§ Itinerari leccesi

Cronache barocche




testi di Enzo Panareo disegni originali di Raffaele Spizzico



La pietra protagonista e nello stesso tempo narratrice di una vicenda arcana che ancora incanta, in una città in cui chiese e palazzi patrizi esprimono i motivi di una civiltà composita e pittoresca che, passata indenne attraverso la ferocia dei secoli, perdura.

Biancamente dorato
è il cielo dove
sui cornicioni corrono
angeli dalle dolci mammelle
guerrieri saraceni e asini dotti
con le ricche gorgiere.

Scrisse Carlo Levi: "La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni". A Lecce, invece, la notte par che gli angeli ed i santi di pietra si diano convegno nelle raccolte piazzette della città e li, tranquillamente, si raccontino storie favolose. Discesi dalle facciate delle chiese e dei palazzetti, dopo essersi di giorno offerti indifferenti all'ammirazione dei turisti ed allo sguardo distratto dei leccesi, essi intrecciano lunghe storie, quasi sempre appena sussurrate, nelle quali la nozione del tempo si misura sul frenetico ricamo delle architetture.
Protagonista di queste storie in realtà è il tempo, nello scorrere del quale gli angeli ed i santi sono andati maturando la loro giovanile vecchiezza.
Lecce fu nel Seicento fastoso e miserabile la città delle accademie e della peste, di edifici sontuosi e di povere stamberghe, la città nella quale ad un festino celebrato in case patrizie, succedeva una storia di agguati favoriti dalle tenebre, ma ancor più dalla tortuosità delle viuzze nelle quali si annidava la povera gente. Un plebeo ucciso in un angiporto valeva allora un festino consumato in veglie estenuanti, nel corso delle quali gli asini dotti sentenziavano in dispute che non finivano mai perché, in realtà, mai erano cominciate seriamente.
Veneziani, genovesi, lombardi, ebrei, saraceni, mercanti e truffatori, sapienti e contrabbandieri si avvicendarono e s'intrecciarono senza interruzione lasciando sulle facciate dei palazzi pubblici e privati, nelle chiese, sulle facciate di queste, i segni di un passaggio e di una devozione le cui uniche conseguenze erano conservate, e lo sono ancora, dalla pietra.
La pietra, allora, come protagonista, e narratrice nello stesso tempo, di una vicenda arcana che ancora incanta. Ogni mensola di balcone, ogni festone, ogni modiglione, ogni arco, ripropongono eventi remoti e polverosi cui soltanto la memoria degli antichi cronachisti può restituire il senso di una improbabile attualità.
Lecce è soprattutto città di chiese e di palazzi patrizi, città nella quale chiese e palazzi patrizi espressero i motivi di una civiltà composita e pittoresca che, passata indenne attraverso la ferocia dei secoli, ancora dura.
Il barocco non è uno stile architettonico e decorativo, o noti e' soltanto questo: è soprattutto una maniera di inventare la vita. Il barocco leccese è altra cosa rispetto agli altri barocchi fioriti contemporaneamente o quasi; nel leccese la vita predominò sull'arte e questa diventò vita. Quando cominciò a nascere e a diffondersi, per opera di artigiani intelligenti e ricchi d'inventiva, ne parteciparono tutti, patrizi e plebei, dotti ed ignoranti, religiosi e laici, perché tutti nella festosità delle fantasie barocche trovarono lo spunto necessario per giustificare la vita. Ma A angeli ed i santi, corposi come sono, hanno Più del plebeo o, meglio, rifiutano quella flessuosità decadente che è tipica dell'ideologia patrizia.
E' una storia, quella del barocco leccese, raccontata a mezza voce, modulata quasi, sul filo di un'attenzione alla quale non debbono sfuggire i dettagli. Un festone ricco di fiori e frutta è la gioia popolare di vivere malgrado tutto, è la felicità dell'estate che quando scoppia a Lecce la saltare i nervi agli uomini, ma dà un senso di benessere alla pietra che s'indora ed assume le più dolci coloriture.
A Lecce di giorno il cielo è quasi sempre terso e di notte sembra che le stelle proteggano la città. Il barocco ne esce esaltato, disponibile com'è all'attenzione graziosa degli elementi. Il vento, quando soffia, a lungo andare modifica i drappeggi dei santi, affina i volti degli angeli, e la pioggia, scorrendo sulle decorazioni, dà un senso di mobilità alla pietra. Il giallo di questa resta, ma abbronzato, con toni di grigio che nessuna tavolozza potrebbe rendere.
Le chiese, i palazzetti finemente lavorati, di giorno s'indorano alla carezza del sole, una carezza che nel cuore dell'estate diventa lasciva e forse anche cattiva. Di notte, invece, chiese e palazzetti giuocano con le ombre realizzando un surreale movimento di masse.
In certe piazzette, nella stessa piazza del Duomo, con sullo sfondo l'aerea soggetta del palazzo vescovile "una commedia di Goldoni non stonerebbe", scrisse Piovene: la squillante parlata veneziana della naturale ribalta sposata a quella musicale della platea! Par di vederci i personaggi goldoniani muoversi con sicurezza tra la facciata principale del Duomo e l'"eteroclito" - come si espresse il Brandi - Seminario. Una festa del pensiero! A Lecce, infatti, lo stesso pensiero diventò, nel momento della creazione, pietra, non inanimata, fredda, inerte, ma generosa di suggerimenti. Sulla pietra leccese del colore del miele, alla quale artigiani pazienti e fervidi dettero il meglio della loro inventiva, si ripercorrono storie fantastiche i cui riferimenti si possono rinvenire nella mitologia pagana, nell'Antico e Nuovo Testamento. rutta una storia di civiltà che, succedendosi, portarono al trionfo della decorazione.
La Chiesa del Carmine, quella del Rosario, quella di S. Chiara, con i loro motivi architettonici s'impongono per la linearità severa, ma non pesante. Il pozzo del Cino nel cortile del Seminario, prodigo di frutta e puttini, sembra un fiore sbocciato in una tiepida serra. Efflorescenze dovunque, in ogni caso! Qui la natura s'è trasformata in elemento a portata di mano degli anonimi scultori cui premeva trasferire sulla pietra il senso di una solare vitalità.

