§ Il corsivo

Fuga dei cervelli




Sergio Zavoli



Fuga dei cervelli

Il " cammino della speranza " era un esodo operaio, contadino, bracciantile, ombre d'uomini che lasciavano le miniere dai fianchi esausti, i monti senza più polpa, i campi dissecati, i fiumi come rigagnoli, per un viaggio guidato dall'antica bussola della sopravvivenza: ineluttabile quanto la morte è dopotutto la vita, disse Charlot.
Ma quando a uscire dal deserto sono i " cervelli " non è più la fame che preme, né la manna che può lenirla. Dietro c'è un altro sfascio, di una natura sottile, quasi invisibile e all'apparenza persino indolore: c'è il vuoto della ragione. Chi potrebbe indurli, altrimenti, a voler immaginare, sperimentare e fare le cose in un altro Paese, rinunciando alla lusinga e al dovere di giovare al proprio, privandosi di quel terreno culturale e sociale, di quelle consonanze umane e civili in cui sono maturati, tra mille prove, le vocazioni e gli studi?
Eppure, in trent'anni, sono fuggiti verso gli Stati Uniti non meno di trecentomila fra scienziati e tecnici, di cui quasi tremila italiani. I risultati li abbiamo subito visti: in un solo anno l'America ha depositato all'estero 115 mila domande di brevetto, mentre gli altri Paesi, messi tutti insieme, ne hanno registrati negli Stati Uniti 25 mila. Su cento innovazioni apparse nel mondo dal 1945 ad oggi, 60 sono americane, 15 inglesi, 10 tedesche, 4 svizzere, 3,5 svedesi, 3 italiane e 4,5 di altre nazioni. Questa situazione di dipendenza scientifica e tecnologica ha, per noi, un prezzo economico enorme: in un anno, su un introito di 35 miliardi per esportazione di brevetti, ne abbiamo spesi, per l'acquisto, 143. Dietro l'angolo, c'è tutto un sistema di imprevidenze, di cecità, di rinunce che ha drammaticamente indebolito la struttura e la strategia della nostra ricerca. Abbiamo accettato una sorta di colonizzazione che, garantendoci il consumo dei beni, ci ha però sottratto una incalcolabile ricchezza economica e politica: la scelta di un nostro modello di sviluppo, la possibilità di finalizzarlo, i mezzi per correggerlo e incrementarlo.
Una conseguenza - forse marginale, ma per me inquietante - è che tutto il corpo idei nostro Paese, e temo anche lo spirito, è rimasto segnato da un " progresso " che ci ha spesso obbligati a prendere il passo, il volto e forse l'animo di civiltà dai tratti non sempre consentanei alla nostra, col risultato di trovarci in debito con esse e quindi non più in grado di difendere e affermare taluni peculiari interessi. Se poi si volesse dire che scienza e tecnologia sono sempre di più patrimonio il cui sviluppo e i cui scopi, per la loro irresistibilità, non possono più subire opzioni particolari, allora bisognerebbe dichiarare tutto il falso di questa presunta ingovernabilità del fenomeno; è vero infatti il contrario, è vero che saranno sempre più moderni quei Paesi che riusciranno a fare i conti con una scienza così libera proprio perché così padrona. Certo, prima di poter dirigere la scienza, occorre apprestare e programmare la ricerca. Si tratta di non tradire non dico Galileo, che da noi ha le corna da 350 anni, ma la Costituzione della Repubblica, là dove disse di voler " promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica ". Buzzati Traverso, decidendo di tener qui la sua testa, ha però proposto che fosse almeno tagliata la coda della norma costituzionale appena richiamata, cioè le ultime sei parole.

