In cima a queste
colline non ci si sente mai soli come in un deserto, le tracce dell'uomo
sono per tutta la campagna, per secoli è stata sua. sottomessa,
mansueta, umanizzata.
Sono cerniere di
dorsi verdi. Le "serre" minori salgono per sessanta o settanta
metri; le maggiori vanno più su, alzano creste più ardite,
superano i centocinquanta metri: è la montagna del Salento, che
come tutte le montagne che increspano una pianura, e per di più
una pianura peninsulare, sono in scala ridotta. La Serra dei Cianci
è l'Everest di questo sistema micro-orografico: una. gran gobba
sopra Alessano, a guardia dei vigneti che si stendono nella campagna
laminata dal sole. Sotto, il paesaggio è dominato dai suoi abitanti:
essi hanno coltivato ogni palmo di terra coltivabile, le loro case sono
disseminate fittamente nella piana. In cima a questa serra, come in
cima a ogni altra serra salentina, non ci si trova mai soli come in
un deserto: le tracce dell'uomo sono per tutta la campagna, per secoli
essa è stata sua, sottomessa, mansueta e umanizzata. La vita
vegetativa delle piante e delle cose è aliena e ostile alla vita
umana. Gli uomini non possono vivere riposatamente, se non là
dove hanno dominato ciò che li circonda, o là dove le
loro vite accumulate superano in numero e in importanza le vite vegetative
all'intorno. Riordinato, piantato, disegnato in terrazze, e coltivato
fin sulla cima, il paesaggio delle serre è, appunto, umanizzato;
è sicuro. Non ha l'acredine del paesaggio appenninico; non lancia
sfide come quello alpino. Ha una sua propria dolcezza, e più
che semplici colli, le serre sembrerebbero insellature o piccole valli
capovolte.
Da quando, nella lontananza dei secoli, questo paesaggio è stato
addomesticato dall'uomo? C'è una grotta - di dimensioni ridotte
- sullo spigolo della serra di Sant'Eleuterio, affaccia verso lo Jonio,
sopra Matino; una grotta sghembata, stazione abitativa intermedia, con
tutta probabilità, ce lo confermeranno gli specialisti, quelli
che leggono i millenni sulle schegge di pietra, sulla selce lavorato,
sugli ossi a punta di freccia. Una volta c'erano graffiti, qualcosa
forse sopravvive (al radioscopio?) ancora oggi, non la rivedo da anni:
fu dunque un uomo evoluto, quello che la frequentò; un uomo pienamente
storico. Com'era il paesaggio intorno? Il Salento fu terra di ghiacci,
è stato accertato. Finite le glaciazioni, vinse una primavera
mediterranea, e vennero gli anni della felce, gli anni dei carpini e
dei lecci nani, gli anni della quercia macedonica e della vallonea.
La civiltà si dato col primo giorno in cui fu lavorata la terra,
quando nacque la prima attività umana, l'agricoltura; il secondo
giorno l'uomo inventò la pastorizia e la pesca. Allora il paesaggio
agreste si combinò con quello marino: la rusticità e l'umiltà
dei campi venne a contatto con la gloria del mare.
L'acqua non fu l'oro liquido che sarebbe diventata, in seguito, nella
penisola salentina. Brevi, i fiumi c'erano; e forse non potevano che
essere fulminei, dal momento che l'altitudine media del Salento era,
ed e' minima; se il mare sale di trentacinque metri, la penisola si
trasforma in un arcipelago; isole diventano le creste delle serre. L'acqua
c'era, in superficie. Poi il gioco della natura coinvolse le leggi chimiche
e quelle fisiche, si sviluppò un gigantesco ventre carsico che
inventò cunicoli, grotte, caverne, meraviglie cristallizzate
dai millenni, precipizi su sfondi di stalattiti e stalagmiti volte e
corridoi e ramificati canali, slarghi inattesi di gelide acque con superstiti
faune preistoriche, e tutta l'orrida bellezza del ricamo del tempo distillata
secolo dopo secolo, aurea, bianca, diafana; e l'acqua andò capofitto,
i fiumi si rinserrarono nel cuore di questa terra, dentro le sue aorte
e vene e vasi, linfa perennemente filtrata attraverso le gobbe del tufo,
setacciata da miliardi di pori calcarei: i fiumi divennero "uadi"
in superficie, come se anche qui fosse Sahara, lasciarono il regno del
sole, al quale lo restituiscono, oggi, le pompe meccaniche dei pozzi
artesiani, che li piegano all'uso della terra, li riumanizzano. La cattura,
ai piedi delle serre. La Serra di Sant'Eleuterio è una miniera
senza fine. Forse perché è una serra a modo suo: in realtà,
è il più grande "altopiano" della penisola salentina.
