Se consideriamo
che, dall'inizio del secolo ad oggi, in Italia il consumo di carne per
abitante in un anno è aumentato di ben 43,7 chilogrammi, passando
dai 15,2 del 1901 ai 58,9 del 1974 con un incremento percentuale del
388%, è facile constatare quale importanza rivesta il settore-carni
nella rosa dei consumi alimentari del cittadino italiano. Se, contemporaneamente,
si tiene presente che l'aumento del fabbisogno di carne non è
coinciso con un adeguato incremento del patrimonio zootecnico, e che
quindi dobbiamo ricorrere a massicce importazioni dall'estero, appare
evidente che quello della zootecnia è uno dei più rilevanti
problemi della vita economica del Paese. L'importazione di carni, infatti,
è una delle voci che maggiormente contribuiscono a rendere passiva
la nostra bilancia commerciale. Perciò da qualche anno a questa
parte (in particolare dopo la crisi petrolifera dell'ottobre 1973) è
diventata più pressante l'esigenza di dare alla nostra zootecnia
il ruolo che a questo settore spetta in una nazione in cui l'agricoltura
fornisce ancora una quota rilevante (circa il 25%) nella formazione
del reddito.
Calcoli in questo senso hanno fatto concludere che il passivo relativo
all'importazione di carni potrebbe essere notevolmente ridimensionato
rispetto alla cifra di 2.000 miliardi riscontrata alla fine del 1974,
In un primo tempo si sono individuati due tipi distinti di iniziative:
una tendeva a realizzare la produzione di carne con il "ciclo completo"
nelle aziende agricole; l'altra, al di fuori delle aziende, prevedeva
l'importazione di mangimi dall'estero, a causa dell'iniziale basso costo
di questi sui mercati internazionali. Alla luce, però, degli
ultimi aumenti, la seconda soluzione è risultata meno conveniente.
La prima via fornisce la soluzione migliore. ma richiede un impegno
politico più marcato e interventi pubblici notevoli, almeno inizialmente.
Sembrerebbe facilmente risolvibile il problema, ma bisogna aggiungere
che i ritardi e le decisioni affrettate hanno fatto si che la soluzione
sia ancora lontana.
E' utile premettere che, nel contesto della consistenza del bestiame
in Puglia, la provincia di Lecce rappresenta (1974) appena il 15,6%
e che, nella globalità del patrimonio zootecnico, ad una diminuzione
regionale del 31,5% fa riscontro una provinciale del 4,1% circa, nel
quinquennio 1970-1974. Particolarmente interessante è la constatazione
che in Puglia il solo aumento registrato nel numero dei capi allevati
è quello relativo all'allevamento bovino, che nel periodo è
cresciuto da 154.800 a 180.000 unità, con un incremento percentuale
del 16,3%. Come in buona parte della penisola, anche in campo regionale
il peggioramento del grado di auto-approvvigionamento è dovuto
al costante aumento della differenza fra il volume delle produzioni
zootecniche e quello dei relativi consumi. Se poi si aggiunge il costante
abbandono delle campagne, il quadro diventa più completo. L'allevamento
del bestiame in Puglia risente ancora dell'influsso negativo dei decenni
passati, quando le aziende agricole dotate di capi di bestiame, lontane
dall'iniziare una politica di autosufficienza foraggera, basavano questa
loro attività sullo sfruttamento dei pascoli liberi.
E' pur vero che la coltivazione delle piante da foraggio è indissolubilmente
legata alle condizioni ambientali di clima e di terreno, che in Puglia
non sono molto favorevoli, ma uno studio delle caratteristiche pedoclimatiche
che condizionano notevolmente lo svolgimento del ciclo vegetativo delle
diverse specie foraggere da parte degli organismi nazionali e regionali
preposti all'agricoltura e un'adeguata informazione offerta all'agricoltore
avrebbero aperto nuovi orizzonti alla zootecnia pugliese.
Per quanto riguarda la provincia di Lecce, due aspetti sono subito da
evidenziare: la preminenza della specie ovina su quella bovina; la frammentarietá
degli allevamenti, diretta conseguenza del fenomeno del frazionamento
e polverizzazione fondiaria, che si evidenzia in molte zone della provincia.
