La caduta degli
investimenti nel periodo successivo al 1973 ha colpito soprattutto le
regioni meridionali. Necessario puntare sull'industria per risolvere i
problemi dell'occupazione. Dati dell'Unioncamere e dell'Istat. Circa un
milione di emigrati all'estero.
L'analisi sulla
situazione economica del Mezzogiorno, condotta dagli esperti del ministero
dell'Industria e del Bilancio, rende ancora più buio il quadro
fino a questo momento delineato sulle condizioni economiche e sociali
delle regioni meridionali. Al di là dei numerosi dati che la
relazione finale contiene, e che sono il risultato di una vasta indagine
condotta negli ultimi mesi, appare significativa una conclusione riguardante
lo sviluppo industriale. Il divario fra il Nord e il Sud è destinato
ad accentuarsi da qui al 1980 in quanto, con un tasso di sviluppo del
2 o del 3 per cento all'anno non si può pensare che l'industria
sia in grado di risolvere i problemi del Sud.
La caduta degli investimenti nel periodo successivo al 1973 ha colpito
più pesantemente il Mezzogiorno che il resto del territorio nazionale.
C'è stata crisi per l'edilizia, per la siderurgia e per le fibre,
vale a dire proprio per quei settori sui quali si era puntato per l'industrializzazione
del Sud, e dei quali tanto si era parlato nel corso delle polemiche
discussioni sorte per la legge sulla riconversione industriale. Tuttavia,
sempre secondo gli esperti, la via da seguire è ancora questa.
Per tentare di risollevare le sorti economiche delle aree meridionali
è ancora dall'industrializzazione, in una prospettiva più
lunga, che ci si deve attendere il contributo determinante ai numerosi
problemi che oggi si pongono, in primo luogo quello dell'occupazione.
Non a caso la relazione ricorda che, agli inizi del 1970, il 40% degli
investimenti totali destinati al Mezzogiorno si sono rivelati i più
vulnerabili a causa della mutata collocazione dell'economia italiana,
e che il costo attuale della manodopera non rende più competitivi
gli insediamenti meridionali rispetto a quelli in altre aree europee
ed extraeuropee.
In definitiva, il dato più allarmante che emerge riguarda proprio
l'occupazione, cioè il settore per il quale erano sorte ultimamente
nuove speranze, in conseguenza sia del varo della legge per la ristrutturazione
e la riconversione industriale, sia di quella per l'occupazione giovanile.
Accadrà invece questo: che fino al 1980 le prospettive restano
stagnanti: di fronte ad una offerta di lavoro industriale che, rispetto
ad oggi, potrebbe aumentare di 230 mila unità, (sei milioni 760
mila nel 1977; sei milioni 990 mila nell'80), c'è, infatti, una
prevedibile diminuzione dell'occupazione nell'agricoltura e uno sfoltimento
del settore terziario. Ciò significa che dovrebbero allargarsi,
per lo stato di necessità in cui ci si verrà a trovare,
le maglie dell'emigrazione. Ma verso quale area? La recessione ha colpito,
più o meno duramente, tutti i paesi europei, i quali sono impegnati
in differenti politiche di rilancio delle rispettive economie, di risanamento
delle bilance commerciali, di contenimento degli indici di disoccupazione.
Dunque, una volta o l'altra, nei modi e con i criteri che ciascun paese
riterrà più opportuni, saranno chiuse le frontiere ai
" liberi " lavoratori della Comunità economica europea,
che liberi non saranno più, se non di incrementare - dove sia
possibile - il lavoro " nero " e i livelli della sottoccupazione.
Si dice che il settore primario può garantire l'assorbimento
di manodopera, soprattutto giovanile. E' un discorso campato in aria,
almeno per quel che riguarda il Mezzogiorno. Qui, infatti, il frazionamento
delle proprietà terriere (per colpa della storia, della fame,
delle riforme sbagliate: per colpa di chi si vuole, ma la realtà
è questa, e con essa si devono fare i conti) è così
alto, che nella maggior parte dei casi è consentita solo un'economia
di sopravvivenza, al basso servizio delle singole famiglie, non della
collettività; o meglio, dell'economia meridionale e italiana.
Si aggiungano la diffidenza, la non-disponibilità storica e le
difficoltà di ordine tecnico e finanziario che hanno fatto praticamente
fallire qualunque piano di cooperazione, e si avrà un reale panorama
dell'agricoltura.
Da qui, il rifugio nel settore terziario, che è estremamente
" gonfiato ", e, di conseguenza, non potrà reggere
a lungo. Sicché la carta valida resta ancora quella dell'incentivazione
industriale: è la media e piccola industria che può, se
non risolvere del tutto, per lo meno non aggravare i problemi del divario.
Problemi che, in caso contrario, sono destinati ad esplodere, in tutta
la loro drammaticità, nel corso di questo prossimo triennio.
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