Otto paesaggi economici,
sociali, culturali: e, all'interno di ciascuno di essi, arcipelaghi
etnici, topografici, altimetrici, linguistici, folcloristici, religiosi.
Dalla federazione di questi mondi, accomunati da una storia che fu grande
e illuminò per prima il mondo, e da una decadenza che persiste
ai nostri giorni, è nato il pianeta Mezzogiorno con una sua filosofia
e una sua concezione fatalistica della vita, con il ritmo della fantasia,
con la disponibilità all'avventura migratoria, con un colore
della pelle.

Superfici di 34 capoluoghi di provincia, dai confini con il Lazio, l'Umbria
e le Marche al cuore del Mediterraneo, solcate da una catena appenninica
che divide verticalmente il Sud, dandogli le altitudini medie più
vaste della penisola, ove si sono diffuse per secoli le colture estensive
dei cereali. In Puglia, in Sicilia, in Sardegna le pianure più
estese. Irregolari i corsi d'acqua, per molti dei quali si attendono
ancora le opere di bonifica. Massima altitudine, quella dell'Etna, il
maggior vulcano europeo. Capitale morale, Napoli.
Deep Souths
Aldo Bello
Degli otto Sud che
formano il più antico Sud del mondo, (Puglia, Basilicata, Calabria,
Campania, Sicilia, Sardegna, Abruzzo, Molise), il più grande
è cinque volte più grande del più piccolo, il più
popolato ha sei volte più abitanti del meno popolato, il più
arido non riceve più acqua dell'Estremadura, più umido
non ne riceve meno del Gabon, quello colonizzato da più tempo
aveva un'architettura ai tempi di Pericle, il più recente non
ne aveva ai tempi di Pio nono, il più agricolo miete più
cereali delle regioni del "Triangolo", il più industrializzato
ha meno ciminiere del solo hinterland milanese.
Otto Sud. Ma all'interno di essi alternano molti altri Sud.
Quanti? Difficile contarli. Non hanno steccati precisi, definitivi.
Non esistono barriere tangibili. Ma proprio per questo le barricate
sono troppe e sembrano indistruttibili. Sono almeno una per ogni area
etnica, topografica, altimetrica, linguistica, culturale, economica.
religiosa. Il fenomeno di coesione che ha tenuto insieme questi molti
Sud, chiudendoli nel circuito di un solo Mezzogiorno è uno degli
aspetti più straordinari della nostra storia moderna. La sua
spiegazione presenta le stesse difficoltà che incontrano i fisici
quando esaminano le poderose forze che legano il nucleo all'atomo. La
scienza parla di particelle e antiparticelle, di cariche elettriche
positive e negative, di catene di azioni e di reazioni. Questi molti
Sud hanno tutte le forme, dalle regolari geometrie ai tracciati più
complicati dei vecchi recinti balcanici.
Hanno posizioni opposte su problemi economici, sociali e morali di identica
natura. Alcuni tendono al superamento dei loro angusti orizzonti, creato
da una storia in fondo comune a tutti, e certamente assai più
tragica che grande; altri, i più, malgrado il salto di qualità
registrato in questi ultimi decenni, restano vincolati alle antiche
culture locali. Tutti quanti hanno un proprio indistruttibile passato,
sempre assai più nobile del passato degli altri: una propria
arte; una propria letteratura; un'annalistica; un martirologio; una
mitologia. Dappertutto sopravvivono il culto e i riti delle memorie
paesane. Cioè: i morti comandano. Nel cuore di ciascun Sud pulsa
il ricordo di una bandiera, di una capitale, di una repubblica marinara,
di una marca feudale, di una lega, di una contro alleanza, di un giorno
di gloria o di sven-tura. E sono ricordi accaniti.
