Riguarda indistintamente
tutti i Paesi della Comunità Economica Europea, Francia compresa,
nonostante il boicottaggio favorito dalle autorità. Ma interessa
anche i Paesi terzi, e soprattutto, oltre oceano, il Canada e gli Stati
Uniti.
Il problema di fondo
è questo: mentre si fanno sempre più accanite le discussioni
sul problema della viticoltura comunitaria (discussioni che investono
gli organi globali della Comunità Economica Europea, dal Parlamento
europeo al Consiglio dei Ministri dell'Agricoltura, ad altre sedi della
CEE), il nostro vino, ormai da alcuni anni, e senza sosta, continua
ad affermarsi sui mercati del consumo mondiale. E' stato scritto che
" non sbaglia forse chi dice che è la constatazione di questa
affermazione, che in taluni Paesi procede con progressione geometrica,
a preoccupare l'altro grosso produttore comunitario, al punto tale da
richiedere, per essere sicuro di difendere quanto meno il proprio mercato,
la applicazione di un prezzo minimo negli scambi intracomunitari ".
Ovviamente, ci si sta riferendo alla Francia. La sua è una richiesta
che trova però isolati i rappresentanti di Parigi, in quanto,
almeno per una buona volta, e per questo settore che investe le aree
specializzate e di pregio dell'agricoltura italiana, gli altri partners
si sono accorti che la richiesta - nel modo in cui è stata formulata
- forza in modo evidente uno dei princìpi del Trattato di Roma,
e dunque è inaccettabile. Anche perché, una volta innescato
il meccanismo, si può dar luogo ad una serie di reazioni a catena,
i cui effetti potranno essere imprevedibili e incalcolabili.
Di fronte a questo tentativo di contenere la nostra offerta, (tentativo
che si allarga anche ad altre misure proposte, quali, ad esempio, una
richiesta di aumento delle superprestazioni vinicole - la produzione
italiana risponde con un crescente allargamento della sua penetrazione
nei mercati di consumo estero. E' un problema di prestigio, ed è
un problema di rilancio economico di un'attività che troppo a
lungo è stata oggetto, in sede comunitaria, di provvedimenti
contraddittori e quasi sempre negativi per i produttori italiani. I
quali, d'altro canto, hanno risposto spendendo la migliore delle carte
che possedevano: migliorando la qualità dei vini prodotti, battendo
la concorrenza, e non solo quella francese (che, come vedremo, poggia
spesso su prodotti da taglio italiani, e in particolare meridionali),
ma anche quelle tedesca, algerina, tunisina, greca, e via dicendo.
Gli ultimi dati dell'Istituto Centrale di Statistica, relativi alle
soglie dell'inverno scorso (dunque emblematici di una situazione reale
riguardante il mercato dello scorso anno) riferiscono che l'esportazione
di vini italiani ha interessato otto milioni 355 mila ettolitri, con
un aumento del 26 per cento in quantità, e del 44 per cento in
valore.
Da questi dati, riferiti a quello che si può definire "
l'anno vitivinicolo " italiano, è possibile ricavare un
dettaglio chiarificatore: si può evidenziare, infatti, che circa
il settanta per cento dei vini italiani esportati è stato assorbito
dai Paesi della Comunità Economica Europea, mentre il restante
trenta per cento ha preso le vie dei Paesi terzi, con la conquista o
l'allargamento di nuovi mercati.
Nell'ambito comunitario, in un confronto con lo stesso periodo dell'anno
precedente, viene posta in risalto una generalizzazione di incremento,
in quantità e in valori, che può essere suddivisa in questo
modo:
- Francia: il nostro miglior mercato dal punto di vista quantitativo,
nonostante tutte le misure di boicottaggio poste in essere, con l'aperto
appoggio e con la connivenza delle autorità di Parigi: aumento
delle esportazioni pari al 13,3 per cento in quantità, e aumento
del 37 per cento in valore;
- Germania: incremento del 25,7 per cento per quel che riguarda gli
aspetti quantitativi e un aumento pari al 41,3 per cento per quel che
concerne il valore;
- Belgio e Lussemburgo: aumento del 12,5 per cento riguardo alla quantità
e del 36,2 per cento rispetto al valore;
- Olanda: incremento del 26,6 per cento in quantità e del 49
per cento in valore, sebbene l'assorbimento dei vini (ma non solo dei
vini italiani) sia ancora molto limitato;
- Gran Bretagna: l'aumento è stato del 10,7 per cento in quantità
e del 35 per cento in valore: in questo caso particolare, va sottolineato
che l'Inghilterra si è rivolta in modo essenziale ai prodotti
a denominazione di origine controllata;
- Irlanda: le nostre spedizioni, anche se a livelli ancora molto bassi,
hanno fatto registrare uno sviluppo del 110 per cento per quel che riguarda
la quantità e del 149 per cento per quanto riguarda il valore;
- Danimarca: mercato anche questo di modeste dimensioni, rispetto a
mercati di tradizionale consumo dei prodotti vinicoli italiani: in ogni
caso, dal punto di vista quantitativo questo Paese ha registrato un
incremento del 41 per cento, mentre per quel che interessa gli incrementi
in valore l'aumento è stato pari al 58 per cento.
