Gli albanesi
che fuggivano davanti alla sistematica e strenuamente contrastata avanzata
turca, si andavano stabilendo lungo la costa adriatica dell'Italia, dall'Abruzzo
e dal Molise alla Terra d'Otranto, penetrando fin nello Stato Pontificio.
L'immigrazione greca e albanese trovò in Italia un terreno disponibile
per lo stato di abbandono in cui versavano interi villaggi del Sud, dai
quali le popolazioni indigene si allontanavano, o erano espulse per emigrazioni
interne, per la durezza delle lotte feudali e politiche, ma anche per
le pestilenze, per altre calamità, per il banditismo che dilagava.
Fin dal sec. XIII
colonie più o meno folte di albanesi si stabilirono nell'Italia
Meridionale.
Si sa che una immigrazione nel 1272 portò un nucleo di albanesi
a Pallavirgata, nei pressi di Brindisi. Altri, verso la metà
del sec. XV, si stabilirono in Calabria ed in Sicilia. Erano venuti
in Italia nel 1448, condotti da Demetrio Reres, in aiuto di Alfonso
I d'Aragona il quale aveva assoldato gli albanesi con l'intenzione di
reprimere alcune rivolte contadine scoppiate nel regno. Altri ancora
vennero in Italia con Giorgio Castriota Scanderbeg. Ma i più
emigrarono dalla terra d'origine dopo la morte di questo eroe leggendario
- avvenuta il 17 gennaio 1468 - quando, riducendo gradatamente nell'Adriatico
i veneziani il proprio dominio, i turchi si affrettavano ad accrescere
il loro in Albania, alla quale puntavano da sempre, occupando Scutari
e Croja, la novella Costantinopoli, nel 1479, e Corone nel 1531 (1).
Gli albanesi che fuggivano davanti alla sistematica e strenuamente contrastata
avanzata turca, s'andavano stabilendo lungo la costa adriatica dell'Italia,
dall'Abruzzo e Molise alla Terra d'Otranto, penetrando fin nello Stato
Pontificio.
L'immigrazione greca ed albanese trovò un terreno disponibile
nella circostanza, che si determinava in quegli anni in Italia, dello
stato di totale o parziale abbandono in cui versavano interi villaggi
del sud della penisola italiana, dai quali le popolazioni indigene si
allontanavano, o erano espulse, per diversi motivi. Emigrazioni interne,
per la durezza delle lotte feudali e politiche, ma anche per le pestilenze
e per altre calamità, portavano gli abitanti dei villaggi a cercare
luoghi più sicuri, al punto da spopolare intere regioni. Anche
il banditismo, che cominciava a dilagare, in Calabria specialmente,
fin dal 1550, è da annoverare tra le cause del massiccio spopolamento.
O la gente fuggiva di fronte ai banditi o, per aver dato loro ricetto,
era scacciata dai villaggi, che restavano così abbandonati ed
erano, spesse volte, devastati e distrutti. L'affluenza continua di
immigrati greci ed albanesi, nell'Italia Meridionale può essere,
pertanto, assunta come una delle prove della vastità del fenomeno
dello spopolamento delle campagne. Anche il fenomeno della transumanza,
forma anche questa di migrazione interna, determinava l'abbandono, magari
temporaneo, ma suscettibile di diventare, in qualche caso, definitivo,
di interi villaggi nei quali greci ed albanesi s'insediavano facilmente
e stabilmente, dopo le traversie subite in patria.