Si alza bruscamente, con tornanti ripidi, poi si appiattisce, allargandosi
da Alezio a Matino, a Parabita, a Casarano, a Collepasso: in cima al
tronco di cono, boschi di ulivi tra la pietra viva e la terra rossa.
Dai suoi spalti si allarga la vista, il mare di Gallipoli sembra uno
stagno lontano, fulvo al tramonto; a sud, fronteggia un'altra serra
contigua quella di Casaranello; a tramontana s'addolcisce, scende a
terrazzi verso gli antichi "paduli" dell'agaro collepassese,
che ricordano ancora storie di briganti predatori di diligenze e taglieggiatori
di masserie.
Sull'altopiano c'erano stormi di beccacce che spiccavano improvvisamente
il volo; e tordi, lepri, ricci, donnole, volpi. Sul cielo primaverile
migravano frecce d'aironi, tagliavano corto dai vicini Laghi Alimini-Fontanelle
e planavano verso i laghetti artificiali di Porto Cesareo, ricchi di
Pesce azzurro.
Lo sterminio è stato una squallida epopea di cacciatori incolti,
di mitragliatori della domenica, li ho visti "scendere", doppiette
automatiche alla mano, in lungo semicerchio, distanti trenta o quaranta
metri uno dall'altro, rastrellavano un territorio di sette, otto, nove
chilometri, per la loro stupida guerra, per l'ignobile gioco al massacro:
piombavano a terra miracoli di allodole librate in un cielo ormai spoglio:
rari tordi precipitavano fra le braccia degli ulivi; tenere tortore
finivano a picco tra i cespugli delle macchie Gli aironi, non passano
più, anche le folaghe hanno abbandonato Alimini, le migrazioni
seguono altre rotte, ho ritrovato queste memorie sugli stagni jugoslavi,
gli uccelli hanno cambiato nazionalità, sulle serre sono rimasti
i passeri, che hanno il volo corto, forse se ne andranno anche loro,
emigreranno mettendosi in marcia, stormi appiedati, e i cacciatori dovranno
minare, le strade e i ponti per raccontarsi la storia della strage festiva.
All'ombra della Serra dei Cianci, ad Alessano, si staglia la più
bella Collegiata barocca, assediata da gentili palazzi. Al centro di
Alezio, nel giardino di un mio amico e collega, vennero alla luce delle
tombe messapiche. E messapica fu quasi certamente Veretum, a Patù,
paese sdraiato alle falde della Serra di Vereto, ai cui margini sorge,
misterioso, ambiguo quasi, e pur sempre d'un lascino che proprio dall'inesplicabilità
geografica e funzionale deriva la più gran parte della sua forza,
il Centopietre, il megalito per eccellenza dell'intera penisola satentina.
In "Pellegrino di Puglia". Cesare Brandi scriveva: così
piatta com'è, con quelle strade diritte e i grossi borghi bianchi,
fitti quanto un gregge di pecore nello stazzo, la Puglia non la venire
il desiderio di percorrerne le strade, di entrare in quei borghi, di
trovarsi a raso terra in tanta pianura, e così eguale. C'erano
i monumenti (la sorprendente fioritura artistica) e quelli bisognava
conoscerli, ma, oltre ai monumenti, non sentivo altra ragione di andare
in Puglia... Avvenne dopo molto tempo che dovessi visitare Otranto:
la Puglia bisognava infilarla tutta, per arrivare sin là. E allora
cominciò la scoperta. Né s'arrestò a questo primo
viaggio, né al secondo, né al terzo; la scoperta non finirà
mai, perché è un paese, la Puglia, come il mattino, un
mattino limpido, un mattino di cielo liquido: e il mattino, sarà
sempre lo stesso ma non viene mai, a noia.
E ha sempre qualcosa di nuovo, uno spettacolo sempiterno.
