A scrivere che c'è
un'Italia in crisi non si corre alcun pericolo. In crisi dicono di essere
tutte e novantacinque le Provincie della Penisola. Milano si sente malata,
Torino in convalescenza, Venezia affonda, Genova si lamenta da due secoli,
Bologna rimpiange la perdita di identità, Firenze langue, Napoli
muore, e Roma riassume e sintetizza tutto per tutti, vetrina emblematica
delle contraddizioni e delle storture della vita italiana.
Chi, invece, scrive che c'è anche un'altra Italia, ricca, o per
lo meno più che agiata, corre il rischio del linciaggio morale.
Eppure quest'altra Italia c'è, e va detto che c'è. A negarlo,
non bastano i fiumi di retorica che scorrono con le parole di politici
e sindacalisti, di operatori pubblici e privati, di uomini di palazzo
e di uomini di strada.
Visto o udito mai un contadino dirsi soddisfatto di una stagione, meglio
ancora di un'annata agricola? Fa parte della sua natura, starei per
dire del suo impasto d'uomo e della sua filigrana mentale prendersela
per tutto e con tutti; o, come diceva il fondatore dell'agricoltura
moderna, Arthur Young, con la politica e con il buon Dio. Ebbene, forse
proprio perché in fase di transito nella sfera dei Paesi industrializzati,
e nel tentativo finora vano - di passare in quello dei Paesi industriali,
noi siamo rimasti intrinsecamente ancorati alla cultura paesana e contadina.
Il nostro è un pianto sistematico, un dolore strumentale alla
nostra insicurezza psicologica, all'instabilità dei comportamenti,
all'irresolutezza caratteriale. Il lamento formale è il più
antico e consolidato alibi degli italiani. Non c'è dato statistico,
non c'è salto di qualità della vita che tenga. Per questioni
di potere (e dunque per puri fini personali) piangono politici, sindacalisti,
burocratici, grands commis e piccoli portaborse. Si stracciano le vesti
i responsabili delle imprese pubbliche, quelli che hanno varato programmi
dissennati in particolare, e che in Paesi appena un poco più
ragionevoli del nostro sarebbero stati messi sul lastrico nel giro di
qualche ora soltanto. E ancora: gli imprenditori formatisi al riparo
degli ombrelli assistenziali di uno Stato scarsamente loico (e di una
classe dirigente correa), e dunque cresciuti alla scuola e con la prassi
dell'economia di rapina, si battono il petto per le inadempienze ministeriali
e per gli intralci burocratici. Si disperano commercianti e liberi professionisti,
al novanta per cento evasori fiscali, parassiti che vivono alle spalle
di chi, lavorando forse più di loro, paga le tasse dalla prima
all'ultima lira. E più piange chi più ha, per non perdere
privilegi, sussidi, benefici, esenzioni, sconti. Il più cospicuo
bilancio nazionale è una gigantesca valle di lacrime. In mezzo
a tanta tragicommedia, i soli a conservare una intatta dignità
sono quelli che debbono lavorare per se stessi e per gli altri; e i
giovani, a molti dei quali non si dà nemmeno la possibilità
di lavorare per sopravvivere.
C'è, in Italia, una quantità di ricchezze nascoste. Ricchezze
reali e ricchezze potenziali. Parliamo delle prime. Fatta uguale a 100
la media della ricchezza italiana, cioè della disponibilità
di depositi in banca e alla posta, di immatricolazione di nuove auto,
di consumi di tabacchi, abbonamenti Rai-Tv, spettacoli, riviste periodiche,
abbonamenti telefonici, motorizzazione privata, e di abitazioni nuove,
di ore di cassa integrazione, di aumento del costo della vita, di valore
aggiunto, di iscritti agli Uffici di Collocamento, e, infine, fatto
il rapporto fra pensioni di invalidità e pensioni di vecchiaia,
abbiamo questa situazione:
- per l'Italia del Nord, 41 province su 41 sono al di sopra della media
nazionale, con un massimo per Torino (127) e Milano (125), e con un
minimo per La Spezia e per Rovigo (entrambi su quota 105);
- per l'Italia Centrale, sono al di sopra della media undici province
su venti (dalla quota 117 di Firenze alla quota 101 di Ancona);
- per l'Italia Meridionale, nessuna delle trentaquattro province va
al di là della media (Pescara è a quota 97 ed Enna a quota
68).