(1)
Comunque è da notare che i suddetti dati si riferiscono solo
alle aziende con bovini, le uniche considerate dall'ISTAT nel 2°
Censimento Generale dell'Agricoltura. Per un'ulteriore analisi dei dati
fra i due censimenti è il caso di dire che, anche se vi è
stato un incremento nel numero complessivo dei bovini, si e registrata
una netta diminuzione nel numero delle vacche da latte, che rispetto
al numero dei primi è scesa dal 41% al 31%. I dati statistici
sugli allevamenti evidenziano inoltre che l'88,7% dei capi (contro una
percentuale regionale del 91,9%) viene allevato in aziende di limitata
ampiezza a conduzione diretta, mentre la conduzione con salariati e
a colonia parziaria ricoprono rispettivamente il 6,9% e il 2,0%.
Un altro aspetto da considerare è quello che riguarda la consistenza
numerica del patrimonio, nonché la sua ripartizione per specie.
Si è convenuto di riprendere i dati relativi agli anni fra il
1960 e il 1974, perché ci sono sembrati significativi dal punto
di vista dell'evoluzione (o meglio, involuzione) del patrimonio stesso
nella provincia. Nell'arco di tempo considerato, il patrimonio zootecnico,
nel suo complesso, evidenzia una certa costanza numerica nella popolazione,
registrando un aumento assoluto di appena 10.335 capi e uno percentuale
del 7,7%. Il considerevole aumento registratosi nel corso del decennio
1960-1969 viene pressoché annullato nel corso degli ultimi cinque
anni. Le motivazioni di fondo, prescindendo dall'occasionale abbattimento
di un certo numero di. capi bovini affetti da tubercolosi, possono essere
offerte, ad iniziare dal 1970, dall'esodo rurale, dalla senilizzazione
e dalla femminilizzazione della manodopera, conseguenza della tendenza
dei giovani a cercare un posto di lavoro nelle attività secondarie
e terziarie. La superficie olivetata, inoltre, che tanto si prestava
ad un certo, anche se malinteso, carattere peculiare della zootecnia
leccese, cede il posto, nella parte settentrionale della provincia,
alla vite, che certamente non offre i "vantaggi" di cui si
è detto. A tutto questo va aggiunto l'aumento della domanda di
carne bovina, con il conseguente avvio alla macellazione di vacche da
latte.
A voler analizzare l'evoluzione del patrimonio zootecnico, si nota (Tab.
A) che, ad eccezione degli ovini e dei caprini, che hanno registrato
un aumento pari al 13,6%, passando a rappresentare il 73% circa di tutta
la consistenza numerica, tutte le altre specie hanno subìto flessioni
cospicue. In questi ultimi tempi, infatti, il settore ovino-caprino
è stato oggetto di una sostanziale rivalutazione non solo nella
produzione di carne, ma anche in quella del latte e dei suoi derivati,
in considerazione degli ottimi prezzi da essi spuntati sui mercati nazionali
ed esteri. Per quanto riguarda i gruppi razziali allevati in provincia
di Lecce, particolare attenzione merita quello "Leccese" (2)
che copre il 96,8% con 101.780 capi (3).
Il settore equino, con il calo del 42,8%, rivela la flessione più
marcata, dovuta al tramonto del cavallo come mezzo di trasporto e come
valido aiuto nei lavori dei campi, causato dal progressivo aumento della
meccanizzazione agricola. Tuttavia sta gradualmente prendendo piede
l'allevamento delle fattrici di razze pesanti, in quanto da esse si
possono ottenere, in un arco di sei anni, quattro generazioni di puledri
pesanti da macellazione. Questa tendenza dovrebbe essere sorretta da
adeguate incentivazioni, poiché il costo di produzione della
carne equina è abbastanza limitato, e in provincia di Lecce il
consumo degli equini macellati è straordinariamente alto (4)
,con 19.868 q.li di carne.