Santa Croce - che completa il luminoso palazzo dei Celestini - è un trionfo che l'uomo, il lavorio del tempo e quello degli elementi hanno affidato alla città. A scavare nelle rughe della pietra, si possono cogliere i momenti di una vita forse ancora attuale; vescovi paludati, preti, monaci e monache salmodianti, fedeli rapiti nel fumo dell'incenso, e su tutto statue di santi indifferenti portate in processione.

"A.D.1684 A 6 marzo fu decapitato il sig. Consalvo Santa Barbara di Minervino essendo fuorgiudicato la causa si fece ad horas, e si perorò dal sig. Francesco Bozzicorso avvocato primario di questi nostri tempi. A 18 fu appiccato Vito Venere di Racale e si ruppe il chiappo e fu ammazzato dai soldati con archibuggiate. A 9 luglio di domenica entrò in Lecce la statua di Rame del nostro S. Oronzo venuta da Venezia per collocarsi sopra alla colonna della pubblica piazza quale statua si pigliò processionalmente dalla Chiesa dei PP. Alcantarini fuori le mura associata da tutte le confraternita, Conventi e dal Revendissimo Capitolo ed infinità grande di nobili, civili, ed artigiani colle torce accese e con tutta la soldatesca della Provincia a piede e a cavallo, quale statua si portava sopra una bara grande, e la sostenevano 24 persone benvestite e tutte guarnite di seta. Andavano avanti di detta bara i musici cantando lodi al detto Santo. Nell'entrare in piazza si fece una salva reale di mortaretti con lo sparo dell'artiglieria del castello e anche delli soldati ... " (1)

In queste reviviscenze il barocco diventa verità. Verità di esistenze impegnate in preghiere, traffici, dispute, amori: la storia della città è nei manuali, ma è soprattutto nella successione dei motivi decorativi che hanno condizionato il sentimento degli uomini, formandone il carattere.

Un frenetico
gioco dell'anima che ha paura
del tempo,
moltiplica figure,
si difende
da un cielo troppo chiaro.

