§ DIBATTITI

Tre problemi di ingegneria economica




Cosimo Prete



La nostra economia continua ad essere impegnata su questi fronti: bilancia dei pagamenti e inazione nel breve periodo; ristrutturazione industriale; occupazione. Sarebbe indispensabile, per ciascuno di questi aspetti diversi di un'unica crisi, disporre di direttive chiare, di responsabilità precise, e soprattutto di strumenti operativi efficaci.

Credo che abbiano ragione coloro i quali affermano che le preoccupazioni di maggior rilievo, in questa fase acuta della crisi italiana, non riguardano né questioni di principio (ad esempio, la necessità di una soluzione politica di emergenza), né i compromessi che possono verificarsi su singole questioni, sia pure di rilevante importanza. Ciò che preoccupa, e che in ultima analisi scredita a livello internazionale, è invece l'assenza di iniziative di grande respiro che diano fondamento di credibilità al nostro Paese. Cioè, siamo noti per i dissesti della nostra economia; per i prestiti che continuiamo a contrarre all'estero; e, aspetto tutt'altro che trascurabile, per le nostre beghe e risse politiche interne. Non a caso, gli americani parlano esplicitamente di un " rischio Italia ", e mettono in guardia i loro grandi e medi operatori economici dall'investire nel nostro Paese, senza adeguate garanzie, e, soprattutto, prima d'aver " visto dove schiarirà il giorno ".
Parliamo dell'economia, che coinvolge, con il Paese, soprattutto il futuro del Mezzogiorno. I documenti programmatici presentati in questi ultimi anni hanno due caratteristiche: sono " di indirizzo generale " e hanno perso molto " sex-appeal ".

L'attenzione della gente è sempre meno eccitata dalla lettura di documenti nei quali si afferma (non sappiamo se più con candore che con impudenza) che occorre ridurre le spese pubbliche bloccando le assunzioni (ma, in tutti questi anni, non si è voluto mettere in ginocchio soprattutto la privata imprenditorialità? E, in contrapposizione, non si sono creati quei cosiddetti "giganteschi carrozzoni", rifugio per una burocrazia lenta e spesso inceppata, il cui bilancio è sempre più in rosso?), trasferire risorse da consumi a investimenti, agevolare la mobilità del lavoro, coordinare il credito agevolato, programmare l'industria, e, infine, ovviamente, abolire gli enti inutili.
In altre parole: i contenuti operativi dei documenti programmatici, nessuno escluso, sono stati piuttosto poveri e, come si dice a Napoli, non hanno risolto il resto di niente. L'economia italiana, ha scritto un autorevole quotidiano francese, non è sull'orlo del baratro, è " dentro il baratro ": il problema è uscirne, con le ossa meno rotte possibile. E', la nostra, un'economia che continua ad essere impegnata su tre fronti: quello della bilancia dei pagamenti e della cosiddetta " inazione nel breve periodo "; quello della ristrutturazione industriale; e quello dell'occupazione, sempre nel medio periodo. Sarebbe indispensabile, per ciascuno di questi tre aspetti di un'unica crisi, disporre di direttive chiare, di responsabilità precise, e soprattutto di strumenti operativi efficaci.
Quanto al primo problema: non si tratta soltanto, (e magari con la creazione di un " ministero dell'Economia ", del tipo del megaministero operante nella Repubblica Federale Tedesca, la cui efficienza è ben nota), di porre fine al singolare sistema italiano del policentrismo della politica economica. Si tratta di concentrare in un solo punto la manovra delle risorse finanziarie: del credito, della spesa e dell'entrata pubblica; e di rendere possibile questa manovra attraverso quelle profonde riforme del bilancio dello Stato che, proposte da tempo ormai immemorabile, trovano nei documenti programmatici solo qualche pallido riflesso.

Secondo problema. La " riconversione " dell'industria e la " centralità " del Mezzogiorno sono due parole. Ed è molto probabile che tali resteranno, fino a che la politica industriale sarà gestita a quattro mani, e il ministro per gli interventi nel Mezzogiorno resterà un amministratore " straordinario " di risorse residuali. Anche qui la proposta di unificazione delle responsabilità non soddisfa un criterio astratto di ordine mentale, ma l'esigenza di porre fine a un policentrismo direzionale che, alla resa dei conti, risulta paralizzante e " deresponsabilizzante ".
Terzo problema. Se si vuole ristrutturare l'industria (cioè la domanda di lavoro industriale) occorre ristrutturare anche l'offerta di lavoro per l'industria. Ciò richiede un alto grado di mobilità, che può essere lasciata al mercato - con tutte le conseguenze negative per la manodopera - oppure può essere programmata, con la partecipazione attiva dei sindacati, in modo da rendere compatibili le esigenze di flessibilità dell'offerta con le garanzie sul reddito e con le prospettive concrete sul posto di lavoro.

Occorre parlare francamente: molti considerano proposte del genere " tecnocratiche " ed " ingegneristiche ". Sarà forse la tradizione storicistica, che ha abituato costoro a concentrare l'attenzione sui grandi "flussi", piuttosto che sulle " strutture " e sulle " organizzazioni ". Ma è un fatto che, per disattenzione o disdegno verso la " ingegneria istituzionale ", poi si finisce per lanciare " messaggi " a istituzioni che li rigettano. Più concreta fu la scuola liberale, che si aggiornò fino a Einaudi, e che oggi occorre riprendere in considerazione, ovviamente emendata e aggiornata per le mutate esigenze dei tempi e delle situazioni; assai lontana dall'astrattismo fu quella scuola, che forse con eccessiva faciloneria abbiamo cercato di buttare in mare, come se fosse " di parte ", e non proiezione dì un pensiero universale, che va avanti malgrado tutto e tutti. Tant'è che - esiliata - riaffiora per germinazione spontanea, e di sé permea correnti di pensiero che solo fino a qualche tempo fa si ritenevano al polo opposto.

Si tratta, ora, di fare scelte di fondo. I tre problemi cui abbiamo accennato sono in grado di condizionate per molti anni ancora il futuro del nostro Paese, e possono ricondurre le regioni meridionali nel limbo di un " Medio evo prossimo futuro". Quasi incoscientemente, ci stiamo mettendo ai margini dell'Europa, e fuori dell'Occidente.


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