Il fatto: due
giovani invitano una ragazza a fare una passeggiata. Erano amici "
fidati "; di uno dei due lei era innamorata, a lui dedicava - nelle
pagine del suo diario - bellissime parole. La portano fuori città,
intendono sequestrarla e chiedere il riscatto. Quando la ragazza intuisce
il pericolo, tenta di fuggire. Finisce massacrata a colpi di spranga e
di pistola. I due giovani assassini, processati per direttissima, sono
condannati all'ergastolo. Uno dei due dichiara: " Mentre sparavo,
mi sentivo un dio, padrone della vita e della morte ". E l'altro:
" Abbiamo ucciso per noia ".
Non dirò
se si debba dare più credito all'ipotesi della lucida efferatezza
o a quella dell'impersonalità dovuta alla droga. Al di là
di ciò che è stato giudicato cinica premeditazione o momentaneo
sconvolgimento, dell'orrendo delitto consumato dai due giovani sanbabilini
mi preme cogliere altri dati, primo fra tutti la spassionatezza, sia
pure sgangherata, con cui si sono difesi. E' opinione di chi ha seguito
il processo che i due assassini non hanno sentito né la colpa,
né il giudizio.
Li divideva dal crimine e dal processo una inquietante estraneità
"ideologica" prima ancora che morale, esistenziale, prima
ancora che umana: quasi che a condurli all'idroscalo fosse stato non
un progetto, del resto in molti tratti riconoscibile, ma una sorta di
cometa il cui sfuggente messaggio indicava gesti e suggeriva pensieri,
fino a determinare quel breve viaggio e quella conclusione violenta.
Anche quanto di " razionale " è emerso dalla ricostruzione
del delitto ha finito per assumere un'oggettività allucinata,
che ha poi costituito l'unica possibile base su cui fondare, tecnicamente,
la sentenza.
Continuo, per amor di tesi, a non sposarne alcuna: che abbiano ucciso
per noia o per denaro fa, dopo tutto, lo stesso. Questo delitto, infatti,
è orrendo non soltanto per la sua cronaca, ma anche e soprattutto
per la sua storia: ha, cioè, una dimensione che lo estrae dal
fatto e che lo riconduce a un insieme di fattori, a quella congerie
di disvalori che ha separato il figlio dal padre, il cittadino dalla
comunità, la società dallo Stato, e infine l'uomo dall'uomo.
Viviamo in un'inerzia che, sciaguratamente, lascia andare le cose come
vanno; un sentimento di inutilità spegne il desiderio di volerle
in un altro modo; la sensazione che sarà qualunque volontà
fuorché la tua a indirizzarle, trattiene dallo scendere in campo;
il presentimento dell'impunità incoraggia la trasgressione e
recide il significato della resa dei conti. Da qui il salvacondotto
per l'inusuale, il clamoroso, il provocatorio, il violento. " Prendete
tutto, tutto è oggi più possibile! ", è lo
slogan-paradosso, lo stesso, di chi offre consumi e di chi li contesta.
" Siate ragionevoli, chiedete l'impossibile ", gridarono i
giovani convertiti all'utopia del '68. Noi li avevamo portati a questo:
mettendoti dentro la vita con gli esempi della facilità, del
privilegio, dell'arroganza e della retorica: senza spiegare che c'è
avvenire solo nel contrario di ciò che reclamavano, cioè
dove l'impossibile si fa ragionevole.
O rifondiamo questa verità in un valore nuovo e credibile, o
dovremo a lungo chiederci perché in due giovani assassini della
" società soddisfatta " ha agito, assurdo, anche un
senso di privazione. Incapaci di vivere nell'austera misura di uomini,
si sono inventati il superuomo, cioè l'ultimo degli inganni e
delle sopraffazioni. Ma era una condizione disumana e aveva, in sé,
la sua logica: cioè un tragico viaggio nel niente. L'hanno chiamato
" noia ".
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