Dalla federazione di questi contrasti è nato un patriottismo,
con la caratteristica di tutti i patriottismi: l'orgoglio e la diffidenza
nei confronti del vicino. Questi Sud sono una costellazione di corpi
mossi da una comune forza centripeta. Ma in realtà essi non si
attraggono. Si fronteggiano, soprattutto per coppie. Si è ovunque
particella e antiparticella; si è dappertutto il nordista o il
sudista di qualcuno. C'è, qualche volta, una pelle più
chiara o una pelle più scura. Si è più agricoli
o più industriali. Più imprenditoriali, affaristi, bucanieri,
magliari, superstiziosi, mafiosi. Centinaia di paesaggi sociali in conflitto,
alle soglie del ventunesimo secolo, non sempre si rassegnano di fronte
all'urto di una storia che pure li dovrà portare allo smantellamento
delle strutture arcaiche che sono state all'origine della loro protostoria
e la proiezione della loro storia minima.
La storia maggiore del Mezzogiorno, infatti, non ha conosciuto frontiere.
Il pensiero che essa ha generato ha negato, superandole, quelle barriere
"naturali" che furono il sogno mostruoso di una lunga età,
dal feudalesimo al Romanticismo. Quel pensiero, con gli studi di filosofia,
di algebra, dì astrologia, di geografia, di medicina, di politica,
di filologia, di musica, per primo entrò nella storia del mondo,
quando il mondo era ancora e soltanto Europa. Al di sopra e al di là
dei molti Sud, che caratterizzano il ghibellinismo di campanile del
Mezzogiorno, è esistito un continente culturale la cui geografia
molto sommaria corre sul filo di Pitagora, Orfeo, Alcmeone, Ennio, Orazio,
Cassiodoro, Gioachino da Fiore, Telesio, Gravina, Campanella. Giannone,
Vico, De Sanctis, Galluppi, Genovesi, Cilea, Capuana, Verga, e poi gli
storici e gli economisti meridionalisti, e poi ancora Jovine, D'Annunzio,
Alvaro, Croce, Gramsci, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Tomasi di Lampedusa...
Come questo continente per tanto tempo abbia potuto rinunciare a un
primato politicoeconomico, o per lo meno al diritto di presentarsi come
entità omogenea, compatta, con identici interessi e tendenze,
è un problema complesso che solo da poco la pubblicistica va
mettendo in evidenza. Non si può capire il Mezzogiorno vecchio
e nuovo - con i suoi motti Sud - se non si tien conto di tutto ciò.
PROFILI DELLE
REGIONI DEL MEZZOGIORNO
Mezzogiorno
Guglielmo Tagliacarne,
Sandro Gattei
Dopo aver presentato,
nei numeri precedenti, una analisi sulle singole regioni del Sud, riteniamo
utile aggiungere anche un profilo sul Mezzogiorno nel suo complesso.
Territorio e
popolazione
Il Mezzogiorno si
estende su una superficie territoriale di Kmq 123.044,65, di cui il
28,4 per cento è costituito da montagna, il 53,2 per cento da
collina e il 18,3 per cento da pianura.
La popolazione residente, al 31 dicembre 1976, è di 19.843.265
abitanti pari al 35,2 per cento del complesso nazionale, una quota sensibilmente
inferiore a quella relativa alla superficie (40,8 per cento).
In un quarto di secolo, dal 1951 al 1976, la popolazione del Mezzogiorno
è aumentata del 12,2 per cento, contro un aumento del 18,5 per
cento dell'Italia in complesso. Fra le regioni meridionali gli aumenti
più elevati si sono riscontrati in Sardegna (22,9 per cento)
e in Campania (22,8 per cento). Per contro, si sono avute diminuzioni
in Abruzzo ( -4,4 per cento), nel Molise ( - 18,8 per cento) e in Basilicata
( - 1,6 per cento). Di seguito riportiamo, per le regioni del Mezzogiorno,
la popolazione residente alla fine del 1976 e la variazione percentuale
rispetto al 1951;
Per dare una misura effettiva del movimento migratorio che ha colpito
il Mezzogiorno è da rilevare che dal 1951 al 1976, contro un
incremento naturale (nati meno morti) di 6.226.465 unità, si
èavuto un aumento di appena 2.157.841 abitanti. Per cui, le persone
che nel periodo suddetto si sono trasferite nell'Italia centro-settentrionale
e all'estero ammontano a 4.068.624.