A Lecce il sole è complice della pietra. Le seduzioni che questa escogita nascono e sono alimentate dalla carica di amore che il sole, impietosamente talvolta, le riversa addosso. Le strette e contorte vie della Lecce seicentesca, sovrastate dalle ricche mensole che sorreggono i balconi, danno il senso di una vastità che è tutta interiore. Si annulla, dunque, la nozione dello spazio topografico e si esalta quella dello spazio dell'anima che cerca di andare al di là. A guardare in alto, percorrendo quelle vie, par di affondare nei secoli, par che quelle mensole, mentre propongono donne smisuratamente poppute e tralci abbondantemente carichi, ammoniscano con la loro opulenza sulla caducità della vita. Una sensazione confortata, talvolta, dal muschio e da qualche ciuffo d'erba che ha preso imprudentemente dimora nelle commessure della pietra ferita dal tempo.
Un cavallo ingualdrappato, con in sella il cavaliere ornato di ricami e spadino, che passasse oggi per una di quelle vie non susciterebbe stupore, ma sgomento Lo sgomento dei secoli che inesorabilmente son trascorsi raccontando storie cariche di simboli. Di questi, che si agitano freneticamente sulle facciate delle chiese, il cielo, implacabile nella sua serenità, raccoglie i significati, ne accresce le risonanze, ne estende gli echi, addolcendone i contorni.

In qualche periodo la pestilenza a Lecce infuriò senza pietà. Nelle miserabili stamberghe di una improbabile periferia gli uomini languivano, abbandonati alla voracità del morbo, e morivano reclamando dal Santo una protezione accordata a poco prezzo.

"... I leccesi dunque avevano sino a quel tempo della peste o ignorato o dimenticato questo loro santo. L'essere scampati dal morbo li fece a un tratto svegliare e d'accordo con Monisignor Pappacoda fecero pratiche presso la S. Sede onde averlo protettore. Il Baronio e i Bollandisti non trovarono Oronzo nei loro elenchi e poca fede prestarono alle leggende esumate e alla pergamena longobarda citata dal Ferrari che nessuno aveva visto. Essi osservarono nella vita precedente del Santo una mistificazione umanista dell'epoca allorché le città e le famiglie si facevano derivare da un ceppo romano e del tutto patrizio. Ma c'eran prove di forte credenza, di lontane visioni, di brani di tradizioni tramandate da padre a figlio, che essi non seppero contrastare... La Santa Sede compenetrata più dalla fede dei leccesi che dalla validità delle prove sanzionò, a 16 luglio 1658 l'elezione a protettori di Lecce dei tre martiri e la relativa festa di precetto ... " (2)

Alla fine non uno, ma tre protettori! La devozione in questa città correva sul filo di una santità inventata. Gli uomini qui, in realtà, pregavano con la pietra. C'è in S. Croce un altare che è tutto un ricamo. In nicchiette poco profonde formicolano graziose figurine che raccontano, festose, la vita ed i miracoli di S. Francesco di Paola. Il tempo della fede in questo altare è diventato la fede nella morbida pietra. Francesco Antonio Zimbalo, quando nel 1614, in giorni e giorni di lavoro paziente, scolpì quelle figurine pregava, invocando dal santo una protezione bonariamente accordata. I suoi peccati gli furono certamente rimessi in virtù di quella pazienza. In quelle nicchie la luce tremula di ceri fumiganti, quando non è quella più mistica delle lame di sole che s'insinuano attraverso i finestroni posti in alto, la muovere quelle figurine e sconfigge il tempo, restituendo ai miracoli del santo la serena ingenuità della vita.
Le medesime figurine sono sulla raffinata facciata della Chiesa delle Scalze. Qui sono storie di battaglie, con tende, armi, fanti e cavalli. Eppure non c'è nulla di bellicosamente truce in queste raffigurazioni. Sulle colonne che maestose fiancheggiano il portale esili tralci alleviano, con la loro gentilezza, il sacrificio delle monache penitenti.
Il sacro a Lecce s'intreccia e si fonde tranquillamente con il profano. Ad un certo momento non c'è più né sacro né profano, ma un beato sentimento d'amore che sacro e profano comprende. Certi balconi, infatti, solenni nella linearità della decorazione sembrano altari sui quali il sacerdote s'affaccia ad officiare avendo come mensa il ferro battuto che recinge il balcone.
Muniti di colonne angolari, sovrastate da tronfi stemmi patrizi, certi palazzi ricalcano i moduli disegnativi delle chiese. I loro doviziosi fastigi anelano al cielo con la solennità delle cattedrali. Altrettanto solenni sono i portoni, sormontati da decorazioni profane, ma anche da simboli religiosi richiamanti antiche e non dimenticate leggende. Una conchiglia, un angelo librato in volo, il simbolo di un miracolo, fanno la guardia ai portoni e poi ancora, draghi, grifi e quant'altro il timore e la superstizione, ma anche la fede autentica, e la fantasia, suggerirono.
Dei patrizi che uscissero oggi da questi portoni per incamminarsi verso una festa di gala, accompagnati in carrozza da staffieri in livrea, potrebbero benissimo far parte di una processione nel momento in cui si va formando. Il tempo del sacro così si confonde con quello del profano, e l'inno dei chierichetti è sostituito da quello della pietra che s'abbandona voluttuosamente agli ultimi raggi del sole.

