Il boomerang dell'emigrazione




Renata Cuneo



Si dice che la realtà di oggi ci offre sempre meno. Neanche più di che parlare. Muoiono le figure che da sempre ci avevano consentito una letteratura, una cinematografia, le analisi sociologiche. L'emigrante alla stazione centrale di Milano o a Porta Nuova a Torino rimane in piedi, accanto al treno affollato e con la valigia di cartone; seduto o sdraiato, addormentato sui sedili nelle sale di attesa o sui gradini e sui marmi pieni di pacchi e di bimbi, rimane, dicevo, solo nelle fotografie di documenti vecchi di almeno sei anni. A Milano per fare un esempio, esisteva ed oggi non esiste più il Centro orientamento immigrati. Lì si rivolgevano, nella migliore delle ipotesi, quelli che, scesi dal treno che viene dal Sud, non avevano dove andare, lì andavamo alla ricerca di dati ufficiali, perché era lì che li raccoglievano e se ne occupavano. Non esiste più il Centro, non esistono più, sembra, le valige di cartone legate con lo spago. Questo vuol dire che non esiste più il fenomeno migratorio o che non ci sono più gli immigrati nel triangolo industriale? Nel capoluogo lombardo solo un quarto della popolazione risulta nata in questa città; a Torino il fenomeno dà cifre più alte. Delle tre città vertici del triangolo industriale, infatti, Torino appare ancora oggi come la città di maggior richiamo per gli insediamenti dei nuclei di immigrazione nel settore delle attività produttive; a differenza di Milano che tendeva già, negli anni più interessati al fenomeno, a respingerlo, convogliando i gruppi in arrivo, verso i paesi confinanti attraverso gli affitti molto alti e una carenza negli alloggi popolari; a differenza anche di Genova che, pur accettando una immigrazione tendente ad inserirsi nell'attività commerciale, si era subito presentata come meno esposta agli effetti di un fenomeno migratorio persistente. Eppure qualcosa è cambiato: gli ultimi scarsi dati (scarsi perché straordinariamente il fenomeno è marginale e non fa più notizia; o scarsi perché è diventato di ordinaria amministrazione e non se parla più?) ci avvertono che ormai il saldo migratorio in Lombardia è di circa 4500 contro quello che nel 1961 si aggirava intorno ai 110.000. Il saldo migratorio si ottiene dalla differenza tra le iscrizioni e le cancellazioni anagrafiche.
Come si vede, il fenomeno dell'immigrazione nelle regioni industriali del Nord, si va attenuando. Le cause di questa evidente flessione sono da ricercare in primo luogo tra quelle ormai più scontate della mancanza di lavoro anche in queste regioni, della mancata integrazione per molti immigrati, della insufficienza di alloggi anche in quelle fasce che tradizionalmente erano più ricettive. Il flusso migratorio che verso la Lombardia ha toccato punte di entrata massima, nel 1962, con 192.000 unità; nel '65 e '66 con 85.000; e dal '67 al '71 con 115.000 unità ogni anno, registra flessione in entrata e aumento in uscita.
Possiamo affermare oggi, sulla base anche di queste ultime cifre, che gli aspetti che facevano del fenomeno migratorio " uno tra i più gravi e dolorosi problemi italiani " siano mutati? Che sia mutato il rapporto negativo per cui le regioni depresse, quelle del Nord come quelle del Sud, pagavano con pesanti passivi la fuga di forze vitali per il loro sviluppo, mentre in quelle industriali del Nord, si accrescevano i processi di emarginazione sociale, congestione urbana con tutto quello che ne conseguiva sul piano della carenza dei servizi e della crescita di degenerazioni sociali caratteristiche della emarginazione dei ceti più deboli?
A parte il dato, non si sa ancora se positivo o negativo, della risultante flessione degli ultimi due anni, non risulta purtroppo risolto positivamente nessuno di quei problemi, nonostante le innumerevoli analisi e le prese di posizione sia da parte di studiosi italiani e stranieri, sia da parte di funzionari delle Regioni. La causa prima della emigrazione, soprattutto quella che interessa le regioni meridionali, è rimasta immutata nei suoi elementi determinanti e meno confortanti: non si sono offerte e ancora non si offrono alle popolazioni meridionali occasioni e opportunità di occupazione nelle regioni di origine. Se sommiamo questa condizione primaria e particolare del Sud al fatto incontestabile della progressiva disoccupazione anche nelle regioni del Nord, risulta che l'unico aspetto mutato del problema è che alla sottintesa o espressa affermazione " è preferibile una vita di stenti al Nord (perché l'emigrato ormai da tempo sa quello che lo aspetta dopo la fuga) ad una uguale esistenza di privazioni al Sud " si va via via sostituendo la rassegnata realtà del " meglio una vita povera nel paese dove sono nato e dove si vede il sole, ad una vita emarginata, oltre che senza occupazione e con alti costi, nella nebbia e nello smog ".
I problemi dunque più pressanti sono rimasti, resi più acuti dalla recessione e dalla crisi edilizia: trovare un lavoro, una casa, condizioni umane di vita, dopo la fuga dai casali di Avigliano o nelle fattorie di Altamura. La vita che nella maggior parte dei casi, si presenta ancora oggi all'emigrante è, se non si manifesta in soste nelle panchine della stazione o dei giardini pubblici, quella del quartiere-ghetto o quartiere dormitorio, come a Milano viene definito, ad esempio, Quarto Oggiaro.
Di questi quartieri si gente poi dire spesso che sono le cittadelle della droga e della criminalità. Può essere vero in parte, ma la droga e la delinquenza nascondono spesso l'incapacità di offrire ai giovani soluzioni valide per il tempo libero o l'impossibilità di dare lavoro ai disoccupati. Droga e criminalità, studiate e non risolte dai sociologi, sono i frutti della mancata integrazione. Spesso i motivi di questa non nascono dal Sud. A volte, nella sua corsa al progresso, preoccupandosi di produrre ricchezza, il Nord si è dimenticato di produrre cultura, quella cultura che oltre al lavoro comune favorisce la comunicazione tra genti diverse che forse vogliono conservare i caratteri più qualificanti di questa diversità.