Negli ultimi anni l'emigrazione verso l'estero ha subìto una
diminuzione assai sensibile, ma non per il miglioramento delle condizioni
di vita delle regioni meridionali, ma per l'attuale crisi economica
che tocca, in misura diversa, tutti i Paesi, con la conseguente difficoltà
di trovarvi lavoro. Da una media annua di 137.000 emigrati nel periodo
1951-1955 si è passati ai 223.000 nel 1961-65, per scendere ai
77.000 del 1971-75 e ai 56.000 attuali. Dal 1972 il numero dei rientri
supera quello degli espatri.
Il tasso di natalità è pari a 17,2 nati vivi per 1000
abitanti, superiore a quello del complesso nazionale (13,9). Valori
più elevati si riscontrano in Campania (18,9) e in Puglia (18,5).
La mortalità infantile ha subìto, nel corso degli anni,
una costante diminuzione. Da 82,4 morti nell'anno di vita su 100 nati
vivi nel 1951, si è scesi, nel 1976, a una quota del 22,5 che
è però ancora notevolmente superiore a quella della media
italiana (19,2).
Reddito e consumi
Il reddito prodotto
nel 1975 è stato calcolato in 27.121.200 milioni di lire, pari
a 1.380.000 lire per abitante. La cifra pro capite è inferiore
del 31,2 per cento a quella della media nazionale, il che dimostra come
la distanza tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord sia ancora molto grande.
Valori più modesti si riscontrano nel Molise, in Basilicata e
in Calabria. Il Molise, la Basilicata e la Calabria sono anche le regioni
in cui si ha la quota più elevata di reddito proveniente dall'attività
agricola. La Basilicata detiene, invece, la più alta quota di
attività industriale, anche se in realtà l'industria non
rappresenta un settore rilevante in valore assoluto.
La produzione del
Mezzogiorno non sufficiente a coprire il fabbisogno per i consumi e
investimenti. Infatti, come si è già detto, il prodotto
lordo nel 1975 è ammontato a 27.121,2 miliardi di lire, mentre
i consumi sono stati di 25.850,0 miliardi e gli investimenti di 6.954,4
miliardi. Pertanto, gli impieghi (consumi + investimenti) sono stati
di 32.804,4 miliardi di lire, superiori di 5.683,2 miliardi a quella
del prodotto lordo. Questa cifra rappresenta il valore delle importazioni
da altre regioni italiane e dall'estero.
Un esame su alcuni consumi non alimentari, sufficientemente rappresentativi
del livello di vita della popolazione, ci mostra come il Mezzogiorno
stia a un livello decisamente inferiore alla media nazionale.
Anche in questo
caso le regioni più arretrate sono il Molise, la Basilicata e
la Calabria.
Disoccupazione
Gli iscritti agli
uffici di collocamento nella I e II classe (persone in cerca di prima
occupazione e persone che hanno perso l'impiego) sono risultati, alla
fine del mese di agosto 1977 (ultimo dato disponibile), 872.563, pari
al 60,4 per cento del totale di tutta Italia. Rispetto allo stesso mese
dell'anno precedente, si è avuto un aumento del 27,5 per cento,
di poco inferiore a quello registrato per il complesso nazionale. Particolarmente
grave è la situazione della Campania dove si rileva oltre il
37 per cento del totale dei disoccupati del Mezzogiorno. Le iscrizioni
alle liste speciali di collocamento per i giovani da 14 a 29 anni sono
state 396.538, pari al 61,3 per cento di tutta Italia.
Nei primi nove mesi del 1977 la Cassa integrazione guadagni ha concesso
32.325 mila ore (gestione ordinaria) con una diminuzione, rispetto allo
stesso periodo dell'anno precedente, del 10,8 per cento.
Istruzione
I progressi della
scuola nel Mezzogiorno costituiscono un fatto importante per lo sviluppo
futuro delle attività civili ed economiche di queste regioni.
Gli incrementi della scolarità riguardano sia le scuole dell'obbligo
che, specialmente, le scuole secondarie superiori che testimoniano la
volontà della popolazione meridionale ad istruirsi al di là
del livello obbligatorio. Alla domanda così elevata di istruzione
non corrisponde però una attrezzatura scolastica sufficiente;
la percentuale di alunni costretti a doppi e tripli turni è infatti
molto elevata.