In sintesi: nell'ultimo
quarto di secolo, le distanze fra provincia e provincia, e fra Nord
e Sud, si sono accorciate per quel che riguarda la ricchezza prodotta,
risparmiata e consumata. Ma i dislivelli sono ancora molto sensibile,
e le tavole che pubblichiamo ne consentono un'agevole lettura. Rovigo,
la provincia meno prospera del Nord, è pur sempre di cinque punti
al di sopra della media nazionale. Pescara, la provincia più
agiata del Sud, è ancora di tre punti sotto la media italiana.
Il Nord appare come un'area molto omogenea, al punto che ben 29 province
sono comprese in uno scarto di cinque punti attorno alla media. Nel
centro spicca la posizione delle province toscane, tutte al di sopra
della media nazionale. Anche il Sud è area abbastanza omogenea:
nel senso che è tutto al di qua della linea di dispulvio; le
sproporzioni e gli stacchi sono imponenti solo prendendo in considerazione
e province prime e ultime della classifica.

L'indice della prosperità, dunque, fatta la media italiana uguale
a cento, è il seguente: Nord 115; Centro 103; Sud e Isole 81.
Trentaquattro punti di distanza fra l'" Italia continentale o europea
" e quella " mediterranea " spuntano le armi dialettiche
di chi ci accusa ,di lasciarci irretire dalla " prosperità
statistica ". Il dato di fatto resta questo: ci sono Italie che
dispongono di beni strumentali, servizi civili e sociali, risorse e
consumi in misura assai più elevata rispetto ad altre Italie.
La sperequazione non è solo statistica: è storica. Ciò,
tuttavia, non toglie che esistano sacche di povertà all'interno
dell'Italia ricca, e sacche di ricchezza all'interno dell'Italia povera.
Ci sono molti Nord, ci sono molti Sud. Vari gradi di ricchezza e vari
gradi di povertà. Le contraddizioni non si contano: dislivelli
di classe e di reddito, emarginazione, disoccupazione, sottocultura,
possono essere avvertiti con tanta passionalità da provocare
fenomeni di ribellismo e di delinquenza, più diffusi là
dove più diffusa è, appunto, la ricchezza, dove ci sono
le fabbriche, dove si intriga e si fa la politica del Paese: allora
la prosperità si vive come una beffa. E diventa infelicità.


