Il sostanziale arresto
che l'economia italiana ha registrato nel 1977, sostiene il quarto rapporto
della Svimez sul Mezzogiorno nella sezione di sintesi, dopo la considerevole
ripresa dell'anno precedente, è interamente da attribuire alle
regioni del CentroNord. Per esse il saggio di variazione del prodotto
lordo è infatti crollato dal 6,7% all'1,3% . A tale forte irregolarità
di andamento si contrappone la stabilità dei bassi saggi di crescita
dell'economia meridionale: 2,7% nel 1976; 2,8% nel 1977.
La differenza a favore del Sud nella dinamica del prodotto ha interessato
soprattutto l'agricoltura, che nel Centro-Nord ha subito anche quest'anno
gli effetti di una sfavorevole vicenda climatica, con una contrazione
del prodotto di oltre il 3%. Nel Sud si è avuto invece un incremento
del 4,7% che tuttavia ha consentito solo in misura assai parziale di
compensare la rilevante riduzione verificatasi nel 1976.
Per i settori extragricoli, differenze più sensibili di andamento
si sono registrate nell'industria delle costruzioni, il cui prodotto
è in leggero aumento nel Mezzogiorno e in leggere flessioni nel
Centro-Nord , e nei servizi destinabili alla vendita, con un incremento
nel Sud di un punto percentuale maggiore che nel resto del Paese. La
differenza è invece di solo mezzo punto per l'industria in senso
stretto, e irrilevante per i servizi non destinabili alla vendita. Ma
più ancora che il confronto tra i risultati conseguiti nell'anno
dalle due economie, interessa sottolineare i motivi che ne sono alla
base. A questo proposito sembra significativo che, mentre nel Centro-Nord
si è avuta una contrazione della domanda interna (con un aumento
dei consumi finali insufficiente a compensare il declino degli investimenti)
e la funzione di sostegno dell'attività produttiva è stata
assolta dalla domanda estera, nel Sud la domanda interna è, sia
pure di poco, ancora aumentata, grazie a una dinamica dei consumi delle
famiglie il cui ritmo non appare sostanzialmente attenuato nei confronti
dello scorso anno e che risulta all'incirca doppio rispetto a quello
del resto del Paese.
A questo particolare comportamento, prosegue il rapporto, hanno certamente
contribuito il minore effetto prodotto dalle misure di contenimento
della domanda sulla capacità di acquisto delle famiglie meridionali
(data la diversa entità e la diversa struttura delle loro disponibilità
spendibili), l'espansione delle entrate turistiche, il minore aumento
del costo della vita verificatosi nel Sud, e la dinamica per così
dire " naturale " dei trasferimenti alle famiglie, di cui
è nota l'importanza per l'economia di quest'area. Ed è
stata appunto la tuttora crescente domanda di consumi ad alimentare
il maggior saggio di crescita: sia l'industria, che nel Sud è
caratterizzata da un'alta incidenza delle produzioni destinate al consumo
della popolazione locale, sia dei servizi privati; al fenomeno ha contribuito
comunque anche un certo aumento dei flussi di esportazione verso l'estero.
Ma il dato rilevante, in relazione all'eccedenza permanente di offerta
di lavoro che presentano le regioni meridionali, è certamente
quello degli investimenti. Essi, in complesso, hanno registrato una
notevole flessione in entrambe le ripartizioni territoriali. La flessione
risulta leggermente meno accentuata nel Sud, ma solo perché,
a differenza del Nord, sono aumentati, sia pure di poco, gli investimenti
in agricoltura e nelle costruzioni; viceversa, gli investimenti industriali,
in leggera ripresa al Nord, sono nettamente diminuiti nel Sud. Lo stesso
può dirsi per gli investimenti in macchine e attrezzature. Anche
le importazioni nette del Sud hanno presentato una caduta nel '77, quasi
a sottolineare che il calo degli investimenti debba essere almeno in
parte imputato al mancato apporto di investitori esterni, cioè
della componente tradizionalmente più dinamica del processo di
industrializzazione. Ora, poiché resta più che mai valido
che per aumentare in modo, permanente i posti di lavoro non c'è
alternativa all'industrializzazione, si deve prendere atto che la tendenza,
che dura ormai da un triennio, al declino degli investimenti industriali
nel Sud getta un'ombra sul futuro dell'area.
