Con i paesi dirimpettai




Luciano Milo



Può vedersi, la costa salentina, tutta dal mare, navigando dall'Adriatico allo Jonio: un itinerario unico, ricco di memorie e di scorci suggestivi, diversi l'uno dall'altro, unici nella terra meridionale.

Può vedersi, la costa salentina, tutta dal mare. Voglio dire proprio da una barca: stando sull'acqua, e circumnavigando la costa, con i paesi dirimpettai. Dalla parte del mare interno, quello Jonio dalle tempeste piuttosto rare, l'orizzonte terrestre appare basso, limitato da una lunga, quasi ininterrotta striscia di sabbia bianca, silicea, abbagliante quando il sole è a picco. Le dune di Porto Cesareo, in realtà, vengono da lontano, dall'area tarantina, anzi lucana, e si infittiscono di canneti e di imbrigliamenti di falasco e di altre piante umide o secche (agavi a perdita d'occhio, in certi tratti) fin dai bacini del Tara e della Stornara. Poi scendono giù, sotto l'ampio gomito che comincia a disegnare la penisola salentina. Porto Cesareo: borgo difeso da isole piatte, seminate un poco alla rinfusa, ispide anche; una di esse popolata di conigli selvatici, quasi mezze lepri, instancabili divoratori di radici. Il borgo si staglia per un lungo tratto, e a distinguere il bianco delle sabbie da quello delle case occorre aver l'occhio buono: è il bianco che fa impazzire i pittori, impossibile da riportare sulla tela, con le più incredibili sfumature: tanti " bianco ", simili eppure uno dall'altro assai diversi, con gli spazi delle campagne rossi e marroni, grevi, aridi. Vitigni bassi anche questi, a volte torvi, il vento passa sulle loro teste senza toccarli, allora conservano una gradazione alcolica stupefacente. L'unico verde visibile dal mare, poiché gli olivi sembrano neri, con squarci di laminature d'argento quando il sole vi batte sopra, particolarmente nelle cime. Questi colori li incontreremo dappertutto. Sotto ancora, dove l'ascella si incunea tra rada e rada, con qualche grumo di terra che si fa collina: le serre di Mondo, Nuovo, tra marina e marina, in quella che fu terra di Nardò, dell'università e della curia della magnifica Nardò. Dal largo, le marine si colgono senza soluzione di continuità: Santa Caterina attaccata a Santa Maria al Bagno, questa a Conchiglie, questa alle case sparse che possono essere una specie di tessuto connettivo con quelle, più raccolte, che sono ancora, e per fortuna, la periferia estrema di Gallipoli.
Gli stessi colori, le identiche strisce di case, con l'eccezione della gran protuberanza gallipolina, l'ísola-città che dorme e quasi si culla sul mare: compatta, piramide troncata poco più su della base, inutile dirlo, d'un bianco assoluto. Nero, quasi a far paura, o a fingere di incutere terrore, il castello che affonda nel mare del Canneto. Vecchio trucco d'un fortilizio che non fermò alcuna invasione, né turchesca né veneziana; e per di più con quel monumento di una incomparabile gentilezza, sebbene racconti storie tremende, che è la fontana ellenica. L'altra parte della città viene dopo il ponte seicentesco, e questa rompe la continuità della linea, dal mare non sfuggono i profili delle case a più piani, all'ombra di un grattacielo che abbiamo visto, pressoché identico, alcuni anni fa, se la memoria non ci tradisce, nella più occidentale delle città cinesi: Shanghai.
Ancora a sud, non è il caso di vogare le correnti si fanno infide, qui era mare da tonnara, una volta, quando il mare era fonte di vita, prima che si facesse intorno il deserto liquido, grazie al tritolo e allo strascico. Le marine sono sorte una dopo l'altra, da Mancaversa a Ugento, ci sono quasi doppioni di paesi, bianchi e nuovi di zecca: e spesso è bene vederli solo da lontano, a starci dentro ci si ubriaca di stili, di forme, di architetture improvvisate, di modelli importati secondo i gusti o i pessimi gusti, e le tendenze, e le culture. In esilio l'oleandro, che aggraziò mille ingressi di case, sopravvivono superstiti gerani, e, sulle scogliere ioniche, qua e là selvatici gigli deliranti di profumo. Classica, serena Ugento si profila come una ninfa dell'acqua: e galleggia su una terra ricca di memorie e di aree archeologiche, una terra che dà tentazioni di saccheggio. Limpide le acque, si legge il fondo anche a dieci metri, dove comincia il regno incontrastato delle cernie. S'allunga, Ugento, fino all'aculeo che segna il confine ultimo, Punta della Ristola, dove il bianco prende un nome e si fa città: Leuca abbandona le sabbie e preannuncia gli orli scogliosi. Alle spalle