Le tasse

Chi le paga, cioè il cittadino che non vuole o non può eludere le tasse, si è fatto di questo dovere, accettato o subito che sia, un'idea tutto sommato moralistica; è indotto più a invocare l'uguaglianza di andata (dobbiamo pagare tutti) che verificare la giustizia di ritorno (se tutti pagassero, pagheremmo ciascuno di meno). E' l'antica richiesta dei poveri di partire dal medesimo punto, senza gli handicap che la vita, in ogni caso, riproporrà, pensando da sé a ritmare la corsa dei concorrenti.
Insomma, a chi paga, basterebbe sapere, un bel giorno, che nessuno è più in grado di gabbare il fisco; raggiunta questa consolazione, allora, sì, comincerebbe a chiedersi, come si fa nei Paesi dove la parità dei doveri è garantita, se non sia possibile rivendicare qualche diritto. La polemica con il fisco, nelle nazioni socialmente più evolute, riguarda infatti non l'evasione, come da noi, ma il pagamento. Avreste mai pensato, d'altronde, che nel rapporto " gettito fiscale-fornitura di servizi sociali ", gli Stati Uniti sono di gran lunga lontani non soltanto dalle nazioni scandinave, le più fiscali del mondo, ma anche da altri ,dodici paesi, fra cui, nell'ordine, Francia, Inghilterra, Germania, Canada e Italia?
Si può obiettare che questi dati statistici riguardano realtà sociali così diverse che non si possono trarre conclusioni né incoraggianti né deludenti: come prescindere dalla constatazione che, se pagassimo tutti le tasse, lo Stato assicurerebbe più giustizia che assistenza? E che la prima, a conti fatti, ci costerebbe molto meno della seconda? In un Paese come il nostro - dove l'evasione fiscale ha assunto proporzioni tanto vistose, ed altrettanto vistoso è il fenomeno dell'impunità - ogni confronto con gli altri è in perdita. Come non trovare il bandolo, per esempio, di quel groviglio d'omissioni, di reticenze, di omertà che hanno reso possibile, e tuttora nascondono, la lista dei 500? Il cittadino, oggi, dà al potere non più un generico mandato da esercitare in nome di quella distante, onnipotente e misteriosa entità che è l'amministrazione statale: al contrario, dà una " delega a fare " e a far bene, secondo criteri garantiti dall'alto ma controllati dal basso, sulla base di quella coscienza civile alla quale - come diceva de Tocqueville - " ci si può legittimamente appellare solo a patto di chiedere al popolo non ubbidienza ma condivisione, non omaggio ma rispetto, non affidamento ma sorveglianza ".

Delitti d'onore

E' accaduto in un paese di quattromila abitanti, a quaranta chilometri da Messina. Un venditore ambulante, Nicola Trafirò, (cinquantottenne, senza precedenti penali), ha sparato, lanciato bottiglie molotov e appiccato incendi in un raid forsennato che, in pochi minuti, ha visto morire tre persone: la moglie e i genitori del mancato sposo della figlia. L'una, sospettata di tradimento con incerte motivazioni; gli altri, colpevoli di non volere le nozze " riparatrici ".
Delitto d'onore, sosterrà la difesa. Uomo d'onore, ripeterà negli androni la tetraggine morale che ancora ispira, qua e là, i costumi del luogo; provocazione grave, concede anche oggi il Codice Penale. Poi, un silenzio inquieto e, questo sì, assolutorio. Per la faccia di tutti - assassino, vittime, testimoni - basterà un marmista a stabilire che, dopotutto, non è successo niente di innaturale.
Nei cimiteri di quella enorme fascia del mondo che è il " Sud " corre, sulle epigrafi, una bugia ininterrotta: è l'elogio tardivo - o nondimeno imbarazzato - di una donna uccisa per cause d'onore. In queste tombe ambigue, sui volti indifesi delle loro abitatrici incastonati nella pietra, sulle parole scritte con intenzioni di pietà, di riparazione o di perdono, la civiltà d'oggi dovrebbe lungamente arrossire. Questi delitti consumati in nome neppure dell'amore, ma dell'orgoglio offeso, dell'autorità disconosciuta, della rispettabilità sconvolta, sotterrano, con le loro vittime, un intero giudizio sulla vita e sulla sua dignità, civile o sacra che la si voglia considerare.
Se il senso di colpa non continuasse a distendere questo velo di silenzi che, complici le leggi, copre ancora centinaia di migliaia di croci, la storia della debolezza umana, a duemila anni dall'ammonimento di Cristo, non avrebbe più cave per le sue pietre. E se la legge degli uomini avesse fatto la sua parte, chi ancora è pronto a lapidare vedrebbe orrendamente contraddetto proprio nel gesto " riparatore " il rifiuto stesso dell'offesa a sua volta patita.
" Chi non ha non è ", dice un proverbio per i traditi dalla storia civile del nostro Sud. D'altronde, dove per millenni una società di sudditi ha cercato invano di diventare una società di cittadini, e dove la civiltà degli altri ha consumato tutti i riti della sopraffazione, è " normale " che la tradizione contrasti ancora le leggi e che la storia non abbia ancora prevalso sui costumi. Chi è stato tenuto per millenni fuori del tempo può giudicare la vendetta persino un valore, visto che le altre norme sanciscono soltanto le verità eluse o conculcate.