Non c'è un'autentica crisi per i centri che producono beni strumentali
(Torino), prodotti prefiniti e rifiniti, e prodotti trasformati (Milano);
non c'è autentica crisi per calzature, pelli e cuoio (Vigevano,
Macerata-Ascoli Piceno, sud di Lecce); in espansione i tessili pratesi,
le ceramiche e i pavimenti di Modena-Reggio Emilia, l'elettronica di
tutto il Centro-Nord, i prodotti di precisione dello stesso Centro-Nord,
il cemento e l'oreficeria, l'industria del mobile e l'artigianato tipico,
la aeronautica e l'alberghiera, il turismo e le rimesse dall'estero.
Abbiamo voluto citare volutamente alla rinfusa, perché il reddito
nazionale italiano, in realtà, è un sudario di mille brandelli:
le piccole e le medie imprese sono quelle che ci danno ancora ricchezza.
Le grandi imprese un po' meno. Quelle pubbliche, spacciate per iniziative
a prevalente carattere sociale, come Saturno, divorano quanto producono,
e molto di più; altrove (in Svezia, in Inghilterra), si comportano
alla maniera privata: tanto per investimenti, tanto per costo di lavoro,
tanto per ammortamenti e per profitto. Il prestigio delle nostre capacità
di lavoro lo illustrano a fondo le cospicue quote di rimesse dall'estero
dei nostri emigrati. Il fascino dell'arte, delle tradizioni, della cultura
italiana si traduce nella montagna di valuta pregiata accantonata dal
settore turistico. I nostri prodotti sono crescentemente ricercati all'estero.
Una superata, ma purtroppo ancora vitale concezione politicoeconomica,
ha cristallizzato un paese povero (il Sud) a rimorchio di un paese ricco
(il Centro-Nord): un'area che " esporta " beni di consumo,
prodotti e capitali verso un'altra area, come se esportasse all'estero.
In mezzo, lo Stato: garantista per le catene automatiche di produzione
del Nord e per quelle semiautomatiche del Centro; e garantista (o meglio:
assistenzialista) per il Sud e per le Isole. E' un giuoco che dura dall'Unità.
Come vivono ricchi e meno ricchi del Centro-Nord, e poveri e meno poveri
del Sud-Isole? La famiglia media italiana paga per mangiare, bere e
fumare il 35,2% dell'intera spesa; per vestiario e calzature il 9,1%;
per abitazioni, combustibile ed energia elettrica ,il 12,7%; per mobili,
arredamento, elettrodomestici e servizi per la casa il 6,5%; per la
salute l'8,1%; per beni e servizi culturali il 5,7%.

Su 1.000 lire, carne e pesce se ne portano via 338, frutta e verdura
205, pane e pasta 114, latte, formaggi e uova 138, olii e grassi 56,
vini, liquori, acque minerali zucchero, caffè, tè, cacao,
alimentari vari 149 lire. Dal 1960 ad oggi è radicalmente mutata
la composizione della spesa alimentare. Le calorie giornaliere di un
italiano sono passate da 2.614 a 3.167, e dipendono più dai grassi
e meno dai farinacei; è cresciuto del 238% il consumo di pollame,
selvaggina e conigli; del 134% quello della carne suina; del 76% quello
della carne bovina; del 129% quello di arance e mandarini; del 57% quello
dei pomodori; dal 16 al 38% quello di burro, latte, pesce, formaggi,
zucchero, mele e pere. Diciotto milioni di famiglie si sono trasferite
su un gradino sociale diverso da quello di quindici-vent'anni fa: la
qualità della vita è migliorata a vista d'occhio e la
qualità della vita migliora solo se sono disponibili crescenti
fonti di reddito. Viviamo dunque al di sopra delle nostre possibilità?
Non è detto: se assistenza e previdenza sociale non fossero macchine
mangiasoldi, se Scuola e Università funzionassero, se all'ideologia
assistenziale si sostituisse (almeno in buona parte) quella imprenditoriale,
potremmo vivere anche meglio, creare nuove fonti di guadagno, offrire
maggiori possibilità di occupazione e di mobilità. In
quel " se " è implicita una rivoluzione restauratrice
dei princìpi del mercato libero bilanciato - ma non sopraffatto
-dall'industria di Stato; dei principi della meritocrazia, rovescio
della medaglia del livellamento delle intelligenze alla soglia più
bassa; dei princìpi dello sviluppo equilibrato, che negano quel
che accade da sempre nel nostro Paese, nel quale un'area ricca è
destinata ad arricchirsi -sempre più, e una povera stenta a venir
fuori dall'arretratezza, malgrado gli interventi pubblici ordinari e
straordinari.
Due Italie, dunque; forse tre: e tutte con il muro nel cuore. Un muro
invisibile eppure indistruttibile, che blocca le altre ricchezze, quelle
potenziali, fresche, pacificamente aggressive, dislocate in una fascia
che rischia di finire nel circuito terrificante del Terzo Mondo. Non
pare che il piano Pandolfi sia in grado di risolvere questa storica
disequazione. Il futuro non è neanche una scommessa: resta una
nebulosa.


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