Ma va tenuto nel debito conto il fenomeno storico, estremamente articolato
e complesso negli aspetti socio-giuridici non meno che in quelli politici,
dell'opera di rifeudalizzazione del Mezzogiorno alla quale, ad un certo
momento, cominciò a tendere la politica dei feudatari meridionali
preoccupati per l'abbandono della terra, in seguito alla vistosa crisi
nelle campagne succeduta, inevitabilmente, al lungo ed oscuro periodo
medievale. Una crisi che aveva inferto un duro colpo all'agricoltura,
determinando conseguenze pesanti nell'economia. Fu in questo momento
che molte comunità albanesi penetrate nel regno, stabilitesi
in feudi spopolati o in villaggi abbandonati, furono talmente opportune
all'opera di rifeudalizzazione, data specialmente la loro spiccata disponibilità
alla agricoltura, da ottenere poco dopo il loro insediamento privilegi
che consacravano il sorgere di nuovi comuni. Va sottolineato, a tal
proposito, che gli albanesi immigrati in Italia introducevano ed applicavano
con coscienza nuovi sistemi di gestione dell'agricoltura, che non potevano
non allettare i feudatari possessori di vaste terre che erano, così,
rivitalizzate ed i cui prodotti entravano in un ciclo vivo di economia.
I comuni che gli
albanesi occupavano, pertanto, diventavano comuni totalmente albanesi,
isole etniche dipendenti politicamente dall'autorità centrale
che si giovava della loro laboriosità e lasciava loro, con senso
di opportunismo, i caratteri originari (2).
In Puglia grossi nuclei di albanesi si stabilirono in Capitanata, nel
Barese, in provincia di Lecce e nel Tarantino. Talvolta, essi s'insediavano
anche in interi villaggi abbandonati o quasi; talaltra, in poche famiglie,
dedite particolarmente all'agricoltura e alla pastorizia, come s'è
detto, si stabilivano in piccole comunità rurali, dando vita
a comuni che riflettevano in tutto e per tutto usi e costumi della terra
d'origine. A ciò va aggiunto, per fissare il carattere di queste
comunità, che si trattava di gente fiera, montanari laboriosi,
gelosi di tutto ciò che poteva ricordare la patria, il focolare
che essi s'erano lasciato dietro fortunosamente.
Un dato va sottolineato, allo scopo di dissipare un equivoco che è
durato fin quasi ai nostri giorni. La chiesa cattolica, superato un
periodo di iniziale diffidenza, accettò di buon grado queste
comunità albanesi, consentendo loro di conservare il rito orientale,
altrimenti detto " greco ", per la quale ragione anche le
comunità albanesi, nettamente distinte da quelle greche per lingua,
usi e costumi, furono dette greche. Ma fu proprio la chiesa cattolica,
avendo constatato il rilevante numero di italo-albanesi residenti in
Italia, ad istituire a Roma, nel sec. XVIII, un organismo ecclesiastico
per la formazione del clero locale. Inoltre, istituì nel 1719
un vescovato, per le colonie albanesi residenti nell'Italia meridionale,
cui seguì, nel 1784, un vescovato per gli albanesi residenti
in Sicilia. Il primo ebbe sede prima a S. Benedetto Ullano, poi, nel
1794 a S. Demetrio Corone per essere, infine, spostato a Lungro. Il
secondo ha avuto sempre sede a Piana degli Albanesi.
Se il Pacichelli, nella descrizione di Taranto, afferma che " Ricca,
e vasta è la Diocesi con otto Casali di Albanesi di Rito Greco
" (3), il Pacelli nell'Atlante Sallentino, rimasto ancora manoscritto,
descrive L'Albania Sallentina alla tavola XV, a pag. 71 (4). Si tratta
di una carta acquerellata di colore giallino, finemente tratteggiata,
sulla quale, sparsi in un vasto territorio, sono dislocati a sud-est
di Taranto i comuni di S. Crispiere, Faggiano, Rocca Forzata (5), San
Martino, Monteparano, San Marzano (6). Gli otto casali del Pacichelli,
del 1703, sono diventati, nell'atlante del Pacelli, sei. Segno, questo,
dell'iniziato declino delle colonie albanesi nell'Italia meridionale.
Alla pagina precedente la tavola, dal Pacelli - che dell'Albania salentina
ha dato la prima descrizione organica -sono fornite poche notizie storiche
relative al territorio che forma l'Albania del Salento.
Il Pacelli nella sua essenziale descrizione scarta decisamente l'ipotesi
secondo la quale la lingua albanese fosse introdotta in questi comuni
al tempo della guerra di Pirro contro i Romani in soccorso dei Tarentini.