In tal contesto negli anni dello splendore spagnolesco, una questione di forma assumeva agli occhi dei fedeli cronachisti un valore, non è esagerato affermarlo, patriottico.

"A. D. 1695 A 12 Marzo di sabato venne in Lecce la signora Contessa di Conversano D. Pupina Acquaviva, e stanziò in casa del Vescovo, dove dimorò 4 giorni, e portava seco il Contino di anni 4 e rimase stupita quando girò tutta Lecce per la bellezza della città. Ma si deve però sapere come l'anzidetta signora Contessa pretendeva dalle nostre dame l'Eccellenza, ma le medesime le fecero intendere che le signore leccesi non davano tale titolo a chicchessia ma se ciò voleva dovesse ella trattarle col titolo d'Illustrissime, onde non essendosi accordate, non vi fu niuna che l'andasse a riverire come fecero i nostri signori nobili i quali così non preggiudicarono il loro onore e zelo e stima della patria..." (3)

Prodotti, anche questi, del barocco!

Un'aria d'oro
mite e senza fretta
s'intrattiene in quel regno
d'ingranaggi inservibili fra cui
il seme della noia
schiude i suoi fiori arcignamente arguti
e come per scommessa
un carnevale di pietra
simula in mille guise l'infinito.

V. BODINI, Lecce

A Lecce il barocco ha arrestato il tempo. Tutto sembra ancorato ad un momento - ore, giorni, secoli - irripetibile della storia della città, quando attraverso il fornice dell'Arco di Trionfo gli eventi entravano, venendo dal Reame, per raccogliersi indolenti nel Sedile dal quale si amministrava l'esistenza splendida e grama dei leccesi. Ma non solo nel Sedile. Affari di stato, intrighi politici e familiari trovavano il loro naturale sviluppo nel raccoglimento dei saloni patrizi, nei quali si incontravano i maggiorenti della città. Saloni maestosi, decoro dei palazzi delle arterie cittadine.
Via dei Perroni è una di queste. Parte dalla porta S. Biagio ed è interrotta dall'ardita proposta architettonica della Chiesa di S. Matteo. Spirito arguto, l'architetto Achille Carducci, che ne eseguì il disegno, volle mandare l'edificio al di là delle sue proporzioni, in maniera che questo sembrasse protendersi verso la piazzetta Regina Maria, d'Enghien naturalmente! In questa s'immettono, per stretti vicoli. altre piazzette di carattere popolareggiante. Quella dedicata all'arte della stampa è la più caratteristica, una sorta di campiello veneziano, festoso di donne ciacolanti e bambini ruzzanti. Era in questi slarghi che a Lecce, allora, s'inventava la vita.
Come accadeva - ed accade ancora - per i campielli veneziani, le piazzette a Lecce sono il naturale scenario sul quale ancora si rappresenta la commedia del tempo. Una commedia. che negli anni del barocco poteva diventare anche tragedia.

