Può vedersi,
la costa salentina, tutta dal mare, navigando dall'Adriatico allo Jonio:
un itinerario unico, ricco di memorie e di scorci suggestivi, diversi
l'uno dall'altro, unici nella terra meridionale.
Può vedersi,
la costa salentina, tutta dal mare. Voglio dire proprio da una barca:
stando sull'acqua, e circumnavigando la costa, con i paesi dirimpettai.
Dalla parte del mare interno, quello Jonio dalle tempeste piuttosto
rare, l'orizzonte terrestre appare basso, limitato da una lunga, quasi
ininterrotta striscia di sabbia bianca, silicea, abbagliante quando
il sole è a picco. Le dune di Porto Cesareo, in realtà,
vengono da lontano, dall'area tarantina, anzi lucana, e si infittiscono
di canneti e di imbrigliamenti di falasco e di altre piante umide o
secche (agavi a perdita d'occhio, in certi tratti) fin dai bacini del
Tara e della Stornara. Poi scendono giù, sotto l'ampio gomito
che comincia a disegnare la penisola salentina. Porto Cesareo: borgo
difeso da isole piatte, seminate un poco alla rinfusa, ispide anche;
una di esse popolata di conigli selvatici, quasi mezze lepri, instancabili
divoratori di radici. Il borgo si staglia per un lungo tratto, e a distinguere
il bianco delle sabbie da quello delle case occorre aver l'occhio buono:
è il bianco che fa impazzire i pittori, impossibile da riportare
sulla tela, con le più incredibili sfumature: tanti " bianco
", simili eppure uno dall'altro assai diversi, con gli spazi delle
campagne rossi e marroni, grevi, aridi. Vitigni bassi anche questi,
a volte torvi, il vento passa sulle loro teste senza toccarli, allora
conservano una gradazione alcolica stupefacente. L'unico verde visibile
dal mare, poiché gli olivi sembrano neri, con squarci di laminature
d'argento quando il sole vi batte sopra, particolarmente nelle cime.
Questi colori li incontreremo dappertutto. Sotto ancora, dove l'ascella
si incunea tra rada e rada, con qualche grumo di terra che si fa collina:
le serre di Mondo, Nuovo, tra marina e marina, in quella che fu terra
di Nardò, dell'università e della curia della magnifica
Nardò. Dal largo, le marine si colgono senza soluzione di continuità:
Santa Caterina attaccata a Santa Maria al Bagno, questa a Conchiglie,
questa alle case sparse che possono essere una specie di tessuto connettivo
con quelle, più raccolte, che sono ancora, e per fortuna, la
periferia estrema di Gallipoli.
Gli stessi colori, le identiche strisce di case, con l'eccezione della
gran protuberanza gallipolina, l'ísola-città che dorme
e quasi si culla sul mare: compatta, piramide troncata poco più
su della base, inutile dirlo, d'un bianco assoluto. Nero, quasi a far
paura, o a fingere di incutere terrore, il castello che affonda nel
mare del Canneto. Vecchio trucco d'un fortilizio che non fermò
alcuna invasione, né turchesca né veneziana; e per di
più con quel monumento di una incomparabile gentilezza, sebbene
racconti storie tremende, che è la fontana ellenica. L'altra
parte della città viene dopo il ponte seicentesco, e questa rompe
la continuità della linea, dal mare non sfuggono i profili delle
case a più piani, all'ombra di un grattacielo che abbiamo visto,
pressoché identico, alcuni anni fa, se la memoria non ci tradisce,
nella più occidentale delle città cinesi: Shanghai.
Ancora a sud, non è il caso di vogare le correnti si fanno infide,
qui era mare da tonnara, una volta, quando il mare era fonte di vita,
prima che si facesse intorno il deserto liquido, grazie al tritolo e
allo strascico. Le marine sono sorte una dopo l'altra, da Mancaversa
a Ugento, ci sono quasi doppioni di paesi, bianchi e nuovi di zecca:
e spesso è bene vederli solo da lontano, a starci dentro ci si
ubriaca di stili, di forme, di architetture improvvisate, di modelli
importati secondo i gusti o i pessimi gusti, e le tendenze, e le culture.
In esilio l'oleandro, che aggraziò mille ingressi di case, sopravvivono
superstiti gerani, e, sulle scogliere ioniche, qua e là selvatici
gigli deliranti di profumo. Classica, serena Ugento si profila come
una ninfa dell'acqua: e galleggia su una terra ricca di memorie e di
aree archeologiche, una terra che dà tentazioni di saccheggio.
Limpide le acque, si legge il fondo anche a dieci metri, dove comincia
il regno incontrastato delle cernie. S'allunga, Ugento, fino all'aculeo
che segna il confine ultimo, Punta della Ristola, dove il bianco prende
un nome e si fa città: Leuca abbandona le sabbie e preannuncia
gli orli scogliosi. Alle spalle salgono le terre, incurvate in alto
come archi romanici. Da vetta a vetta, sotto il gran faro e sotto il
Santuario che " direttamente porta in Paradiso chi vi si ferma
in preghiera almeno una volta ", altre case bianche interrompono
un paesaggio di steppa, verde-arido, schiumoso, di difficile approccio.
