§ Per il vino italiano

Boom dell'export




Dario Giustizieri



Riguarda indistintamente tutti i Paesi della Comunità Economica Europea, Francia compresa, nonostante il boicottaggio favorito dalle autorità. Ma interessa anche i Paesi terzi, e soprattutto, oltre oceano, il Canada e gli Stati Uniti.

Il problema di fondo è questo: mentre si fanno sempre più accanite le discussioni sul problema della viticoltura comunitaria (discussioni che investono gli organi globali della Comunità Economica Europea, dal Parlamento europeo al Consiglio dei Ministri dell'Agricoltura, ad altre sedi della CEE), il nostro vino, ormai da alcuni anni, e senza sosta, continua ad affermarsi sui mercati del consumo mondiale. E' stato scritto che " non sbaglia forse chi dice che è la constatazione di questa affermazione, che in taluni Paesi procede con progressione geometrica, a preoccupare l'altro grosso produttore comunitario, al punto tale da richiedere, per essere sicuro di difendere quanto meno il proprio mercato, la applicazione di un prezzo minimo negli scambi intracomunitari ".
Ovviamente, ci si sta riferendo alla Francia. La sua è una richiesta che trova però isolati i rappresentanti di Parigi, in quanto, almeno per una buona volta, e per questo settore che investe le aree specializzate e di pregio dell'agricoltura italiana, gli altri partners si sono accorti che la richiesta - nel modo in cui è stata formulata - forza in modo evidente uno dei princìpi del Trattato di Roma, e dunque è inaccettabile. Anche perché, una volta innescato il meccanismo, si può dar luogo ad una serie di reazioni a catena, i cui effetti potranno essere imprevedibili e incalcolabili.
Di fronte a questo tentativo di contenere la nostra offerta, (tentativo che si allarga anche ad altre misure proposte, quali, ad esempio, una richiesta di aumento delle superprestazioni vinicole - la produzione italiana risponde con un crescente allargamento della sua penetrazione nei mercati di consumo estero. E' un problema di prestigio, ed è un problema di rilancio economico di un'attività che troppo a lungo è stata oggetto, in sede comunitaria, di provvedimenti contraddittori e quasi sempre negativi per i produttori italiani. I quali, d'altro canto, hanno risposto spendendo la migliore delle carte che possedevano: migliorando la qualità dei vini prodotti, battendo la concorrenza, e non solo quella francese (che, come vedremo, poggia spesso su prodotti da taglio italiani, e in particolare meridionali), ma anche quelle tedesca, algerina, tunisina, greca, e via dicendo.
Gli ultimi dati dell'Istituto Centrale di Statistica, relativi alle soglie dell'inverno scorso (dunque emblematici di una situazione reale riguardante il mercato dello scorso anno) riferiscono che l'esportazione di vini italiani ha interessato otto milioni 355 mila ettolitri, con un aumento del 26 per cento in quantità, e del 44 per cento in valore.
Da questi dati, riferiti a quello che si può definire " l'anno vitivinicolo " italiano, è possibile ricavare un dettaglio chiarificatore: si può evidenziare, infatti, che circa il settanta per cento dei vini italiani esportati è stato assorbito dai Paesi della Comunità Economica Europea, mentre il restante trenta per cento ha preso le vie dei Paesi terzi, con la conquista o l'allargamento di nuovi mercati.
Nell'ambito comunitario, in un confronto con lo stesso periodo dell'anno precedente, viene posta in risalto una generalizzazione di incremento, in quantità e in valori, che può essere suddivisa in questo modo:
- Francia: il nostro miglior mercato dal punto di vista quantitativo, nonostante tutte le misure di boicottaggio poste in essere, con l'aperto appoggio e con la connivenza delle autorità di Parigi: aumento delle esportazioni pari al 13,3 per cento in quantità, e aumento del 37 per cento in valore;
- Germania: incremento del 25,7 per cento per quel che riguarda gli aspetti quantitativi e un aumento pari al 41,3 per cento per quel che concerne il valore;
- Belgio e Lussemburgo: aumento del 12,5 per cento riguardo alla quantità e del 36,2 per cento rispetto al valore;
- Olanda: incremento del 26,6 per cento in quantità e del 49 per cento in valore, sebbene l'assorbimento dei vini (ma non solo dei vini italiani) sia ancora molto limitato;
- Gran Bretagna: l'aumento è stato del 10,7 per cento in quantità e del 35 per cento in valore: in questo caso particolare, va sottolineato che l'Inghilterra si è rivolta in modo essenziale ai prodotti a denominazione di origine controllata;
- Irlanda: le nostre spedizioni, anche se a livelli ancora molto bassi, hanno fatto registrare uno sviluppo del 110 per cento per quel che riguarda la quantità e del 149 per cento per quanto riguarda il valore;
- Danimarca: mercato anche questo di modeste dimensioni, rispetto a mercati di tradizionale consumo dei prodotti vinicoli italiani: in ogni caso, dal punto di vista quantitativo questo Paese ha registrato un incremento del 41 per cento, mentre per quel che interessa gli incrementi in valore l'aumento è stato pari al 58 per cento.
Passiamo ora ad esaminare lo sviluppo delle nostre esportazioni sui mercati dei Paesi terzi. In particolare risulta che la vastissima area Stati Uniti-Canada è quella che ha registrato le maggiori percentuali di incremento: 45,8 per cento dal punto di vista quantitativo e 46 per cento dal punto di vista del valore. In Svizzera, l'aumento è stato solo del tre per cento in quantità, ma del 41,5 per cento in valore. In Austria, invece, abbiamo registrato queste cifre: flessione dell'8,3 per cento per quel che riguarda la quantità, ma un contemporaneo incremento del 28,8 per cento sul valore.
Una sintetica comparazione tra le percentuali di incremento della quantità e del valore porta a questa fondamentale constatazione: l'aumento cospicuo della percentuale riferita al valore non è solo da attribuire alla svalutazione della lira, ma anche al fatto che è migliorata qualitativamente la nostra offerta: di conseguenza, i produttori italiani riescono a spuntare sui mercati internazionali di consumo prezzi di gran lunga migliori rispetto a quelli di altri concorrenti a livello europeo e mediterraneo. Ed è questo il fatto che preoccupa in modo particolare i " vignarons " francesi e le autorità di Parigi.
Che cosa significa tutto questo? Che è incominciato, con ogni probabilità, quello che può definirsi un " nuove corso " della nostra esportazione settoriale: nel senso che non esportiamo e non offriamo più ai mercati esteri esclusivamente anonimi vini da taglio (sui quali, comunque, si è fondata - a torto - per tanti anni, la fama di vini " illustri " ma evidentemente esangui, o tali diventati con il passare del tempo); né offriamo più vini nei famigerati bottiglioni da due litri con tappo a corona; ma è diventata più significativa la presenza sui mercati mondiali sia dei vini da tavola, che di quelli pregiati; e, soprattutto, dei vini a Denominazione di Origine Controllata, che sono un poco l'aristocrazia della produzione settoriale della penisola.
Stiamo dunque per raccogliere i frutti di un'azione intelligente, iniziata anni fa, quando la valorizzazione dei vini sembrava legata solo alla tradizione orale, e non a quella codificata: e basti pensare ai danni che quella tradizione orale comportava per i vini del Mezzogiorno, splendidi vini poco conosciuti perché era poco sviluppato il turismo, perché non c'era alcuna azione incisiva di pubblicità all'interno del Paese e all'estero, nella Comunità Economica Europea e oltre i confini della Piccola Europa. Oggi si è invertita una tendenza: e su queste basi poggia la fortuna dell'export italiano, che, non va dimenticato, non è fatto solo di Chianti e di Barolo, ma di vini pugliesi, calabresi, siciliani, sardi, abruzzesi, campani, ormai apprezzati in tutto il mondo. Anche se, lo vogliano ammettere o no, ancora oggi servono a dare un'anima, un corpo e una fortuna a quei vini francesi, la cui fortuna, in confronto ai nostri prodotti, segna un giusto declino.