"A. D.1688 A 1 Giugno di Pentecoste la sera ad ore 2 di notte avanti la Chiesa di S. Eligio fu tirata un'archibuggiata a Giuseppe Tiso da Lecce ed il terzo giorno se ne morì..." (4)

Le cronache che tramandano la vita della città nei secoli del Reame sono il più delle volte cronache insanguinate. Racconti di eventi truci, nei quali hanno luogo agguati, ammazzamenti per interesse o per rivalità in amore, esecuzioni capitali, dopo un regolare processo o sommarie, eventi dai quali si ricava l' idea di una città che, ai margini dello splendore patrizio - e quanto inquinato anche questo! -, ospitava i miasmi affioranti dalla palude della miseria e della degradazione sociale. Certi angoli leggiadri, a sollecitarne la memoria attraverso le cronache tramandate, assumono oggi, a chi li ripensa nel tempo, il volto fosco e temibile di scenari sui quali furono consumate le più nere turpitudini. Lecce fastosa e miserabile, dunque! La città dai mille volti umani, la città di una vita multiforme nella quale grandezza e miseria convivevano tranquillamente.
Una città imprevedibile nella quale poteva accadere che "i bambini nati non da legittimo matrimonio erano lasciati in mezzo alle pubbliche strade e nelle campagne con pericolo manifesto di esser mangiati dai cani o da altre fiere o da morir così da loro stessi senza neanco sapersi". (5)
Grandezza e miseria di una città fervida di traffici e d'intrighi, naturalmente dedita al fasto, ma anche alla corruzione.
Così, antiche fortune decadevano, vetuste famiglie perdevano i loro privilegi, e nuove fortune emergevano, al punto che modeste famiglie diventavano "ragguardevoli".

"... Cominciò a sorgere anche una nobiltà di straforo composta di mercanti, di avvocati e di notai e che si sovrappose a quella autentica di antico stampo... Era il secolo che decadeva e tra il rimescolio di razze e l'incrociarsi di condizioni diverse succedevano sfide e ammazzamenti ad ogni passo". (6)

Nasceva, con i secoli del barocco, una nuova classe dirigente, una borghesia mercantile abile ed avida, che aspirava al successo ed al blasone. Cominciarono le fortune degli avvocati, degli uomini di legge i quali prosperavano sugli eventi delittuosi, sulle controversie per interessi economici. E cominciarono a sorgere i nuovi palazzi, le dimore fastose nelle quali questa nuova classe s'insediava con prospettive ardite.
Anche gli artigiani cominciavano a prendere coscienza di una loro collocazione nel corpo sociale che si andava rinnovando. Le loro case, sia pur di modeste proporzioni.. tentavano di riecheggiare nella struttura e nell'ornato le case patrizie. Belli certi cortiletti in queste case. Armonia soprattutto nella decorazione di questi cortiletti, il senso di una vita fondata sulla tranquillità economica e sulla quiete morale. Questi cortiletti, visti dalla strada, par che rievochino le tranquille conversazioni di famiglie che d'estate, all'imbrunire, si raccoglievano allo scopo di raccontarsi i fatti della giornata. Sua estivi architettonicamente anche i mignani, piccole logge poggianti su mascheroni dalle quali par che da un momento all'altro debba di nuovo affacciarsi una ragazza innamorata. Di fronte le sta il severo palazzo patrizio; dalla cortina del balcone un giovane occhieggia furtivamente.
Le classi sociali, le dominazioni, gli stili, i richiami da altri paesi, si sovrappongono e danno vita a quel "carnevale di pietra" nel quale si addensa la storia più genuina di Lecce.

NOTE
1) - CINO, G., Memorie ossia notiziario di molte cose accadute in Lecce dall'anno 1656 sino all'anno 1719.
2) - PALUMBO, P., Storia di Lecce. Con documenti inediti. Lecce, Stab. Tip. Giurdignano, 1910, p. 189.
3) - CINO cit.
4) - CINO cit.
5) - FERRARI, I. A., Apologia paradossica... in Lecce dalla Stamp. del Mazzei l'Anno 1707, p. 708.
6) - PALUMBO cit., p. 211


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