Scarta, altresì, l'ipotesi che questa lingua fosse introdotta
in questi comuni nel sec. XV, quando in Puglia venne il Castriota Scanderbeg,
re d'Albania, in soccorso di Ferdinando d'Aragona, assediato in Bari,
dal quale, poi, per l'aiuto prestato ottenne in dono alcune città
e, tra queste, anche Trani. Ed è sintomatico che a questa opinione
fossero favorevoli, al tempo del Pacelli, perché costui la riporta,
gli stessi abitanti della zona albanese di Taranto, i quali, come tutti
gli altri albanesi sparsi in Italia, conservavano, come sempre hanno
conservato, caro il ricordo del loro fiero eroe nazionale.
Il Pacelli, dal canto suo, propende per un'altra ipotesi. Egli afferma:
" Se io mal non mi avviso, credo piuttosto, che l'introduzione
della Lingua Albanese in questi Paesi debbasi attribuire alla seconda
venuta in Regno degli Albanesi, che accadde poco meno di un Secolo dopo
e propriamente circa il 1530, quando per sottrarsi dalla tirannia del
Turco, molte nobili, e ricche Famiglie abbandonando la Patria, dall'Albania
nella Puglia si trasferirono sotto la protezione del Cattolico Re di
Spagna.
Tra queste Famiglie di Gentiluomini Albanesi vi fu la Famiglia Basta,
da cui usci il celebre guerriero, conduttore d'Eserciti, e valoroso
Scrittore di dotte Opere Giorgio Basta, un ramo della quale Famiglia,
perché fece compra di alcuni di questi Paesi della nostra Albania
Sallentina, come di S. Martino, di Monteparano, vi si venne a fissare.
E l'istesso Giorgio Basta, che comprò Civitella, oggi distrutta,
si crede, che in questi Paesi avesse sua spoglia mortale lasciato, d'onde
nacque poi l'errore, adottato alla cieca da tutti i Biografi, ed ultimamente
dai Traduttori del voluminosissimo Dizionario degli Uomini Illustri,
che Giorgio Basta nato fosse in Rocca-Forzata, mentre nacque in Ulpiano
nel Monferrato, come nella nostra Biobibliografia Sallentina farem chiaro.
Al dominio adunque, ch'ebbe la Famiglia Basta su alcuni Paesi di questa
Contrada, e alla dimora, che vi fece per molti anni piuttosto, che alla
gente, menata in Regno da Scanderbeg, inclinerei a credere (semprecché
non si avessero prove in contrario) doversi attribuire l'introduzione
in questi Paesi del Linguaggio Albanese ".
Anche il Gabrieli (7) in anni recenti propende per questa ipotesi, confermando,
comunque, che il " cantone... s'andò via via assottigliando,
sì che nel 1803 abbracciava soltanto i cinque villaggi di S.
Crispieri, S. Marzano, Faggiano, Roccaforzata e Monteparano ",
rilevando inoltre che in tutta l'area albanese dell'Albania salentina
" minimi residui linguistici " si possono trovare a Chieuti
in Capitanata e a San Marzano di S. Giuseppe nel territorio di Taranto.
Infatti, lo stesso Gabrieli cita come albanesi, nella zona di Taranto,
originariamente ben dodici comuni. Ed è importante il riferimento
che il Gabrieli fa alla lingua di tali comuni, nel senso che questa
lingua, per diverse ragioni, prevalentemente di carattere politico,
s'è andata a mano a mano spegnendo con conseguenze gravissime
per una cultura originale, autonoma, che andava conservata, della quale
quel poco che è rimasto va conservato, per quel che di ricchezza
nativa, di poesia, di interesse demologico, porta in sé.
Di Faggiano, uno dei più consistenti comuni dell'Albania Salentina,
si occupò diffusamente un attento ricercatore come il Coco (8),
il quale afferma che " Gli albanesi, sin dalla metà del
secolo XV, se non prima, erano ben noti nel Salento. Dal Libro rosso
della Città di Lecce rilevasi che nel 1463 quelli dimoranti nella
capitale furono esclusi dall'indulto per delitti di omicidio, rapina
ecc., concesso da Ferrante d'Aragona ai cittadini leccesi ", confermando,
poco dopo, l'ipotesi del Pacelli a proposito del periodo storico delle
" trasmigrazioni " degli albanesi nella regione pugliese.
