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E se non fosse la crisi vera? |
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Luigi
C. Belli
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Ci si dovrebbe intendere
innanzitutto sul significato della parola. " Crisi " come passaggio
può preludere a una crescita. In questo senso, dal punto di vista
qualitativo - possiamo dir così - la nostra società è
cresciuta. Dalla fine della seconda guerra mondiale, si è ridotta
l'area della civiltà e dell'economia agricola, e anche se non c'è
stato un vero e proprio decollo industriale, le ciminiere oggi (anche
nel Mezzogiorno) producono un reddito complessivo ben più alto
di quello degli anni precedenti il '39-'45. La scuola, pur con tutte le
manchevolezze e le contraddizioni, con tutte le lacune che si devono a
una crescita tumultuosa, è alla portata di tutti. Il problema della
disoccupazione giovanile non è di oggi soltanto, è una piaga
storica, per la quale noi - figli del diritto romano e delle perfidie
controriformistiche - abbiamo inventato quella fase di stallo, cioè
quegli anni di spreco di energie che passano sotto il nome di "età
in cui ci si fa le ossa ".Altrove, nei paesi progrediti, i giovani
sono l'ossatura portante, e i trenta - quarantenni sono i nuclei "
pensanti " della società. Da noi, ci si deve fare le ossa:
come se, nascessimo congenitamente decalcificati! Ecco: la vera rivoluzione
silenziosa della nostra società è proprio questa. Come il
corpo umano esige ricambi fisiologici freschi e portatori di energie nuove,
così è indispensabile che la nostra società abbia
il coraggio di operare un passaggio di generazione che immetta (in politica,
in economia, nelle università, nei centri di ricerca, ovunque insomma
si " decida " il presente e il futuro del paese) forze giovani,
ricche di idee, in grado di " inventare " modelli di comportamento
che ci mettano al passo con il resto d'Europa. Queste energie, operando
accanto all'esperienza di chi giovane più non è, sarebbero
un'iniezione salutare e creativa. Il trauma di un lungo, o lunghissimo
apprendistato, non si supera da un giorno all'altro. Fa invecchiare anche
i giovani, li svuota, li fa "arrivare " stanchi, delusi, scettici
sulle capacità di recupero della nostra società. E' un paese, il nostro, che smotta, frana, si allaga, che è spesso sconvolto da eventi naturali catastrofici: e non si utilizzano che pochi geologi, per di più rintanati in polverosi uffici ministeriali; siamo indietro di un buon meno secolo nella ricerca scientifica, ma i giovani scienziati - per poter lavorare - sono costretti ad emigrare: esportiamo tonnellate di cervelli, impoverendoci sempre più; uno Stato immenso e pressoché impotente (ma anche i governi delle regioni, modellati quasi su misura su quello Stato) sta per fare bancarotta perché si è trasformato in un labirinto assistenziale (e si tratta, per di più, di pessima assistenza), abituando il cittadino al microreddito pubblico, e stroncando con il disordine organizzativo, con l'inerzia della burocrazia, con un fisco rapace solo con i deboli, quella originale fonte di reddito e di lavoro che è l'iniziativa privata. Stiamo diventando un popolo, di pensionati e di scioperanti " selvaggi ". In queste condizioni, chi è quel " pazzo " che intraprende un'iniziativa individuale? Chi va a buttarsi nel pozzo senza fondo del rischio? Chi concepisce l'investimento? C'è l'impiego pubblico: stipendio assicurato, sonni tranquilli. Ecco: la vera crisi è questa, è la misura dell'appiattimento delle intelligenze. L'inizio della fine è qui, nell'annullamento della meritocrazia, nella collettivizzazione delle coscienze, nella mortificazione dell'individuo. Eppure, la dottrina cattolica premiava quello dei tre fratelli che aveva " investito " e fatto fruttare il suo talento, il sud piccolo capitale. Non si trattava di un insegnamento universale? Chi c'è, dietro l'angolo, col mirino puntato contro l'intelligenza?
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