Turismo
Il settore turistico
nel Mezzogiorno sta registrando uno sviluppo notevole. Rispetto alle
17.947 mila presenze registrate nel 1961 se ne sono avute, nel 1976,
49.386 mila. L'incremento riguarda anche il turismo straniero passato,
nello stesso intervallo di tempo, da 4.078 mila a 10.161 mila presenze.
Tuttavia, nonostante l'incremento notevole, il flusso turistico è
sensibilmente inferiore a quello che le regioni meridionali richiamano
per le loro bellezze naturali, storiche e artistiche. Indispensabile
è aumentare le disponibilità alberghiere ed extralberghiere
che attualmente sono costituite da 650.000 posti letto.
Commercio estero
Secondo le rilevazioni
effettuate dall'Ufficio Italiano dei Cambi sui movimenti valutari con
l'estero nel 1976, le esportazioni sono ammontate a 1.739.700 milioni
di lire, mentre si sono avute importazioni per un valore di 1.916.006
milioni con un saldo negativo, quindi, di 176.306 milioni. Saldi attivi
si sono riscontrati in Abruzzo, Puglia, Basilicata e Sicilia.
I prodotti maggiormente
esportati sono costituiti dalla frutta, da prodotti chimici organici,
concimi, combustibili minerali e oli minerali, macchine e apparecchi
elettrici. I Paesi più importanti sono la Francia e la Germania
Federale, mentre per le importazioni rilevanti sono anche le provenienze
dagli Stati Uniti.
Considerazioni
finali
Nonostante l'impegno
e i notevoli sforzi finanziari, il Mezzogiorno è ancora assai
lontano :dal raggiungere un livello di vita soddisfacente. L'annullamento
del divario esistente con l'Italia centro-settentrionale rappresenta
ancora oggi una utopia.
Il Mezzogiorno è caratterizzato da un elevato tasso di natalità,
nonché da una mortalità infantile ancora al di sopra di
limiti accettabili. Carenze si riscontrano nell'edilizia scolastica
e, nonostante l'aumento delle disponibilità, la situazione dell'approvvigionamento
idrico è ancora assai insufficiente. Altre gravi carenze riguardano
i servizi esistenti all'interno delle abitazioni (numerosissime sono
quelle mancanti di acqua e di gabinetto), il settore sanitario e soprattutto
la cronica mancanza di posti di lavoro.
Tre regioni si distinguono per il loro grado di estrema povertà
e sono il Molise, la Calabria e la Basilicata. Chiari segni di arretramento
si hanno in Campania, dove la disoccupazione ha toccato livelli insostenibili.
Per contro la Puglia è la regione che presenta i maggiori sintomi
di miglioramento e che si sta dando una struttura industriale di notevole
entità.
La questione
meridionale
Paolo Coteni
Denominazione specifica,
a partire dall'Unità d'Italia, di un antico e grave problema
della penisola.
Quello del Mezzogiorno è in sostanza un problema di aree depresse,
che affonda le sue radici nel diverso sviluppo storico che contraddistinse
le regioni a sud del Tronto e del Garigliano rispetto al resto d'Italia:
debole consistenza dello sviluppo dei Comuni; debole tessuto cittadino;
persistenza del feudalesimo (abolito sul piano giuridico solo nel periodo
napoleonico); scarsità delle attività commerciali e manifatturiere;
ristrettezza del mercato. Quando con l'inizio del XVI secolo si instaurò
in Italia il predominio spagnolo, gli Spagnoli non si preoccuparono
minimamente di impostare una politica economica che potesse dirsi di
restaurazione e di riunificazione del mercato, la stessa Spagna essendo
un paese in decadenza commerciale. Di qui, le caratteristiche che già
avevano colpito T. Campanella, F. Filangieri, G. M. Galanti, Pietro
Colletta, e che colpirono i "Piemontesi'' quando, dopo la conquista-liberazione
del Sud, nel 1860 intrapresero la politica di unificazione (Cavour,
Farini, Medici, Bertani, ecc., e via via i governi della Destra storica):
città sovrappopolate quali Palermo e Napoli, che sopravvivevano
su innumeri attività terziarie (a cominciare dalle attività
di lusso che avevano interessato la corte o la nobiltà che vi
consumava le proprie rendite), entroterra arretrati per regime fondiario,
irrigatorio, creditizio, stradale, ecc.; analfabetismo assai maggiore
che nel Nord; organizzazioni criminali, quali la camorra e la maga;
renitenza ella leva; fenomeno del brigantaggio. Più grave di
tutte, la mancanza di spirito associativo e imprenditoriale, donde la
mancanza di quel concorso di capitali manifatturieri e creditizi in
grado, unendosi, di creare nuclei espansivi di iniziative industriali
capaci di riflettersi anche nei confronti della campagna.