Una flessione pari
ad un quinto della consistenza iniziale,, invece, ha registrato il settore
suinicolo. Uno stimolo alla ripresa di questo tipo di allevamento potrebbe
essere dato dalla possibilità di portare sul mercato carne magra
che può essere consumata per un periodo di tempo più lungo
dell'attuale, che è di circa 6 mesi (ottobre-marzo), mediante
un radicale ammodernamento delle tecniche di allevamento, tipiche delle
regioni settentrionali della penisola. Altra grave diminuzione che ha
inciso sull'economia agricola della provincia è stata quella
del settore ovino, pari ad un terzo del patrimonio iniziale.
Un altro aspetto preoccupante è l'accertata diminuzione dell'entitá
complessiva dei riproduttori (Arieti: +68,1%; Tori: -43,8%; Becchi:
-28,6%) nel corso del quindicennio; fenomeno che evidenzia la tendenza
verso un'attività zootecnica basata in misura crescente sull'impiego
del bestiame considerato come "materia prima" da trasformare
durante cicli riproduttori di breve durata.
A questo punto diventa di facile motivazione il discorso sulla macellazione
del bestiame, che evidenzia chiaramente il notevole grado di dipendenza
della provincia di Lecce dalle altre regioni italiane e dalle nazioni
comunitarie ed extracomunitarie (5). Nel periodo 1961-1974, ad un incremento
della macellazione dei bovini e dei suini rispettivamente del 57,5%
e del 17,5%, ha fatto riscontro un calo dell'allevamento del 36,3% e
del 25%; nel settore equino l'andamento si è rivelato ancora
più catastrofico in quanto la macellazione è aumentata
mediamente del 143%, mentre l'allevamento ha subìto una flessione
del 42,8 a situazione migliora, invece, nel campo ovino-caprino, che
nel decennio 1965-1974 ha incrementato il suo allevamento del 5% circa,
contro un calo nella macellazione del 41,3%.
Nel corso dell'ultimo quinquennio (1970-1974) si è notata una
inversione di tendenza, escluso il settore della carne equina, nella
macellazione dei capi di bestiame di grossa taglia, conseguente all'aumento
del prezzo delle carni. Tuttavia, anche con questo calo nella domanda,
siamo ancora molto lontani dall'autoapprovvigionamento.
Verso questo obiettivo la Provincia, concordemente con la Regione Puglia,
cominciò a muovere i primi passi sin dal 1972, quando il CIPE
approvò, in via preliminare, le linee programmatiche del "Progetto
speciale per la produzione intensiva di carne nel Mezzogiorno continentale",
che fu approvato dalla Cassa per il Mezzogiorno il 26 aprile 1974, sulla
base della Legge del 18 aprile dello stesso anno, che stabiliva i criteri
nazionali d'intervento per la salvaguardia del patrimonio zootecnico
e per l'incremento della produzione delle carni. Il Progetto doveva
operare nei settori ovino, suino e bovino. Uno dei tanti dati statistici
che avevano dato il via per la stesura di queste linee programmatiche
era stato quello che dal 1956 al 1970 il consumo medio procapite di
carne bovina nell'Italia Meridionale era passato da Kg 13,5 a Kg 16,4,
facendo prevedere così che nel 1981 sarebbe arrivato a Kg 2l.
Purtroppo anche, con queste premesse, a tutt'oggi, per la provincia
di Lecce, non si può intavolare nemmeno un discorso di verifica
dei primi risultati, in quanto esiste una carenza di fondo nelle strutture
di base e, là dove esse esistono, nelle infrastrutture: centri
di svezzamento e di ingrasso per vitelli, centri parentali per i suini,
centri arieti per gli ovini, sono delle realtà che il contadino-imprenditore
leccese deve ancora compiutamente vedere.
Un discorso da aprire subito sarebbe quello della partecipazione, attraverso
la cooperazione, dei piccoli e medi allevatori alla gestione dei centri
di ristallo, in modo che le spese in questa delicata fase dell'allevamento
siano in parte ammortizzate dal numero dei soci. Anche dal punto di
vista igienico-sanitario, l'iniziativa sarebbe estremamente positiva.
