L'aritmetica dell'occupazione




Lucio Tartaro



L'Istituto di Statistica, nella nuova Collana d'Informazione, ha pubblicato un'indagine sugli " Occupati per attività economiche e regione 70-76 ". La pubblicazione, basata sulle serie utilizzate per la contabilità nazionale, colma un vuoto statistico rilevante (in realtà, negli anni scorsi, dati analoghi erano stati già diffusi, ma con minore ufficialità; inoltre il 1976, come anno finale, è meno " capriccioso " e instabile, congiunturalmente, dei due precedenti). La tavola che riportiamo è tratta dai dati della pubblicazione, rielaborati in modo da distinguere Nord e Centro (malvezzo attuale delle fonti statistiche: le circoscrizioni ridotte a due, Centro-Nord e Mezzogiorno, isole comprese).
Le " chiavi di lettura " che si propongono per esercitare un po' di aritmetica dell'occupazione sono: da un lato i raffronti territoriali sugli andamenti dell'industria e del terziario (raffronti non privi di sorprese); dall'altro, l'analisi delle serie del lavoro indipendente.
L'occupazione totale è un po' aumentata dal '70 al '76 (+1,9%). E' invece diminuita ovunque quella agricola, in particolare per quel che riguarda i lavoratori indipendenti. Assai complesso invece l'intreccio degli andamenti di quella industriale. Iniziamo con l'industria in senso stretto, vale a dire escludendo le costruzioni e le opere pubbliche: l'occupazione indipendente del comparto è diminuita ovunque; quella dipendente (cioè la vera occupazione industriale dato che la prima indica solo la tendenza imprenditoriale) è cresciuta del' 1,9% nel Nord, dell'11,9% nel Centro, del 16,3% nel Sud. Per il Settentrione, tali andamenti non hanno controbilanciato la crisi dell'occupazione dipendente nell'edilizia, per cui nel complesso dell'industria del Nord risultano persi 83.000 posti di lavoro dipendente (e 44.000 indipendenti).
Al Centro e al Mezzogiorno, pur in presenza di una analoga crisi edile i conti tornano comunque a favore della crescita del complesso " industria ": +30.000 unità al Centro, e +17.000 al Sud.
L'immagine consueta del dualismo Nord-Sud appare piuttosto sfocata se riesaminata alla luce di questi dati, dai quali il Settentrione risulta essere meno egemone. Una considerazione: agli 83.000 posti industriali perduti al Nord ne corrispondono solo 47.000 nuovi nel resto del Paese: è proprio equilibrata la politica di " riequilibrio " territoriale che più o meno consapevolmente si sta conducendo in Italia? Il Nord è ancora la locomotiva italiana, qui batte il polso dell'economia, e ogni perdita - per quanto non cospicua - rallenta l'intero convoglio. D'altra parte, Centro e Sud non possono continuare ad essere " vagoni morti ", la parte più pesante del treno, quella che frena l'intero convoglio, altrimenti l'economia italiana rischierà di procedere a scartamento assai ridotto.
Anche i dati relativi al terziario non sono ovvii, né " indolori ": il record '70-76 dello sviluppo dei servizi e della Pubblica Amministrazione spetta al Nord. Nei sei anni considerati, l'occupazione nel terziario pubblico e privato è aumentata di circa un milione e 180 mila unità: 600.000 al Nord (+14,7%); 250.000 al Centro (+11,8%); 330.000 al Sud (+14,4%).
Nel dibattito sull'impostazione, prima, e sull'applicazione, ora, della legge 675 sulla ristrutturazione e riconversione industriale, voci autorevoli di meridionalisti hanno auspicato linee di politica economica tali da far diminuire l'occupazione industriale nelle regioni settentrionali ritenendo che il vincolo - già posto - della ristrutturazione nell'ambito degli attuali livelli di occupazione consenta ancora un eccessivo drenaggio di risorse da parte del Nord. Dunque, nelle regioni dove l'industria è, o era fino a poco tempo fa forte, una parte dell'occupazione industriale dovrebbe essere rimpiazzata dalla crescita di quella terziaria; il tutto, per liberare risorse al Sud, a favore dell'industria.
La seconda chiave di lettura è l'analisi dell'andamento dell'occupazione indipendente nell'industria (totale, o intesa in senso stretto). Tale forma di occupazione è diminuita non solo per l'intero comparto, ma anche con riferimento ai settori in cui è più rilevante: tessile, alimentare, meccanica.
Da chi è composta la classe degli occupati indipendenti? Secondo le definizioni dell'Istat sono tali gli imprenditori, i lavoratori in proprio, i liberi professionisti, i titolari di esercizio e i coadiuvanti (cioè: i congiunti dei precedenti).

Nel questionario utilizzato presso le famiglie per l'indagine campionaria che costituisce la base principale di questi dati, le voci di lavoro indipendente sono appunto queste. Chi si dichiara " lavoratore in proprio "? Molto probabilmente i veri lavoratori autonomi (e cioè quelli che sopportano il rischio economico della propria attività), ma anche tutti coloro che svolgono attività produttiva subordinata al proprio domicilio (regolare ai sensi di legge, o irregolare) o che sono comunque prestatori di lavoro dipendente nella sostanza, ma non nella forma.
E' chiaro che, soprattutto per questi ultimi, può essere rilevante la tendenza a dichiararsi non occupati (ma i confronti sono comunque validi a parità di " evasione "). Non vale invece l'obiezione opposta, e cioè che tali persone possano dichiararsi lavoratori dipendenti: la sostanziale coincidenza, per l'anno 1971, degli occupati dipendenti ufficialmente rilevati dal censimento " presso le unità produttive industriali " con i dipendenti nell'industria secondo queste nuove serie dell'Istat dimostra che i lavoratori anzidetti non si dichiarano " alle dipendenze ", ovvero che in fase di stima si introducono correzioni equivalenti (fase di stima fondamentale, visto che una delle caratteristiche delle nuove serie è quella di integrare fonti diverse, recuperando anche casi di " evasione ", tra cui proprio il lavoro a domicilio).
La diminuzione del lavoro indipendente nell'industria probabilmente riguarda in maggiore o minore misura tutte le categorie indicate, ma non può non essere intesa come un " segnale importante " della diminuzione del lavoro non ufficiale nell'industria stessa o, meglio, di un certo tipo di lavoro non ufficiale: quello con cui si cercava l'economicità tramite la compressione dei costi diretti. C'è invece tutta una lascia di lavoro irregolare che resta esclusa - per esplicita dichiarazione dell'Istat - da questi dati: quella del doppio lavoro. Una analisi recente condotta dal Censis e dalla Doxa ha stimato, prudenzialmente, oltre un milione di posizioni di doppio lavoro (in tutti i settori). Ma la motivazione del ricorso ai "doppiolavoristi" non è tanto il minor costo (spesso, anzi, il costo diretto è elevato), quanto la ricerca di quella maggiore elasticità che è indispensabile ad un sistema produttivo irrigidito quale ormai è il nostro (soprattutto nei confronti dei rapporti ufficiali di impiego): con il doppio lavoro si recupera infatti - in modo paradossale - una non conflittuale mobilità.
Questa, però, non è più aritmetica dell'occupazione: è l'aritmetica delle leggi dell'economia.


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