Ma non soltanto nella nostra provincia in un primo tempo gli albanesi
non furono ben visti. Restando essi tenacemente fedeli alla lingua,
al rito, ai costumi d'origine, non facilmente s'integravano nelle popolazioni
indigene delle quali suscitavano la diffidenza. Talvolta, infatti, i
loro insediamenti furono provvisori, data l'ostilità degli indigeni
o dell'autorità feudale o ecclesiastica, ed alcuni di essi dopo
pochi anni furono abbandonati. D'altronde, alcuni di questi insediamenti,
sorti sulla costa, divennero ben presto facile obbiettivo delle ripetute
scorrerie barbaresche che respingevano verso l'interno i superstiti.
Comunque, a Lecce gli albanesi, che nel 1510 contavano 94 " fuochi
", e rappresentavano pertanto una colonia nutrita, prestigiosamente
sostenuta dalla presenza di alcune ragguardevoli famiglie albanesi,
furono esentati dal pagamento " de dicto ducato per foco ",
cioè erano esentati, per disposizione della R. Camera della Summaria
in data 23 febbraio 1492, dal pagamento della tassa del testatico (9).
A detta del Coco, Faggiano fu il primo casale del tarentino ad essere
" riabitato " da albanesi. Dopo Faggiano, questi andarono
a Roccaforzata e a San Martino, comuni dai quali poi si diffusero nei
paesi limitrofi: " Sorse così in questo tempo l'Albania
salentina per opera dei discendenti delle soldatesche dello Scanderbergh,
che abitarono i casali depredati e diroccati dai loro padri introducendovi
riti religiosi, lingua, usi e costumi nazionali ". Connotazioni
etniche, queste che, sopraffatte dall'incalzare dei tempi, son vissute
poi in maniera grama, affidate al ricordo ed allo studio di quanti,
non molti in realtà, si sono occupati, e nella maggior parte
dei casi per interesse puramente accademico, di questa interessante
e suggestiva arca socio-linguistica salentina.
Lo stesso Gabrieli, infatti, afferma che " ...la storia di queste
immigrazioni albanesi nel mezzogiorno d'Italia resti ancora a fare (e
forse non si potrà, per mancanza di documenti, fare mai) ".
Comunque, il citato Coco nelle pagine nelle quali si occupa dell'immigrazione
albanese in Faggiano ricostruisce con molta verosimiglianza, anche perché
confortato da numerosi documenti sagacemente esplorati, la vicenda.
Giuseppe Palumbo, noto studioso e ricercatore di cose salentine, nel
1921 pubblicò il resoconto di un suo viaggio a San Marzano (10),
riportandone, trascritti e tradotti, due canti d'amore, reperti superstiti
di una civiltà già allora quasi scomparsa:
UN AMORE CONTRASTATO
Higna se nghêtê
degna e isci panzan;
Cunzêdroje ti ssêmbra imme;
Perpara se t'scogna gnai me bus
Cclè p'têcrêstera cê nêngtê vreta;
U cam llên cusce mir degna
Têtte marê tì ssêmbra imme,
Nanì ppriremi táddia nè, se dduchemi
Sciocchie mê cate jessêscê, ce ddo Ccristi.
(Finzion fu non
amarti, non fu vero; Lo penetrasti tu l'interno mio; Dinanzi ti passai
un poco altero E per la gente non ti dissi addio. Ho lasciato l'amore
mio primiero Per amare te bello core mio, Ritorniamo ora al consueto
affetto E sposa ti farò piacendo a Dio).
SENTIMENTI DI
PASSIONE
Die brêmba
schoffa e nghête uppèu
Iei buccra imme nd'argalì,
Nga copanè cê ippi nde aiò cascê
Mua mê schandoi ssembra pê ti.
Vatta por'uiê e mê ffieti cnatta
U cciati cnatta atia cu ppigna,
Ce nghêmê ref mêmma me reff tatta,
Ce no me jepê fugne imbulà.