Dopo la fine del dominio spagnolo, fin dai primi anni del Settecento,
erano stati avviati tentativi di ammodernamento, dapprima con Carlo
III di Borbone" poi con Ferdinando primo all'epoca del ministro
Tanucci, e poi, nel periodo francese, con le leggi radicali del Murat
miranti a colpire i più vistosi privilegi curiali e feudali,
e con il tentativo, sempre nel periodo muratiano, di incoraggiare il
formarsi di una piccola proprietà contadina (questione demaniate).
Nei primi decenni dell'Ottocento, allorché ormai nell'Europa
evolutasi era sviluppatala rivoluzione industriale, vi furono veri e
propri tentativi di formare poli di sviluppo, incoraggiando l'insediamento
di imprenditori stranieri (quali SchIaepfer, Wenner, Egg, Escher, ecc.).
Nel frattempo, la pubblicistica meridionale più avanzata (da
G. Riccardi a Carlo De Cesare, a S. Cagnazzi, a L. Bianchini) manifestava
l'urgenza di creare un ceto medio imprenditoriale e non semplicemente
curiale, consolidato abbastanza da fare salda la compagine di iniziative,
e non soltanto un occasionale tentativo di pionierismo forestiero.
Dopo il 1861, una volta che il problema del Mezzogiorno divenne "questione"
di tutta l'Italia, la presa di coscienza nazionale del problema si andò
poco alla volta allargando. La Destra storica ne ebbe una visione prevalentemente
pedagogica e moralistica ("educazione" delle plebi meridionali),
certo interessante e indispensabile all'inizio, e poi nazionalistico-repressiva,
soprattutto contro i moti del brigantaggio e quelli per l'imposta sul
macinato, che sollevarono il timore di una secessione del Mezzogiorno,
timore ingigantito dall'incapacità di vedere le radici profondo
dei moti stessi da parte delle classi dirigenti.
Quando il malcontento delle plebi incominciò a prendere una veste
ideologica, fu dapprima influenzato dall'anarchismo di Bakunin e dagli
aderenti italiani alla Prima Internazionale, e poi dal socialismo di
orientamento marxista del partito dei lavoratori italiana sempre con,
venature anarcoidi (fasci siciliani del 1893-1894), sollevando così
la preoccupazione delle classi dirigenti, che fecero ricorso a strumenti
repressivi per soffocare il malcontento. Intanto, la pubblicistica sulla
questione meridionale affrontava e approfondiva il problema: P. Villari
scriveva le Prime e poi le Seconde lettere meridionali (1861 e 1875).
Franchetti e S. Sonnino compivano inchieste nel Mezzogiorno continentale
e in Sicilia (1876) e formavano una sorta di gruppo di studio dell'intero
panorama politico-sociale italiano, in cui il problema del Mezzogiorno
aveva grande parte (La rassegna settimanale). Ai due studiosi toscani
si affiancavano e succedevano acuti pubblicisti e statistici meridionali:
G. Fortunato, F. S. Nitti, A. De Viti De Marco, N. Colajanni, G. Salvemini.
L'insieme di questa attività, affiancata da inchieste parlamentari
(quella Jacini e quella Faina) fece emergere alcune linee critiche di
fondo: le une concordavano con quanto taluni pubblicisti meridionali
(come L. Bianchini e. C. De Cesare) avevano tempestivamente avvertito:
che cioè l'unificazione del 1861, con la meccanica trasposizione
della legislazione amministrativa e fiscale piemontese al Mezzogiorno,
aveva imposto a quest'ultimo la legge del più forte: aveva soffocato
quel tanto di industria locale che stava faticosamente nascendo, aveva
imposto un gravame fiscale inadeguato, illanguidendo sempre più
un organismo già debole. Un secondo elemento venuto alla luce
fu che il Nord, come zona d'Italia indiscutibilmente più avanzata,
dopo l'unificazione aveva fatto la parte del leone in fatto di infrastrutture
stradali, ferroviarie, scolastiche, eccetera, drenando, attraverso la
tassazione, i prestiti pubblici, le banche private, e gran parte delle
risorse dal Sud. (Fu specialmente F. S. Nitti a svolgere questa linea
di discorso). Un'altra linea ancora fu quella della denuncia del "blocco
storico" che si era venuto creando fra protezionismo industriale
del Nord e protezionismo agrario dei latifondisti del Sud, a spese delle
masse contadine meridionalii (G. Salvemini, e poi A. Gramsci).
In realtà, era stato proprio - e per primo, con consapevolezza
storica e politica - il Cavour colui che si era reso conto della gravità
e della complessità del problema: "Armonizzare il Nord col
Sud - aveva detto - presenta altrettante difficoltà di una guerra
contro l'Austria o della lotta con Roma". E' vero che al momento
dell'unificazione lo squilibrio fra Italia settentrionale e meridionale
era meno accentuato di quanto non fosse poi destinato a diventare; ma
era tuttavia già evidente la profonda differenza tra le strutture
civili, sociali ed economiche delle regioni del Nord avviate ad un'economia
di tipo continentale, con zone già industrializzate con un'agricoltura
in parte ispirata a metodi moderni, e quelle del Sud, legate a un'economia
profondamente arretrata, ispirata ancora a rapporti talora patriarcali,
ma più spesso feudali, dove all'assenteismo dei grandi proprietari
corrispondeva il misero tenore di vita dei contadini, la condizione,
spesso tragica, della massa dei braccianti, e la profonda disgregazione
sociale di tutto l'ambiente. La radice del problema stava nella sproporzione
esistente tra reddito agrario e popolazione.
Nonostante l'ampiezza dei demani disciolti e dei beni, soprattutto ecclesiastici,
alienati dallo Stato, il tentativo di diffondere la piccola proprietà
non riuscì: la terra rifluì soprattutto nelle mani di
borghesi che erano già proprietari e quindi in grado di possedere
il denaro per acquistarla. La condizione dei contadini, degli affittuari,
dei braccianti alle dipendenze di proprietari in genere più esigenti
degli antichi, peggiorò invece di migliorare. Un sintomo, assai
significativo, della gravità della questione si rivelò
all'indomani dell'Unità, quando esplose quel brigantaggio, utilizzato
dall'ultimo re borbonico, Francesco II, rifugiato in Vaticano, in funzione
legittimista, che fu in realtà provocato dal profondo disagio
economico e sociale delle regioni meridionali.
L'intervento massiccio dell'esercito regio, le condanne largamente comminate,
le rappresaglie sanguinose e spesso crudeli, le fucilazioni con cui
i governanti reagirono, dimostrarono chiaramente che la coscienza del
problema non era chiara alla classe dirigente di allora, quasi tutta
originaria dell'Italia settentrionale o centrale, che vide nel brigantaggio
solo un fenomeno di delinquenza comune. Si sentì tuttavia il
bisogno di un'inchiesta parlamentare, che ebbe nel 1862 relatore il
Massari, e che fu la prima rivelazione ufficiale della gravità
e delle dimensioni del problema. Qualche anno dopo, Sonnino e Franchetti
conducevano per conto loro l'inchiesta cui abbiamo accennato, e ne esponevano
i risultati in due volumi ricchi di notizie e di dati dove, per la prima
volta, la questione meridionale era messa a fuoco soprattutto nei suoi
termini sociali ed economici. Nel 1875 veniva decretata dal Parlamento
un'ulteriore inchiesta per accertare le condizioni della Sicilia. Sollecitata
dall'interesse sempre più vasto della classe politica e dell'opinione
