Tornano




Aldo Bello



L'emigrante meridionale era un esule solitario della fame. Fuggiva dal Sud, pur sapendo che le condizioni giuridiche, economiche e sociali della nostra emigrazione spesso erano tutt'altro che incoraggianti. Interi borghi della Puglia, della Basilicata, della Calabria, dell'Abruzzo-Molise, dell'Appennino campano e delle isole si trasformavano, quasi di colpo, in città morte, e i campi in deserti senza vita. Un malinconico destino aveva spinto per un secolo gli ex contadini a lasciarsi alle spalle paesi natali, vincoli di amicizia e di parentela. Cosa abbandonavano? Terre argillose, che d'estate avevano il colore della savana, paesi che smottavano compatti a valle, redditi di fame, speranze inappagate, i desideri elementari degli uomini umili; e il rancore, mai sopito, verso chi li aveva respinti, e costretti alla condizione di negri bianchi.
Sempre, le condizioni dell'emigrazione meridionale verso qualunque frontiera hanno corrisposto al trinomio "SSS" con il quale in Germania vengono definiti gli Svevi: Sckaften-Sparen-Sterben, risparmiare-lavorare-morire. Per i nostri emigrati il risparmio ha costituito una specie di incubo. Spesso si trattava del primo salario, al quale sacrificavano tutto, anche il vitto. Si calcola che dal 1946 ad oggi le loro rimesse abbiano superato i 25 mila miliardi di lire. Spaventati, svizzeri e tedeschi chiedevano agli italiani di aprire le pagnotte: volevano controllare se dentro c'era la carne.
Almeno dal 1890 ad oggi, questa nostra emigrazione ha avuto una voce ben definita, e, in termini di analisi culturale, è stata un phylum conduttore mai estinto. Anzi, è stato proprio questo a tener vivo l'impegno e ad acuire l'interesse politico alla questione meridionale, facendola emergere come un gigantesco pack, e facendone un aspetto fondamentale del più vasto problema del rinnovamento della società italiana. Ed è a questo dibattito che risale il merito, se non altro, delle proposizioni volte a far conquistare al Sud una sua valenza economica nello sviluppo dell'economia italiana ed europea.
La crisi del Vecchio Continente ha rimesso in discussione tutto, o quasi tutto. Le economie forti rigettano gli emigranti, poiché hanno anch'esse problemi di occupazione. Lo sviluppo tecnologico richiede meno lasci muscolari e più cervelli: e, di questi, neanche tanti. Il settore terziario, mentre si moltiplica, si divora. Programmare in campo industriale - sia pubblico che privato - è diventato un teorema complesso. Monta l'ondata giovanile, che reclama a buon diritto l'inserimento nel mondo del lavoro. L'economia italiana, assai più colpita delle altre europee, priva com'è di materie prime e di fonti energetiche, oscilla tra recessione e resistenza alla recessione. In queste condizioni, i Gastarbeiter, gli italiani ex ospiti-lavoratori, stanno tornando. Finito il periodo dell'espansione, si è avviato quella dell'espulsione, del rigetto. L'anabasi è incominciata nel '73, e ora è in pieno svolgimento. Carenze istituzionali e indifferenza politica impedirono all'Italia di predisporre seri indirizzi nel campo delle migrazioni. Ora, di fronte al boomerang, occorre elaborare una politica dei rientri che aiuti e assista chi rimpatria a mettere a frutto esperienze, talenti, risparmi acquisiti all'estero, poiché è dimostrato che il potenziale apporto di chi ritorna difficilmente riesce a prodursi "con spontaneità".Va ricordata, infine, una cosa: questi che tornano, sono gli emigrati degli Anni '60, quelli che - ad esempio, al ritmo di uno ogni minuto primo nel '63 - furono le vittime del " boom ", costretti ad andarsene con le valige di cartone nel momento in cui l'industria non li assorbiva e la terra non garantiva loro un reddito. Il debito di riconoscenza che abbiamo nei loro confronti è immenso. La voce "rimesse " ci ha salvati da più di un tracollo nei conti con l'estero. La loro disperazione, la loro fuga, i loro sacrifici sono stati la nostra salvezza. Ora che tornano, non è lecito giuocare sulla loro pelle. L'hanno già scommessa una volta.


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