D.O.C. made in Italy

In Europa e nel mondo sta - finalmente - cadendo un mito: quello della assoluta " grandeur " dei vini francesi. Sono anni che i transalpini perdono colpi sui mercati, e le stesse rivolte dei " vignarons " del Sud-Ovest, il "Midi" produttore di uve, contro l'importazione di vini italiani da taglio, destinati a rinvigorire quelli francesi, hanno annullato, o per lo meno declassato, la pubblicità dei prodotti nazionali. Di pari passo, i più accurati sistemi di produzione italiani, passati dalla fase puramente artigianale a quella di produzione più raffinata per le esportazioni, hanno contribuito a far apprezzare i nostri vini, a Denominazione di Origine Controllata o a denominazione semplice, ma pur di ottima qualità, oltre le frontiere. Insomma, i vini italiani stanno vivendo una loro epoca d'oro: le uve di Puglia, di Sicilia, di Calabria, quelle campane e dell'area di Frascati, i dolci vini d'Abruzzo e i Chianti di Toscana, insieme con i classici di Romagna, del Piemonte, del Veneto, del Friuli, sono richiesti in misura crescente. Insomma, le produzioni pregiate "tirano". E tirano di più quelle dei privati, mentre in crisi sembra essere buona parte della fascia cooperativa, oberata da debiti e da personale superfluo, indebolita dall'incapacità di muoversi sui mercati di collocamento a prezzi concorrenziali, gestita, tranne validissime eccezioni, con tecniche e con metodi approssimativi, che molto di rado riescono a portare il prodotto, anche di alta qualità, oltre i confini dei mercati locali.
Si ritiene che le produzioni del '78 siano da considerarsi tra le migliori degli ultimi dieci anni: numerosi vini nobili andranno ad arricchire le grandi collezioni e le fornite cantine degli amatori. Un motivo di più, per rilanciare i prodotti delle nostre uve nel mondo.


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