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IL CORSIVO
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Ricordo del Belice |
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Sergio
Zavoli
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Quando nacque il
telegiornale delle 13.30, nel Belice tremò la terra. Gli italiani
familiarizzarono col nuovo notiziario grazie a quelle immagini meridiane
che sembravano latte apposta per richiamare nuovo pubblico davanti ai
televisori. Soltanto un anno più tardi i superstiti di Gibellina,
Montevago, Santa Ninfa, Salaparuta, Menfi, Salemi e Partanna rividero,
nelle spettrali rievocazioni, ciò che gli era successo il 15 gennaio
1968. Tornai in quell'anfiteatro d'argilla - tra quinte di case dentate, ombre mozze e slarghi agghiaccianti - per rivivere con loro, dentro qualche baracca. le scene che avevo filmato un anno prima, quando i paesi di tufo, addormentati nella loro pazienza - i dolori come il pane, buoni anche loro - si erano spenti in grandi tonfi silenziosi e dalle macerie avevano visto alitare, pareva da un mantice, soffici fiati di polvere gialla. Quegli ultimi respiri di Gibellina li avevo disposti in una sequenza senza orrore e senza speranza; dalle rovine del paese accecato uscivano come ombre gli abitanti di un cimitero divelto, col vento che passava da casa a casa visitando, in una sola folata, tutta la scoperchiata necropoli. Coprii le immagini di quel silenzio con una frase di Sciascia; "Questo popolo di poveri ha bisogno di essere conosciuto ed amato anche in ciò che non dice". Le grida vennero dopo, quando il respiro del tufo fu disperso dal vento e la polvere si riunì tutta in alto, rossiccia e immobile. Allora gli scampati rientrarono per porte e finestre strappate, precipitando da cumuli di sabbia e di gesso, irrompendo nel vuoto da ogni parte. Ognuno portò via il suo morto e il paese cessò d'essere un cimitero. Vi arrivai di sera, con le baracche illuminate a festa perché di lì a poco, dopo un anno, sarebbero tornati gli "amici del Belice", quelli che erano stati li, sul disastro, e poi se n'erano andati con un cuore di fratelli. C'erano Carlo Levi, Leonardo Sciascia, Ignazio Buttitta, Cesare Zavattini e altri che non ricordo. Avevo viaggiato con Levi. Si era parlato dei contadini del Sud, delle loro sventure consumate per secoli nel silenzio, senza lasciare traccia, forse perché non è possibile scrivere la storia di ciò che non si svolge nel tempo. Sul finire del viaggio, ricordo che vedemmo tremare lungo i crinali una coroncina luminosa, cioè la fiaccolata che i giovani portavano fin sotto un'enorme croce di legno piantata sul Belice. Quando toccò a me ricevere dalle mani del Sindaco di Gibellina la cittadinanza onoraria, vennero avanti due genitori vestiti di nero e mi consegnarono una fotografia della loro bambina, dicendo: "Quella che lei ha parlato in televisione mentre la portavano a Palermo, in ospedale". Li presentai a Levi. Si tolse il berretto dalla testa fulva, ricciuta, e baciò loro le mani. Le necropoli erano là, ferme. Nuovi solo i cartelli indicatori, come nei musei. Levi ricominciò a parlarmi. Ora invidiava il mio mestiere perché "c'è più storia nella cronaca che nella storia medesima, e far conoscere i fatti è già un modo di risvegliare le cose..." Zavattini si era messo coi giovani e intonava con essi un canto pieno di lucido, pacato rancore. Levi venne giù, da sotto la croce, al mio braccio. A tratti lo sostenevo, e il trascorrere delle fiaccole sulla sua faccia svelava un'immagine ardente, che una volta mi era parsa di Bacco e che adesso, semmai, ricordava Mosé. "Hai visto questa gente? Non era solo popolo - mi disse - ma anche individui. Il terremoto li ha scossi dalla pazienza, li ha spazientiti uno per uno. Riavranno le case, vedrai". Schiodava i suoi cristi, uno alla volta, col suo amore inutile, lontano dal rimorso e dai poteri di Roma. Laggiù, infatti, c'è ancora Pilato. |
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