno reciso mai, del cuore restato a casa, nelle piazze paesane, fra amici per la pelle.
Il Salento non è solo parecchio giù nella classifica nazionale, lo è anche in quella fra le diverse aree del Mezzogiorno e delle Isole. L'industria, la grande industria, si è fermata a Brindisi e a Taranto; le attività manifatturiere, quelle che "tirano" e che danno redditi e occupazione, sono occasionali o sporadiche, e più nate per individuale iniziativa che per una vera e propria programmazione. Se escludiamo l'area industriale del capoluogo, che ruota intorno al complesso della Fiat-Allis e di pochi altri impianti, oltre è quasi il deserto. Né il turismo è ancora in condizione di darsi strutture permanenti e redditi fissi per un ciclo più lungo di quello estivo: l'iniziativa imprenditoriale stenta a raggiungere la fase del take off, non ha - per lunga desuetudine - la capacità autonoma del decollo.
L'agricoltura, dunque, resta l'attività centrale del sistema economico e produttivo del Salento: un'agricoltura che con la vite, con l'olivo, col tabacco, e solo da poco, diffondendosi le irrigazioni, con gli ortofrutticoli, si sforza di uscire dalle strutture micro-aziendali, di scoprire l'associazionismo e la cooperazione, e, timidamente, la difesa e la valorizzazione dei prodotti. Lo stesso artigianato è bloccato nel circuito dell'autoconsumo: non esporta, non produce redditi extraterritoriali, non sa, o non può, o non vuole trasformarsi in piccola industria in grado di imporsi al di là dei confini salentini.
Provincia periferica, Lecce paga lo scotto della sua eccentricità. Colpa della geografia, ma anche della storia, e della politica. Scotto che, con i tempi di crisi che corrono, può essere più alto di qualunque capacità di resistenza: non per niente gli emigrati cominciano a tornare perché anche le economie ricche sono sature di braccia o risentono degli effetti di una congiuntura internazionale negativa; non per niente l'occupazione giovanile è al centro dell'attenzione dì tutti; non per niente, infine, le aree "emergenti" vogliono "emergere" dal sottosviluppo, dall'arretratezza, dalla povertà: un'ideologia illuministica riprende piede, al diritto di pochi si oppone il diritto di tutti. Diventa obsolescente la vecchia cultura. Come le altre aree depresse, anche il Salento vuoi rompere le vecchie dimensioni umane e civili. Forse non abiura; ma vuole entrare nel futuro, alle soglie del terzo millennio.


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