Le cifre dell'emigrazione

Gli effetti della crisi che dal 1973 colpisce i Paesi europei sono evidenti nelle stime, realizzate dall'Ocse, dei lavoratori stranieri in Europa: 7,5 milioni a fine '73; nel '74 erano un milione di meno; 6,3 milioni nel '75, e 5,9 milioni nel '76, con una riduzione di oltre un quinto in tre anni. Nel '73-'76 i lavoratori stranieri sono diminuiti in Germania da 2,6 a 1,9 milioni (-27%) e quelli italiani da 450 mila a 276 mila (- 39%). In Svizzera i lavoratori stranieri sono scesi da 600 a 500 mila (- 17%), gli italiani da 350 a circa 290 mila. Che negli ultimi anni i rientri degli emigrati abbiano prevalso sugli espatri lo dimostrano anche le zoppicanti statistiche italiane. Dal '72 al '77, infatti, si è prodotto un eccesso di " iscritti " nelle anagrafi comunali, provenienti dall'estero, sui " cancellati " dalle stesse anagrafi, diretti all'estero, con un saldo attivo di 50-60 mila unità all'anno. Da un'altra fonte più diretta, basata sulle rilevazioni comunali sugli schedari degli emigrati, si desume un saldo migratorio di circa 100 mila unità tra il '61 e il '70, saldo che poi si attenuava nel '71 (- 39.000 unità) e nel '72 (- 4.000), per poi rovesciarsi e diventare attivo e, di anno in anno, crescente. Per quanto il fenomeno sia arduo da rilevare statisticamente nella sua effettiva portata, tuttavia non c'è dubbio che la crisi iniziata a fine '73 ha provocato consistenti flussi di rientro degli emigrati italiani. L'Italia, cioè, per la prima volta dall'Unità ad oggi, e sia pure per motivi strettamente congiunturali, ha cessato di essere un paese di emigrazione. Anzi, già da qualche anno registra un sensibile flusso di immigrazione, ignoto nelle sue dimensioni, proveniente da Paesi dell'Africa e del Mediterraneo.


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