La Puglia è un meraviglioso, austero paese arcaico. L'unico dove
si assiste ancora allo spettacolo incontaminato, e per interminabili
distese, di una flora anteriore alla calata degli indoeuropei: solo
ulivi e viti, viti e ulivi, le piante che nel nome, tenacemente conservato
e trasmesso, rivelano ancora di essere state trovate sul posto dagli
invasori ariani... In realtà il severo passaggio della Puglia
è in queste distese di mastodontici ulivi, in questi tappeti
a non finire di viti basse, che si tengon ritte da sé. E non
c'è minor fascino, per chi lo sa sentire, in tale elementarietà
di paesaggio, che nei menhir, nei dolmen, nei trulli. Se si pensa che
i trulli più antichi non rimontano oltre il Seicento. sembrerà
noi, so sa più fatidico o fatale che la Puglia seguiti a esprimersi
nei termini d'una civiltà neolitica, fino a ritrovare spontaneamente
tecniche preistoriche come quella della copertura "a tolos"
dei trulli.
Come non ricordare i cugini-germani dei trulli, i "caseddhri"
sparsi sopra le serre, e lira serra e serra; e la loro umiltà
accennata in quel Privarsi di tetti cimati, di pinnacoli, di doppie
coperture a incastro? La nostra povera "Valle d'Itria" ènegli
slarghi delle Serre Falitte, tra Morciano e Barbarano; a ridosso della
Serra Magnone, verso Specchia, dove nitidi muri a secco dividono le
campagne dietro la Serra di Tricase, lussureggiante per la sua folta
vegetazione, col mare dirimpettaio; nelle mattinate d'aprile, qui, i
colori - tutti - si confondono d'un colpo; quelli delle ville sparse
tra le campagne, quello - invariabile - degli alberi di fico, e quelli
delle superstiti vallonee, e quelli dei paesi e. tiro d'occhio che fumigano
nel torpore del primo sole; i colori pastosi delle terre coltivate e
quelli mimetici delle campagne brade e delle macchie e delle chiuse
"scerze", abbandonate intonse inselvatichite, eppure vive
e palpitanti anch'esse.
Ci si è chiesto a cosa servissero le "specchie": luoghi
di avvistamento, s'è detto fra l'altro; colline di pietre, alture
artificiali che sentinelle scalavano a turno, per scrutare il mare da
cui venivano tutti i pericoli; microscopiche serre anch'esse, nelle
accanite pianure costiere e dell'entroterra; alzate a formare un intelligente
sistema di avvistamento e di comunicazione (si segnalava con i falò?
col fumo? con i corni squillanti da specchia a specchia?). La specchia
fu certo un desiderio di collina, un bisogno di dominio per lo sguardo.
Dalla parte dello Jonio c'è una serra, si chiama solo così,
La Serra sta dietro la schiena di Gallipoli e dietro la schiena di Santa
Maria al Bagno, dove si la roccia montagnosa, e poco prima della "Montagna
spaccata" si apre quasi ad anfiteatro. in uno scenario da western;
spoglia, qui; ricca di pini, verso Gallipoli, prima che s'inforri verso
il territorio di Sannicola. Un'altra serra è verso Ugento, è
la Serra delle Fontane, che accoglie una chiesetta del 1200 e una cripta
del Crocefisso. Un desiderio d'altezza anche in questo alzar chiese lassù.
Ci si deve recare, a Casarano, alla Madonna della Campana; si deve entrare
nel tempietto, sentire il sapore antico che promana, avvertire l'improvviso
silenzioso raccoglimento dell'ambiente: un miracolo si compie qui dentro,
dopo quello -esterno - della sera percorsa da brividi di stelle issate
in cima alle luci di cinque dieci o forse cento mille paesi raccolti
sotto l'affaccio, quieti nell'estate, come seduti fuori della soglia
di casa, a raccontarsi le semplici cronache di un qualunque giorno salentino:
un miracolo che si ripete, a saperlo cogliere nei suoi momenti inaspettati,
qui. più in là, o altrove, cima dopo cima. serra per serra,
sopra e sotto le terre gradinate, dentro e fuori i borghi prima che
se ne perda l'eco, e prima che tutti gli echi diventino memoria e nostalgia.
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