Passiamo ora ad esaminare lo sviluppo delle nostre esportazioni sui
mercati dei Paesi terzi. In particolare risulta che la vastissima area
Stati Uniti-Canada è quella che ha registrato le maggiori percentuali
di incremento: 45,8 per cento dal punto di vista quantitativo e 46 per
cento dal punto di vista del valore. In Svizzera, l'aumento è
stato solo del tre per cento in quantità, ma del 41,5 per cento
in valore. In Austria, invece, abbiamo registrato queste cifre: flessione
dell'8,3 per cento per quel che riguarda la quantità, ma un contemporaneo
incremento del 28,8 per cento sul valore.
Una sintetica comparazione tra le percentuali di incremento della quantità
e del valore porta a questa fondamentale constatazione: l'aumento cospicuo
della percentuale riferita al valore non è solo da attribuire
alla svalutazione della lira, ma anche al fatto che è migliorata
qualitativamente la nostra offerta: di conseguenza, i produttori italiani
riescono a spuntare sui mercati internazionali di consumo prezzi di
gran lunga migliori rispetto a quelli di altri concorrenti a livello
europeo e mediterraneo. Ed è questo il fatto che preoccupa in
modo particolare i " vignarons " francesi e le autorità
di Parigi.
Che cosa significa tutto questo? Che è incominciato, con ogni
probabilità, quello che può definirsi un " nuove
corso " della nostra esportazione settoriale: nel senso che non
esportiamo e non offriamo più ai mercati esteri esclusivamente
anonimi vini da taglio (sui quali, comunque, si è fondata - a
torto - per tanti anni, la fama di vini " illustri " ma evidentemente
esangui, o tali diventati con il passare del tempo); né offriamo
più vini nei famigerati bottiglioni da due litri con tappo a
corona; ma è diventata più significativa la presenza sui
mercati mondiali sia dei vini da tavola, che di quelli pregiati; e,
soprattutto, dei vini a Denominazione di Origine Controllata, che sono
un poco l'aristocrazia della produzione settoriale della penisola.
Stiamo dunque per raccogliere i frutti di un'azione intelligente, iniziata
anni fa, quando la valorizzazione dei vini sembrava legata solo alla
tradizione orale, e non a quella codificata: e basti pensare ai danni
che quella tradizione orale comportava per i vini del Mezzogiorno, splendidi
vini poco conosciuti perché era poco sviluppato il turismo, perché
non c'era alcuna azione incisiva di pubblicità all'interno del
Paese e all'estero, nella Comunità Economica Europea e oltre
i confini della Piccola Europa. Oggi si è invertita una tendenza:
e su queste basi poggia la fortuna dell'export italiano, che, non va
dimenticato, non è fatto solo di Chianti e di Barolo, ma di vini
pugliesi, calabresi, siciliani, sardi, abruzzesi, campani, ormai apprezzati
in tutto il mondo. Anche se, lo vogliano ammettere o no, ancora oggi
servono a dare un'anima, un corpo e una fortuna a quei vini francesi,
la cui fortuna, in confronto ai nostri prodotti, segna un giusto declino.
D.O.C. made in
Italy
In Europa e nel
mondo sta - finalmente - cadendo un mito: quello della assoluta "
grandeur " dei vini francesi. Sono anni che i transalpini perdono
colpi sui mercati, e le stesse rivolte dei " vignarons " del
Sud-Ovest, il "Midi" produttore di uve, contro l'importazione
di vini italiani da taglio, destinati a rinvigorire quelli francesi,
hanno annullato, o per lo meno declassato, la pubblicità dei
prodotti nazionali. Di pari passo, i più accurati sistemi di
produzione italiani, passati dalla fase puramente artigianale a quella
di produzione più raffinata per le esportazioni, hanno contribuito
a far apprezzare i nostri vini, a Denominazione di Origine Controllata
o a denominazione semplice, ma pur di ottima qualità, oltre le
frontiere. Insomma, i vini italiani stanno vivendo una loro epoca d'oro:
le uve di Puglia, di Sicilia, di Calabria, quelle campane e dell'area
di Frascati, i dolci vini d'Abruzzo e i Chianti di Toscana, insieme
con i classici di Romagna, del Piemonte, del Veneto, del Friuli, sono
richiesti in misura crescente. Insomma, le produzioni pregiate "tirano".
E tirano di più quelle dei privati, mentre in crisi sembra essere
buona parte della fascia cooperativa, oberata da debiti e da personale
superfluo, indebolita dall'incapacità di muoversi sui mercati
di collocamento a prezzi concorrenziali, gestita, tranne validissime
eccezioni, con tecniche e con metodi approssimativi, che molto di rado
riescono a portare il prodotto, anche di alta qualità, oltre
i confini dei mercati locali.
Si ritiene che le produzioni del '78 siano da considerarsi tra le migliori
degli ultimi dieci anni: numerosi vini nobili andranno ad arricchire
le grandi collezioni e le fornite cantine degli amatori. Un motivo di
più, per rilanciare i prodotti delle nostre uve nel mondo.
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