Nel rapporto precedente (il terzo sul Mezzogiorno) si richiamò
l'attenzione sul fatto che per il Sud sono venuti contemporaneamente
a mancare gli sbocchi dati alla sua offerta di lavoro sia dall'industrializzazione
che dall'emigrazione. Se non si sono avute, più gravi manifestazioni
della crisi, ciò non è dovuto solo all'ampiezza ormai
assunta dai trasferimenti di risorse, e in particolare alle prestazioni
assicurative e assistenziali, prosegue il rapporto. Vi ha contribuito
anche il fatto che, malgrado negli ultimi trent'anni il peso dell'agricoltura
sia fortemente diminuito e siano intervenute profonde trasformazioni
nelle condizioni materiali di vita, sono tuttavia sopravvissute capacità
di adattamento e di solidarietà tipiche di una società
rurale, o comunque non industrializzata. Ma quanto più la disoccupazione
si concentra nelle grandi aree urbane e investe le nuove generazioni,
tanto più difficilmente potranno essere contenute le tensioni
che si vanno accumulando nella società meridionale.
L'economia italiana, secondo il rapporto, è ormai entrata nel
quinto anno della " fase storica " iniziatasi con la crisi
petrolifera: una fase che, se può essere definita dì stagnazione,
con riferimento alla riduzione del ritmo di crescita del prodotto, potrebbe
anche essere definita di declino, se si considerano la rilevanza del
capitale produttivo che il radicale mutamento nel quadro delle convenienze
va ponendo fuori mercato e l'incertezza sulle reali prospettive di sostituzione
di nuovi indirizzi produttivi a quelli che si manifestano superati.
Le conseguenze di ciò finiscono col gravare soprattutto sul Sud:
da un lato, prosegue il rapporto, le regioni meridionali sono ormai
le sole nelle quali si hanno incrementi nell'offerta di lavoro; dall'altro
l'apparato industriale meridionale è caratterizzato, oltre che
dalla limitatezza delle sue dimensioni, da una presenza relativamente
maggiore dei settori le cui prospettive appaiono più compromesse.
Si deve ricordare, a questo proposito, che al pur insufficiente progresso
industriale del Sud degli ultimi anni hanno in larga misura concorso
impianti di grandi dimensioni, operanti in settori oggi in crisi; d'altra
parte il Sud non può far conto sulle condizioni ambientali e
sociali, che nelle regioni industrializzate consentono l'affermarsi
di iniziative, in particolare di minori dimensioni, in grado di adeguarsi
rapidamente alla mutata situazione e di cogliere tempestivamente le
nuove opportunità: iniziative per la cui promozione né
gli incentivi finanziari, per quanto elevati, possono risultare sufficienti,
né l'intervento diretto delle partecipazioni statali sembra essere
strumento adeguato. Ma soprattutto l'attenzione va richiamata sulle
difficoltà che ha incontrato l'attuazione della fondamentale
innovazione introdotta dalla legge 183, approvata nel maggio '76, che
all'art. 1 ha sancito il principio che il coordinamento, rispetto ad
obiettivi esplicitamente definiti, di tutti gli interventi nell'area,
ordinari e straordinari, e l'integrazione tra azione dello Stato e azione
delle Regioni debbono essere sistematicamente assicurati sulla base
di un programma e dei suoi aggiornamenti annuali. Con questa legge,
sostiene il rapporto, il nostro Paese compie un nuovo tentativo di darsi
un programma, un tentativo che se da un lato deve certamente superare
difficoltà ancora maggiori di quelle che hanno bloccato le precedenti
esperienze di programmazione, dall'altro può giovarsi sia degli
insegnamenti che hanno dato quelle esperienze, sia di quel tanto di
coordinamento che l'azione pubblica, con l'intervento straordinario,
ha posto in atto a partire dall'ormai lontano 1950.
Quanto alle maggiori difficoltà che occorre superare, sottolinea
il rapporto, esse derivano dal fatto che, se avviare a soluzione la
questione meridionale richiede per l'intero Paese un tipo di sviluppo
diverso da quello passato, non può non risultare sotto molti
aspetti manchevole un'azione programmata che abbia per oggetto solo
il Sud.

Una programmazione
dello sviluppo meridionale - come si è detto - può però
beneficiare dell'esperienza di programmazione su scala nazionale compiuta
già. Essa indica con chiarezza che la programmazione consta di
tre momenti: la determinazione degli obiettivi e dei tempi entro i quali
vanno conseguiti; la identificazione delle azioni da svolgere, delle
forme di finanziamenti, e delle procedure con cui le azioni identificate
possono essere svolte nei tempi indicati; infine, il controllo della
conformità al programma delle azioni svolte. Non ci può
essere infatti programmazione senza controllo. L'adozione dello strumento
del programma non può quindi limitarsi, come in generale è
avvenuto fin qui, a proposte di maggiore coordinamento; essa esige una
redistribuzione di poteri e una determinazione di procedure che non
possono non modificare, forse profondamente, il quadro amministrativo
esistente al momento in cui si decide di passare a un'azione programmata.