pubblica, la questione meridionale venne sempre più agitata e
discussa, e, negli anni successivi, parecchi studiosi, tra i quali emergevano
Pantaleoni, Nitti, Carano-Donvito, dimostrarono, con indagini spesso
assai pregevoli, che era il Mezzogiorno a sopportare un onere fiscale
in relazione ai suoi proventi, superiore a quello del Nord, mentre il
denaro statale per le opere pubbliche veniva indirizzato prevalentemente
a Settentrione, e molti capitali meridionali, anche attraverso il sistema
dei risparmi postali venivano di peso trasferiti fuori del Sud. Verso
la fine del secolo, il problema ebbe risonanza ancor più vasta
e delineazione storica più precisa attraverso l'opera di Giustino
Fortunato che, sfatando il luogo comune che il Mezzogiorno fosse "un
paradiso abitato da diavoli", documentò come, al contrario,
la natura fosse ingrata e poverissima; la geografia, il clima, il suolo,
le malattie avevano dato vita in quelle regioni a una civiltà
profondamente diversa da quella del Nord. Non bastava affrontare il
problema con "leggi speciali" come quella che, di tanto in
tanto, si votavano nel Parlamento. Soltanto una sana finanza nazionale
e locale, una occulta legislazione fiscale, l'adozione del libero scambio,
e, soprattutto un regime di raccoglimento e di pace alieno da ogni avventura,
e che ponesse le esigenze nazionali al di sopra di quelle dei partiti
avrebbe potuto risolvere, durevolmente, il problema del Mezzogiorno,
quella frattura tra le "due Italie" che rimaneva (come con
analoghi argomenti aveva dimostrato De Viti De Marco) la più
grave remora alla creazione di un paese moderno.
Ma fu proprio quello il periodo in cui le posizioni liberiste dei primi
anni dell'Unità vennero abbandonate per far sempre più
posto a un protezionismo doganale (in parte, forse, imposto dalle circostanze;
e in più gran parte ottenuto con forti pressioni esercitate sul
governo) in seguito alla trasformazione in corso della struttura italiana
da prevalentemente agricola a parzialmente industriale. Soprattutto
il triangolo Milano-Torino-Genova si avviava fin da allora a diventare
la zona propulsiva e pilota della metamorfosi in atto, alla quale il
Sud lontano, povero e arretrato, restava quasi del tutto estraneo, aggravando
così il distacco e lo squilibrio con le regioni settentrionali.
Nemmeno l'agricoltura riusciva nel Sud ad adottare metodi moderni, né
ad indirizzarsi, come allora sarebbe stato augurabile, alle colture
intensive: i proprietari sviluppavano infatti la cerealicoltura da cui,
grazie ai forti dazi doganali nei confronti del grano estero, potevano
trarre maggior profitto, mentre le misure doganali italiane provocavano,
per ritorsione analoghe misure da parte degli altri Stati, e rendevano
quindi spesso difficili e precarie le esportazioni degli ortaggi, degli
agrumi, dei vini, prodotti tipici del Mezzogiorno.
Con il nostro secolo, la politica coloniale di Crispi, con tutti i suoi
errori, era in realtà ispirata anche a venire incontro alla "fame
di terra" dei contadini meridionali. Fallita anch'essa, clamorosamente,
da Adua in poi, (perché si conquistarono aree desertiche), fin
dall'ultimo decennio dell'Ottocento l'emigrazione, soprattutto quella
transoceanica, parve l'unica valvola di sfogo rimasta alla povertà
e alla sovrappopolazione del Sud. Essa venne notevolmente aumentando
nei primi anni del nuovo secolo, fino a raggiungere, nel 1913, poco
più di 700 mila unità umane! Basilicata e Calabria fornivano
il contingente maggiore: seguivano Sicilia, Campania, Puglia.
L'allontanamento di un numero così ingente di lavoratori, in
gran parte giovani, rese più difficili la prosecuzione e l'allargamento,
nelle campagne, delle colture pregiate. La conquista della Libia, nel
1912, fece sorgere qualche illusione sulla possibilità di popolamento
della nuova colonia, che si rivelò poi come assolutamente impari,
per le caratteristiche del suolo e del clima, alle necessità
dei meridionali. Il primo sterminio mondiale (1915-1918) fu un'ecatombe
di uomini venuti dal Sud. Si giunse poi agli anni del dopoguerra, anni
in cui il problema meridionale rimase assorbito dal problema contadino
in generale e dalla situazione che caratterizzò il periodo 1918-1922,
finchè con l'avvento del Fascismo la questione meridionale fu
accantonata, perché considerata antinazionale e antiunitaria.