(Ieri sera passai
e non ti vidi, Tessevi bella mia nel tuo telaio, E ogni colpo che davi
a quella cassa Il core mio schiantavasi per te. Andai per l'acqua e
si ruppe il boccale, Mi si ruppe il boccale ov'io bevea, Se non mamma,
mi batterà mio padre, Ovvero avrò le busse dal fratello).
C'è in questi
versi (della cui fedeltà di trascrizione e traduzione, peraltro,
il Gabrieli mostrò, sia pure indirettamente, di dubitare) il
senso di una semplicità del sentimento che è quello originale
del popolo quando questo si guarda intorno, e poi nel suo intimo, e
subito trova le parole per esprimersi. Semplicità, genuinità,
immediatezza nella concezione delle cose, nell'interpretazione dei fenomeni
umani e della natura, che risaltarono subito agli occhi del Palumbo.
Il quale trovò che gli albanesi del Salento erano laboriosi nell'impegno
dell'agricoltura, forti nei sentimenti d'amore e d'odio, nostalgici
della patria lontana , il cui ricordo non cessa mai di scaldarli. A
distanza di secoli, essi son rimasti albanesi, ricchi d'un rimpianto
che covano gelosamente, nel quale trovano la ragione di sopravvivere.
Dice ancora il Palumbo: " La foggia di vestire, che, fino a pochi
decenni or sono, risentiva della maniera nazionale, ha ormai perduta
la linea antica... ".
Tra gli aspetti caratteristici degli albanesi di San Marzano il Palumbo
cita la superstizione. Essi credono nell'interpretazione dei sogni,
nella stregoneria e negli spiriti maligni, al punto da non lasciarsi
fotografare, temendo di non sopravvivere a lungo alla fotografia, e
da non traversare di notte certi luoghi della campagna, temendo d'imbattersi
nei demoni che la campagna popolano. Tra i riti religiosi il Palumbo
ricorda la " tavola di S. Giuseppe ", un banchetto allestito
per i poveri del paese. Tradizione, peraltro, in voga anche presso altri
comuni del Salento.
Per quel che riguarda il rito greco, una delle più complesse
vicende religiose dell'Italia meridionale e del Salento in particolare,
è il Coco a diffondersi, in un capitolo che riguarda tale culto
a Faggiano, affermando che " ... verso la seconda metà del
secolo XVII, la liturgia greca continuò a conservarsi, presso
gli Albanesi e presso i latini, solo in alcune solennità. Anzi,
tra i nostri Albanesi del tarentino si nota una gerarchia tutta propria,
perché, quasi indipendenti dai Vescovi diocesani, i Sacerdoti
greci ricevevano gli ordini dall'Arcivescovo Pafnunzio di Girgenti,
che di tanto in tanto visitava le parrocchie albanesi dell'Italia Meridionale,
lasciando ordini e disposizioni per miglioramento del Clero e del popolo
". Un rito autonomo, dunque, conservato, pur nella sottile ostilità
delle autorità religiose e del popolo di rito latino, tenacemente,
come un legame da non perdere con la patria d'origine. Infatti, quando
un cardinale Gaetano, per tutta una somma, forse anche non accertata,
di contraddizioni emerse tra i sacerdoti di rito greco e per certi fatti
relativi al rito stesso, avendo notificato le cose alla Santa Sede,
impose l'abolizione del rito greco, gli albanesi si ribellarono e minacciarono
di abbandonare il paese. Il feudatario del posto, preoccupato per la
piega che gli eventi prendevano, perché non voleva perdere dei
buoni agricoltori, fece conoscere alla Santa Sede gli sviluppi della
situazione e lo stesso Innocente X intervenne. Il vescovo di Taranto,
Mons. D. Tommaso Caracciolo, nominò direttamente il Parroco di
Faggiano, il quale " richiamò in vigore l'osservanza della
liturgia greca ". Ma nel 1683 il rito latino cominciò a
sostituire quello greco. Solo in alcune cerimonie religiose durò
il rito greco fino agli ultimi decenni del secolo XIX.