La legge 183, all'art.
1, come abbiamo detto, prevede aggiornamenti annuali. Il prossimo di
tali aggiornamenti, sostiene il rapporto, può avere per oggetto
gli anni 1979 e 1980. Il tempo, però, stringe. E occorrerà
prendere atto dei nuovi termini in cui si pone oggi il problema meridionale:
termini tanto crudi che impongono una intensificazione dell'intervento
nell'area, pur nelle difficili condizioni in cui versano le pubbliche
finanze. In un momento in cui il tessuto civile del Paese è già
soggetto a laceranti tensioni, deve risultare possibile una dislocazione
di risorse che consenta di sostenere la capacità di resistenza
di quella sezione della società italiana, che è insieme
più debole e più esposta agli effetti negativi della crisi.
A questo riguardo, secondo il rapporto, non va mai dimenticato che i
tassi di attività delle regioni meridionali, a differenza di
quelli delle rimanenti regioni, sono molto al di sotto delle medie europee,
e che l'incidenza della disoccupazione e delle varie forme di sottoccupazione
è sensibilmente più elevata nel Sud, e soprattutto riguarda
i giovani.
Nel '77 la " disoccupazione aperta " è stata nel Sud
di poco inferiore alle 700 mila unità, pari ad oltre il 10% delle
forze di lavoro del territorio meridionale. Se si considerano le altre
forme di disoccupazione, sottoccupazione e lavoro precario, si può
stimare che la quota inutilizzata dell'offerta potenziale di lavoro
ammonti a poco meno di due milioni di unità, su un totale di
3,3 milioni per l'intero paese. Di fronte a un fenomeno così
rilevante, l'incremento naturale delle forze di lavoro che si prospetta
per il prossimo biennio è modesto. Va però ricordato che
tale incremento valutabile su scala nazionale in circa 80 mila unità
all'anno, quale effetto della diversa struttura per età della
popolazione delle due ripartizioni, e nonostante il minore livello dei
tassi di attività nelle regioni meridionali, sarà espresso
quasi interamente dal Sud; il numero dei meridionali che in ciascuno
dei prossimi anni andranno ad accrescere il numero di coloro che cercano
un lavoro sarà maggiore di tale incremento, dato che continuerà
la tendenza alla contrazione dell'occupazione agricola, ad un ritmo
valutabile in circa 20-30 mila unità all'anno e che a seguito
di operazioni di ristrutturazione si prospettano riduzioni di organico
in alcuni complessi industriali.
Il Sud richiede dunque che vengano creati nuovi posti di lavoro nella
misura necessaria a fronteggiare:
a) l'attuale disoccupazione;
b) la crescente inaccettabilità dello stato di sottoccupazione
e di occupazione precaria o irregolare;
c) l'incremento dell'offerta di lavoro per i settori extragricoli;
d) la mobilità delle unità attualmente occupate nelle
attività industriali per le quali si prospettano riduzioni di
personale.
Al riguardo, sostiene il rapporto, è da tener presente che da
anni la componente più dinamica nella creazione di nuovi posti
di lavoro è costituita dal settore terziario. Questa domanda
appare comunque destinata a risentire nel prossimo futuro, particolarmente
nel Sud, di alcuni fattori limitanti: da una parte le difficoltà
finanziarie tendono ad imporre limiti seri alle nuove assunzioni nelle
amministrazioni pubbliche, che pure nel passato hanno contribuito per
poco meno della metà all'incremento dell'occupazione terziaria
meridionale; dall'altra, il recupero delle riserve di sottoccupazione
e di inefficienza, che già gravano nel Sud, soprattutto sui servizi
privati, in cui predominano le conduzioni familiari, tenderà
a ridurre gli effetti di occupazione addizionale che potranno essere
determinati dalla ripresa della domanda interna.