Morire di eroina

E' sconfortante: qualcuno ha detto che, se proprio vogliamo prendercela con la droga, dobbiamo anche domandarci se la Fiat, costruendo automobili, non è per ciò stesso la prima causa degli incidenti stradali. Parole, testuali, di un sociologo. Le ho ascoltate alla radio. Morte per morte, stabilirne l'origine è irrilevante; omologare, non a caso, è verbo in gran voga. Lo stesso, birichinissimo personaggio ha aggiunto che quello dell'eroina è un " falso problema ": in realtà, si tratta di stabilire i " come " e i " perché ". Sacrosanto: l'origine certo, è sempre a monte. Ma se a valle si muore, il problema è ancora falso? L'intellettuale in oggetto, alla ragionevole anche se un po' risaputa domanda " la droga è o no una fuga dalla vita? ", ha risposto: " Fuga? Ma neanche per sogno. E' esattamente il contrario: è lo strumento per mobilitare, al massimo grado, le capacità critiche ". Come dire che se non prendi un po' di eroina il sistema ti concia per le feste anche quando discuti col portiere.
" E' una protesta autolesionista? ", ha azzardato l'intervistatore provocando lo scienziato al di là di ogni prudenza.
" Autolesionismo? ", è stata la replica; " ma quale autolesionismo? Lei vorrà scherzare. L'eroina è una delle tante risposte alle leggi del mercato ". " Vuoi dire che ci si droga solo perché si spaccia la droga? ", ha aggiunto il radiocronista per venire incontro, in qualche modo, anche alle istanze del sociologo.
" Voglio dire ", ha risposto lui, " che porre la questione in termini emotivi, traumatizzanti, è fuorviante: l'eroina, a piccole dosi, non ammazza nessuno ".
Ho spento la radio. E mi sono messo a pensare ai tanti modi di ingannare genericamente il prossimo e, in particolare, i deboli; a quanti danni, più o meno innocentemente, hanno provocato, anche in questo ambito, gli psicologismi, gli ideologismi, i moralismi di ogni segno. E mi sono tornate alla mente le parole gravi del prof. Alberto Maddeddu: " Non bastano più le nostre idee, occorrono le strutture. Chi si droga non ha soltanto un " libretto rosso " sotto il braccio, ha un corpo malato. E' necessario curarlo. Quanto alle " idee ", la soluzione solitaria non è mai politica; bisogna intendersi anche su questo ". Riflusso? No, probità intellettuale, prima ancora che impegno sociale e inquietudine morale.
Del resto, va detto che bucarsi non significa solo morire di eroina, più o meno tagliata col borotalco, con la stricnina e persino con la calce: può significare anche morire, per esempio, di tetano o di epatite virale. Il 60% delle morti per " buco " è un evento così poco drammatico, di per sé, da sfiorare la banalità. E questa non è una tragedia? Certo, dietro tale " interiorizzazione della violenza " c'è una violenza visibile, esplicita: non solo la vita, cioè, nelle sue qualità esistenziali, ma con la quantità dei suoi guasti istituzionali. Questa constatazione potrà mai indurci a credere che ci si debba rassegnare, per mero automatismo ideologico, al " processo vendicativo ", e non si debba invece chiarire che la protesta, così facendo, viene esercitata solo contro se stessi, come se il problema andasse affrontato con un rito di negazione simbolica, per giunta individuale, e rilevante solo ideologicamente?
Troppa confusione, in nome volta a volta del privato e del sociale, del personale e del politico. C'è un dato: la tossicomania è in continuo aumento. Non la fermeremo con le norme dettate dai Codici, qualunque essi siano. L'affronteremo, invece, se sapremo dirci con franchezza che ciò di cui si muore è il contrario di ciò da cui prende forma l'unica esperienza vivibile, cioè la vita. Per " rifar nuove, anche noi, tutte le cose " non servirà dire che, dopo tutto, si muore anche per colpa della Fiat: da fermi, con una siringa in mano, si conta meno di un operaio che, con un trapano, buca le carrozzerie di Agnelli. Sarà questione di riflusso, ma questa dei drogati è una società di vittime, non di martiri. Perciò vanno aiutati. Commemorare i vinti è spesso l'alibi dei vincitori, a prescindere dalle buone ragioni degli uni e degli altri. Tra gli uni e gli altri c'è di mezzo, fondamentalmente, non l'ideologia, ma l'esistenza.


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