Fu solo dopo il 1945 che la "questione" tornò in primo
piano e fu inserita in una visione globale, implicante l'intera pianificazione
nazionale. Si ebbe così, nel 1950, l'istituzione della Cassa
per il Mezzogiorno (fu De Gasperi ad insistere sul termine "Cassa",
perché dava l'idea di un contatto immediato, diretto e finalizzato
con il piccolo, medio o grande imprenditore nascente nel Sud). Dal 1965,
nel Consiglio dei ministri, siede un ministro per gli interventi straordinari
nel Mezzogiorno, con lo scopo, fra l'altro, di coordinare il funzionamento
della Cassa e di far applicare le disposizioni in favore delle regioni
meridionali previste dalla legge dei liberali Cortese e Cottone (il
40 per cento di tutti gli investimenti devono essere destinati al Mezzogiorno).
Un aspetto nuovo, soprattutto dal 1955, è stato quello dei grandiosi
fenomeni di migrazione interna e verso l'Europa Comunitaria.
In quanto la "questione" non può essere risolta se
non in rapporto con la situazione generale italiana, occorre infine
notare che nel dopoguerra, e particolarmente nel periodo di maggior
benessere conseguente alla politica di investimenti e al potenziamento
della produzione industriale, nuovi squilibri si sono determinati tra
Nord e Sud. Gli aiuti dello Stato e i tentativi di industrializzazione
del Mezzogiorno, attuati in un momento di profonda trasformazione della
società italiana, e "teleguidati" da politici e imprenditori
del Nord, sono quasi del tutto naufragati. Se è vero che non
può essere sottovalutato il fenomeno sociale di grande rilievo,
cioé il processo di livellamento e di interscambio tra te classi
del Nord - che ha i suoi precedenti in una lunga trasformazione storica,
che, soprattutto, Pelle regioni più evolute, quali la Lombardia,
il Piemonte, l'Emilia-Romagna, la Toscana, ha subìto in tempi
recenti solo un'imponente accelerazione, mentre la società meridionale,
più statica e caratterizzata da una fortissima differenziazione
delle classi urbane e agricole, ha stentato ad adeguarsi a questi nuovi
fenomeni e spesso ha troppo confidato nel valore determinante dell'aiuto
statale - è altrettanto vero che ci troviamo di fronte a manifestazioni
di recrudescenza del problema meridionale, specialmente là dove
industrializzazione e politica di investimenti sono rimasti affidati
a iniziative incontrollate. Da tutto ciò, sottoccupazione, disoccupazione
giovanile, arretratezza, incapacità di venir fuori dal ritmo
del tempo proprio dei meridionali, che non si accelera, non cresce a
volontà. E da qui, l'assurdo della caduta d'interesse dei meridionalisti
per i nuovi e più gravi problemi del Mezzogiorno, il cui conto
sarà presentato, e forse duramente pagato, nel giro di pochi
anni, e forse soltanto di pochi mesi.
Chiudiamo, con queste pagine, l'Atlante del Mezzogiorno che abbiamo
proposto ai nostri lettori, regione per regione, nel corso di nove numeri
della "Rassegna". Nostro compito era quello di presentare,
nelle strutture fisiche (demografia, risorse, agricoltura, industria,
settore terziario, scolarità, strutture sanitarie, movimenti
finanziari), e nelle componenti storiche, letterarie e morali, le aree
che tradizionalmente formano il Mezzogiorno storico le geografico. Sentiamo
il dovere di ringraziare quanti hanno partecipato alla realizzazione
di questo complesso lavoro: il professor Guglielmo Tagliacarne, che
ci ha messo a disposizione i dati aggiornati; il dottor Sandro Gattei,
per il settore dei grafici; i colleghi che hanno tracciato, sia pur
sommariamente - come del resto l'impostazione del lavoro richiedeva
le linee letterarie, storiche e monografiche; infine, i lettori, che
con i loro suggerimenti ci hanno dato un aiuto spesso prezioso.
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