Concludiamo il discorso sul rapporto disponibilità-consumo di
carne affermando che un dato-spia sull'andamento del patrimonio zootecnico
è dato da sempre dal rapporto fra il numero di capi macellati
(Tab. B) e il peso medio di macellazione (in peso morto) che essi fanno
registrare. La contrazione della disponibilità complessiva dei
giovani soggetti da accrescimento avutasi negli ultimi anni è
stata compensata in parte, anche agli effetti della produzione di carne,
da un persistente aumento del peso medio di macellazione, il quale,
nel periodo 1949-1970, è passato per i bovini da Kg 150 a Kg
204 (a peso morto), e nel 1.974 a Kg 220; per gli equini nello stesso
periodo si è notato un aumento del peso medio da Kg 97 a Kg 148,
diminuendo negli ultimi anni a Kg 125, La situazione del settore suino
e ovino-caprino è rimasta pressoché inalterata: nel periodo
1949-1.974 il peso medio di macellazione è rimasto per i primi
sui Kg 61, per i secondi di Kg. 58.
Un discorso generale sulla zootecnia implica necessariamente anche un'analisi
del "settore latte e prodotti lattiero-caseari". E' doveroso
annotare che anche quest'ultimo settore ha fatto registrare negli ultimi
75 anni un cospicuo aumento dei consumi (dai Kg 38,2 del 1901 ai Kg
84,1 del 1974), con un incremento percentuale del 220%. Questa voce
ha avuto solo recentemente una adeguata rivalutazione, che l'ha portata
al ruolo di comprimaria nel mercato agricolo-alimentare.
I dati (Tab. C) del quinquennio 1970-1974 sulla produzione e l'utilizzazione
del latte di vacca, possono essere divisi in due periodi distinti che,
in un certo senso, rispecchiano l'andamento della consistenza del bestiame
bovino nell'ambito della provincia: le cifre, infatti, rivelano un andamento
positivo nel periodo fra il 1970 ed il 1972, e poi una lenta ma costante
flessione nella fase successiva. La motivazione dell'aumento del consumo
diretto del latte vaccino nel primo periodo (22,1%) e di quello avviato
alla trasformazione in prodotti lattiero-caseari (17,4%) può
essere data dall'accrescimento del livello del tenore di vita della
popolazione agli inizi degli anni Settanta, a cui è seguito un
ridimensionamento a partire dal 1973 a causa delle ben note vicende
economico-politiche nazionali ed internazionali. Il secondo periodo
palesa un netto calo della produzione del latte (21,7%), a cui fanno
riscontro le cadute nella consumazione allo stato crudo (2 4,4%) e nella
trasformazione (22,3%). Un contrapposto positivo sta nel fatto che nel
quinquennio il latte destinato all'allattamento e all'alimentazione
in genere dei redi è aumentato del 33,3%, segno dell'avvio ad
una più oculata politica di alimentazione da parte dei produttori
di latte.
Per il latte di capra e di pecora il discorso deve intendersi più
limitativo a causa dell'esiguità di dati a nostra disposizione;
tuttavia dal loro esame si possono delineare almeno alcuni orientamenti
di fondo.
Per il primo si possono individuare due tendenze: una, verso una certa
diminuzione del numero dei capi munti (9,1%), della produzione (9,2%)
e della trasformazione in prodotti lattiero-caseari (29,7%); l'altra,
verso un aumento del consumo diretto e del quantitativo riservato all'alimentazione
dei redi, rispettivamente del 31,3% e del 5,7%.
Per il secondo assistiamo ad un netto graduale aumento della produzione
e, quindi, non della trasformazione (12,7%), considerato che viene ufficialmente
utilizzato per il consumo diretto. Tuttavia anche in questo caso il
numero dei capi munti ha subìto una flessione (6,1%).
Volendo fare un consuntivo provinciale sulla produzione e sulla utilizzazione,
si deve constatare che, nel triennio 1972-1974, ad una tendenza negativa
nel numero complessivo dei capi munti (17,1%) si è associato
un continuo distacco del leccese dalla consumazione del latte che si
aggira sul 23,3%. Una certa "tenuta" del mercato si può
registrare sulla trasformazione del latte, stabilizzata su un calo dell'11,7%.
I dati in nostro possesso riguardanti il 1974, che potrebbe essere considerato
un anno campione, ci permettono di indagare sulla produzione e sulla
destinazione del latte nell'ambito provinciale.