Per ciò che riguarda l'industria nel suo complesso, si escludono
apprezzabili incrementi di occupazione. Solo per l'edilizia possono
prevedersi aumenti, quando diventeranno operanti la legge sull'equo
canone e il piano decennale. Quanto all'industria in senso stretto,
il proseguimento e la stabilizzazione nel tempo della ripresa produttiva
potrebbe dal luogo, a partire dalla fine di quest'anno, a un tasso medio
di crescita della produzione del 5-6% annuo, coerente con quell'aumento
del 4,5% del prodotto interno complessivo, cui si è fatto riferimento
da più parti. Ai nostri fini, secondo il rapporto, interessa
sottolineare che un tasso di crescita del prodotto industriale del 5-6%
nel periodo residuo del quinquennio oggetto della legge 183 sarebbe
dello stesso ordine di quello cui si è mediamente accresciuta
la produttività oraria nel corso degli anni '70, e che rappresenta
la prosecuzione di tendenze di ancor più largo periodo. A questo
ritmo di incremento della produttività, dal momento che sembrano
da escludere per ora ulteriori riduzioni dell'orario di lavoro, l'occupazione
industriale resterebbe praticamente invariata nel complesso del Paese.
Potrebbe aumentare nel Sud, solo se si riuscisse a conseguire una localizzazione
in quelle regioni delle nuove capacità produttive generate dal
processo di riconversione dell'industria nazionale, operando di fatto
uno spostamento di posti di lavoro dal Nord al Sud.
Ma, al riguardo, è da tener presente che nelle regioni del Centro-Nord
la domanda addizionale di lavoro espressa nel prossimo biennio dai servizi
e dall'edilizia si può stimare dell'ordine di 150 mila unità
all'anno, mentre la contemporanea offerta, data la sostanziale stazionarietà
della complessiva forza di lavoro, sarà quasi esclusivamente
alimentata dall'esodo agricolo, valutabile nel biennio dell'ordine di
50-60 mila unità all'anno. In sostanza si prospetta già
ora un divario tra domanda e offerta addizionale di lavoro, che, riassorbita
l'attuale disoccupazione, richiederebbe manodopera di immigrazione;
lo spostamento di posti di lavoro dal Nord al Sud può dunque
aver luogo senza incidere sui livelli di occupazione del Nord e rappresenta
l'alternativa a una ripresa dello spostamento di lavoratori in direzione
opposta.
Da quanto prospettato dal rapporto, emergono le gravi difficoltà
che si frappongono alla soluzione del nodo centrale della questione,
che è quello di una utilizzazione delle forze di lavoro meridionali
in grado di accelerare il processo di unificazione sociale del Paese:
si deve ricordare, in proposito, che se nel Sud sono stati conseguiti
rilevanti progressi dal momento in cui fu avviato l'intervento straordinario,
il divario non è però sostanzialmente mutato: il reddito
pro-capite delle regioni meridionali è quasi triplicato dal '51
al ''77, passando da 735 mila a 2.150 mila lire in valore attuale, ma
rappresenta ancora solo il 60% di quello del Centro-Nord (era pari al
57% nel '51). Non occorre dire che questo, rilevante scarto ha un significato
che supera di gran lunga il mondo dell'economia.
A questo punto, rileva il rapporto, il fenomeno che forse di più
occorre considerare in questo momento è lo spostamento dei fenomeni
di sovrappopolazione dalle campagne alle città, e la nuova e
assai più complessa natura dei problemi di organizzazione territoriale
che tale spostamento ha comportato. Basti pensare che nel 1950 le città
meridionali con oltre 100 mila abitanti erano appena otto, con una incidenza
demografica sull'intero Sud pari a circa 1/6; oggi sono quattordici,
con una popolazione pari a circa 1/4 di quella complessiva del Mezzogiorno:
l'entità del fenomeno è ancora più rilevante se
si considera la moltitudine dei comuni progressivamente conurbati alle
maggiori città. Il grado di deterioramento del tessuto economico,
sociale e insediativo soprattutto delle maggiori aree urbane meridionali
impone di non più differire l'avvio di un'azione che si configura
spesso come di vero e proprio risanamento. Tale azione richiede risorse
finanziarie di notevole entità, e che tuttavia occorre che siano
assicurate: la ripartizione della spesa dovrà pur corrispondere
alla scala di urgenza dei problemi che la situazione del Paese oggi
presenta.
Non meno necessaria è una riconsiderazione di una politica del
territorio, sia sotto il profilo normativo, sia sotto il profilo delle
scelte strategiche. Un'intensificazione dell'intervento sul territorio
nelle direzioni indicate non mancherebbe di produrre a non lontana scadenza
anche rilevanti effetti di occupazione. Va ricordato che nel '77 l'industria
delle costruzioni ha assorbito circa 700 mila addetti, pari al 40% dell'occupazione
industriale dell'area.
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