Forse fu proprio con questa poco intelligente espropriazione che ebbe
inizio realmente il declino delle comunità di lingua albanese
nel Salento. Un declino cui fa riscontro soltanto un interesse accademico,
come s'è detto, che soltanto per un puro progetto culturale si
occupa delle superstiti comunità o, per meglio dire, minoranze
linguistiche che, malgrado tutto, durano ancora. Né valgono gli
sforzi di studiosi impegnati e di istituti culturali attivamente operanti,
peraltro, ad arrestare un processo che, se non s'interviene in tempo,
diventerà irreversibile (11).
NOTE
1) Cfr. F. Babinger,
Maometto il Conquistatore e il suo tempo. Torino, Ed. Einaudi, 1957.
2) C. Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati ed emigrazioni interne. In
Storia d'Italia. Volume quinto. I documenti I. Torino, Ed. Einaudi,
1973, pagg. 311-357.
3) Gio. Battista Pacichelli, Il regno di Napoli in prospettiva. Vol.
2°. Napoli, Stamp. D.A. Parrino, 1703, pagg. 160-162.
4) G. Pacelli, L'atlante sallentino o sia la provincia di Otranto secondo
il suo stato politico, economico, ecclesiastico, e militare con una
appendice. Parte I che contiene, il politico, e l'economico. CI) I)
CCCVII. Il manoscritto, che è conservato presso la Biblioteca
Prov.le di Lecce, nella sez. MSS n. 124, è in ottimo stato di
conservazione.
5) Cfr. G. Miccoli, Roccaforzata nell'Albania tarantina. Studi e ricerche.
Locorotondo, Arti Graf. Angelini. e Pace, 1964. Si tratta di un ampio
studio che riguarda tutta la civiltà albanese di Roccaforzata.
6) Su San Marzano cfr. le brevi note in Puglia Turismo/storia/arte/folklore.
Bari, Editoriale Adda, 1974. Tra l'altro è letto: " ...
A differenza degli altri centri albanesi che furono infeudati a signori
del luogo, San Marzano fu posseduta quasi sempre, fino ai primi dell'Ottocento,
da discendenti albanesi della famiglia di Scanderbeg; ed è questo
il motivo per cui ha conservato fino, ad oggi le sue tradizioni e la
sua lingua".
7) Cfr. G. Gabrieli, Colonie e lingue d'Albania e di Grecia in Puglia.
In Japigia, a. II, 1931, p. 356 sgg.
8) Fr. A.P. Coco, Faggiano, Primo casale albanese del Tarentino. Taranto,
Stab. Tip. Pappacena, 1929.
9) L.G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti. Volume primo. La città.
Nuova edizione postillata da Nicola Vacca. Lecce, Centro di Studi Salentini,
1964. Cfr. anche N. Vacca, La Grecia e l'Albania Salentina nell'Atlante
del Pacelli. In Rinascenza Salentina, 1935, p. 145.
10) G. Palumbo, L'Albania salentina d'oggi. In Varietas, n. 211, novembre
1921. Cfr. anche, dello stesso, L'Albania salentina d'oggi. In Il Salento...
vol. VII per l'anno 1933, pag. 287 e sgg.
11) Una intensa ed efficace problematica in chiave politica intorno
alle minoranze linguistiche in Europa ed in Italia va da anni sviluppando
il poeta fiorentino Sergio Salvi. Tale problematica ebbe inizio nel
1973 con un grosso libro, Le nazioni proibite (Firenze, Vallecchi, 1973),
che rappresenta, come suona il sottotitolo, una guida a dieci colonie
"interne" dell'Europa occidentale. E' di due anni dopo Le
lingue tagliate (Milano, Ed. Rizzoli, 1975), nel quale, riprendendo
il discorso, Salvi ricostruisce la storia delle minoranze linguistiche
in Italia. Una storia interessante, senza dubbio, i cui lati oscuri,
sia detto senza pregiudizio alcuno, non depongono certamente a favore
della cultura e della gestione politica dell'Italia "ufficiale",
democratica e pluralista!
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