Nel corso dell'anno il latte prodotto in provincia ha avuto questa distribuzione:

Analizzando i risultati
relativi al latte destinato ad uso alimentare, ritirato intero e rivenduto
pastorizzato, si constata che esistono due zone distinte di prelievo
e tre zone distinte di collocazione. Il latte ritirato a Lecce e nei
Comuni contermini viene rivenduto solo nel Capoluogo (zona A); quello
ritirato negli altri Comuni della provincia ha due collocazioni: la
prima nei Comuni di Maglie e Galatina (zona B), la seconda in tutti
gli altri centri (zona C), esclusi Lecce, Maglie e Galatina. Quantitativamente
abbiamo i seguenti dati:

A questo quantitativo
va aggiunto quello venduto direttamente dai produttori, che si aggira
sui 30.000 quintali annui e rappresenta 1/3 del totale complessivo provinciale.
Come si può
constatare, sopravvive, specialmente nei Comuni più lontani dal
Capoluogo, l'abitudine di vendere il latte in proprio.
Per quel che riguarda
il latte destinato alla trasformazione e ad essere lavorato per la produzione
di formaggi molli e latticini vari, il quantitativo totale si deve dividere
in tre settori differenti sia per l'approvvigionamento sia per il tipo
di trasformazione. I dati si possono così riassumere:
Anche per questo
settore il quantitativo maggiore di latte viene lavorato e trasformato
in proprio dai produttori, per essere in seguito rivenduto in massima
parte ai commercianti e in minima quantità direttamente al consumatore.
Al dato complessivo del latte prodotto e trasformato nella Provincia
(Q.li 270 mila) si deve aggiungere quello del latte importato (Q.li
140.000) da altre province pugliesi (Brindisi e Bari) e dalle altre
regioni della penisola (Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte ecc.), che
pesa sul totale complessivo del prodotto con un buon 34%.
Dall'analisi dei dati precedenti si desume Che il latte destinato ad
uso alimentare ha la seguente ripartizione:
Il totale complessivo
consumato ci porta a concludere che il leccese beve in media all'anno
circa Kg 33,6 di latte, contro i Kg 70,9 del consumo pro-capite nazionale.
Appena un cenno, a questo punto, merita un prodotto non-alimentare da
pecora, la lana (sucida), la cui produzione nel periodo 1972-1974 è
passata da Kg 183.600 a Kg 190.000 (7), con un incremento percentuale
del 3,5%.
Un notevole interesse rivestono, nell'ambito della zootecnia leccese,
i settori delle specie minori (avicunicoltura e pollicoltura - che meriterebbero
uno studio più approfondito in altra sede - a causa delle prospettive
che lasciano intravvedere in relazione ad una futura consistente copertura
del fabbisogno provinciale di carne. Il fatto è tanto più
interessante se si considerano, specie per i conigli, la brevità
del ciclo biologico e i frequenti parti plurimi portati a maturazione
nel corso di un anno.
NOTE
1) E' da tenere presente che, considerando i dati riguardanti le aziende
con bovini per classi d'ampiezza, vi sono in provincia ben 2.482 aziende
con 1-2 capi e 1.109 con 3-5 capi ciascuna, che insieme rappresentano
il 75% circa delle 4.792 aziende provinciali.
2) A. M. FERRANTE, Gli ovini di razza leccese, Galatina, Salentina ed.,
1966.
3) Gli ovini di razza leccese sono diffusi nelle sole province di Lecce,
Brindisi e Taranto. La loro consistenza è salita dai 221.693
capi del 1985 ai 233.492 capi del 1974.
4) La Puglia consuma circa il 67% degli equini macellati sul territorio
nazionale.
5) Dai valichi doganali di Prosecco (Trieste) e di Pontebba (Udine)
e dalla sezione doganale di Bari entravano in Italia i bovini - già
macellati o vivi - provenienti dai Paesi dell'Est europeo (extracomunitari):
Ungheria, Romania, Jugoslavia, Bulgaria, Polonia. I nostri maggiori
fornitori nell'ambito comunitario sono: Germania Federale, Olanda, Francia
e Danimarca.
6) Da solo o mescolato con latte di pecora.
7) Il numero dei capi tosati nello stesso triennio è passato
dalle 91.800 alle 95.000 Unità.
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