salgono le terre, incurvate in alto come archi romanici. Da vetta a vetta, sotto il gran faro e sotto il Santuario che " direttamente porta in Paradiso chi vi si ferma in preghiera almeno una volta ", altre case bianche interrompono un paesaggio di steppa, verde-arido, schiumoso, di difficile approccio. Sembra umile, Leuca, vista dal mare: quasi raccolta dietro un porticciolo minimo, si apre con colori di foglia morta, che poi ravviva a mezza strada, prima di farli culminare nell'abbaglio del borgo, fra le strade che si indovinano più belle di quelle della vecchia Maiorca, e più intatte. Leuca dal fascino recondito, che si conquista per amore, apre poi il mondo delle grotte marine, delle spelonche a fior d'acqua, dalle volte scure e dal mare smeraldino. Da qui a Otranto e a Castro, e ancora più su, fino a che non riprende piede la sabbia, la roccia fu tutto: rifugio di domini remoti e di animali estinti, riparo di predoni e antologia storica di sedimentazioni, sovrapposizioni, incrostamenti, calcificazioni: vi si possono leggere protostoria e storia salentina, gli innalzamenti e sprofondamenti delle terre, e scoprire che il Salento fu prima una regione larga e tozza, poi arcipelago, poi penisola. Da Leuca in su: Otranto murata, con i palmizi fuori bastione, e la cattedrale-conchiglia (poteva essere diversamente ideata?) che svetta sui tetti, faro verso l'Oriente; Otranto martire delle barche saracene, tomba di pescatori e artigiani guerrieri per necessità, dunque destinati a soccombere; Otranto gentile, dalla pelle olivastra, la città meno bianca nel profilo scorto dal mare: nobilissima città santa e cuore del Salento.
Castro è a portata di mano, se ci si incunea dentro il mare che scava le rocce, le buttera sulla costa irta e sotto la costa verde di capelvenere. Sembra la città più alta di tutto il Salento: con le case ammucchiate, una sopra ai tetti dell'altra, annidate negli anfratti, con i piedi puntati sui sassi sferzati dal mare. Qui è il vero volto dell'Adriatico, mare dalle tempeste improvvise e micidiali; qui si leggono le correnti che scarrocciano le barche, qui si sente la più saporosa salsedine mediterranea. In questa aria si avvolge e quasi si nasconde Castro, quasi teneramente. E le altre marine, dalla sensuale Santa Cesarea alla " cittadina " San Cataldo, per belle che siano, non reggono al confronto. Del resto, la terra dei sassi, la campagna dell'invincibile aridità, finiscono alle spalle di Castro: il Capo, nella parte interna, è un deserto rosso che si deve vincere ogni giorno, perché dopo ogni tramonto pare faccia affiorare nuove pietre, faccia emergere altri sassi e scogli: si misura con la fatica e con la pazienza degli uomini. Ed è una lotta eterna, i cui segni si scorgono dal mare: sono mezzi trulli di pietre grigie, coni tronchi e trapezoidali, piramidi schiacciate, sparse per le campagne, tutte a tiro di voce, antichi rifugi di famiglie contadine, all'ombra di alberi di fico dal lattice denso. Di qua, la pesca è ancora una via alimentare: pesce azzurro dell'Adriatico, dal sapore inconfondibile; controcolore delle rosee triglie degli sprofondi marini di Porto Cesareo i tonni e i pescespada, i saraghi, i naselli, le fulminee aguglie. Più in alto, dove il mare quasi rispecchia i campanili di Lecce, tra i canali di irrigazione e delle ultime bonifiche, marine e marine dei nostri giorni: non più la sobria architettura d'una Tricase, ad esempio; che semmai è il rovescio della medaglia. Tricase occhieggia al mare, è quasi senza profilo, pare essersi messa d'infilata su per le calanche delle sue meravigliose serre, brune di carpini e di lecci nani; e dirupa nel mare grado a grado, con una castità rattenuta, sotto l'aria greca. Il risvolto è su, dove marine si chiamano masse di case dell'età dei consumi, città morte dopo settembre, come morivano nel West gli agglomerati di legno dopo lo sfruttamento dei filoni d'oro. Il nostro oro non solo l'estate, e le nostre città non sono soltanto quelle che animano dalla fine di giugno, ungendosi i corpi di misteriosi abbronzanti. L'itinerario è un altro, per terra o per mare. Va per città vive, che palpitano da secoli, di anno in anno, giorno e notte, senza pausa, bianche sotto il sole, bianche sotto la pioggia, di quel bianco che - dicevamo - fa impazzire i pittori, e che Lenormant definì, senza altri aggettivi, " salentino ". E anch'egli lo volle vedere, nei profili, negli scorci e nelle irruzioni per le serre, dal mare.


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