Sembra umile, Leuca, vista dal mare: quasi raccolta dietro un porticciolo
minimo, si apre con colori di foglia morta, che poi ravviva a mezza
strada, prima di farli culminare nell'abbaglio del borgo, fra le strade
che si indovinano più belle di quelle della vecchia Maiorca,
e più intatte. Leuca dal fascino recondito, che si conquista
per amore, apre poi il mondo delle grotte marine, delle spelonche a
fior d'acqua, dalle volte scure e dal mare smeraldino. Da qui a Otranto
e a Castro, e ancora più su, fino a che non riprende piede la
sabbia, la roccia fu tutto: rifugio di domini remoti e di animali estinti,
riparo di predoni e antologia storica di sedimentazioni, sovrapposizioni,
incrostamenti, calcificazioni: vi si possono leggere protostoria e storia
salentina, gli innalzamenti e sprofondamenti delle terre, e scoprire
che il Salento fu prima una regione larga e tozza, poi arcipelago, poi
penisola. Da Leuca in su: Otranto murata, con i palmizi fuori bastione,
e la cattedrale-conchiglia (poteva essere diversamente ideata?) che
svetta sui tetti, faro verso l'Oriente; Otranto martire delle barche
saracene, tomba di pescatori e artigiani guerrieri per necessità,
dunque destinati a soccombere; Otranto gentile, dalla pelle olivastra,
la città meno bianca nel profilo scorto dal mare: nobilissima
città santa e cuore del Salento.
Castro è a portata di mano, se ci si incunea dentro il mare che
scava le rocce, le buttera sulla costa irta e sotto la costa verde di
capelvenere. Sembra la città più alta di tutto il Salento:
con le case ammucchiate, una sopra ai tetti dell'altra, annidate negli
anfratti, con i piedi puntati sui sassi sferzati dal mare. Qui è
il vero volto dell'Adriatico, mare dalle tempeste improvvise e micidiali;
qui si leggono le correnti che scarrocciano le barche, qui si sente
la più saporosa salsedine mediterranea. In questa aria si avvolge
e quasi si nasconde Castro, quasi teneramente. E le altre marine, dalla
sensuale Santa Cesarea alla " cittadina " San Cataldo, per
belle che siano, non reggono al confronto. Del resto, la terra dei sassi,
la campagna dell'invincibile aridità, finiscono alle spalle di
Castro: il Capo, nella parte interna, è un deserto rosso che
si deve vincere ogni giorno, perché dopo ogni tramonto pare faccia
affiorare nuove pietre, faccia emergere altri sassi e scogli: si misura
con la fatica e con la pazienza degli uomini. Ed è una lotta
eterna, i cui segni si scorgono dal mare: sono mezzi trulli di pietre
grigie, coni tronchi e trapezoidali, piramidi schiacciate, sparse per
le campagne, tutte a tiro di voce, antichi rifugi di famiglie contadine,
all'ombra di alberi di fico dal lattice denso. Di qua, la pesca è
ancora una via alimentare: pesce azzurro dell'Adriatico, dal sapore
inconfondibile; controcolore delle rosee triglie degli sprofondi marini
di Porto Cesareo i tonni e i pescespada, i saraghi, i naselli, le fulminee
aguglie. Più in alto, dove il mare quasi rispecchia i campanili
di Lecce, tra i canali di irrigazione e delle ultime bonifiche, marine
e marine dei nostri giorni: non più la sobria architettura d'una
Tricase, ad esempio; che semmai è il rovescio della medaglia.
Tricase occhieggia al mare, è quasi senza profilo, pare essersi
messa d'infilata su per le calanche delle sue meravigliose serre, brune
di carpini e di lecci nani; e dirupa nel mare grado a grado, con una
castità rattenuta, sotto l'aria greca. Il risvolto è su,
dove marine si chiamano masse di case dell'età dei consumi, città
morte dopo settembre, come morivano nel West gli agglomerati di legno
dopo lo sfruttamento dei filoni d'oro. Il nostro oro non solo l'estate,
e le nostre città non sono soltanto quelle che animano dalla
fine di giugno, ungendosi i corpi di misteriosi abbronzanti. L'itinerario
è un altro, per terra o per mare. Va per città vive, che
palpitano da secoli, di anno in anno, giorno e notte, senza pausa, bianche
sotto il sole, bianche sotto la pioggia, di quel bianco che - dicevamo
- fa impazzire i pittori, e che Lenormant definì, senza altri
aggettivi, " salentino ". E anch'egli lo volle vedere, nei
profili, negli scorci e nelle irruzioni per le serre, dal mare.
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