Fuga dei cervelli
Il " cammino
della speranza " era un esodo operaio, contadino, bracciantile,
ombre d'uomini che lasciavano le miniere dai fianchi esausti, i monti
senza più polpa, i campi dissecati, i fiumi come rigagnoli, per
un viaggio guidato dall'antica bussola della sopravvivenza: ineluttabile
quanto la morte è dopotutto la vita, disse Charlot.
Ma quando a uscire dal deserto sono i " cervelli " non è
più la fame che preme, né la manna che può lenirla.
Dietro c'è un altro sfascio, di una natura sottile, quasi invisibile
e all'apparenza persino indolore: c'è il vuoto della ragione.
Chi potrebbe indurli, altrimenti, a voler immaginare, sperimentare e
fare le cose in un altro Paese, rinunciando alla lusinga e al dovere
di giovare al proprio, privandosi di quel terreno culturale e sociale,
di quelle consonanze umane e civili in cui sono maturati, tra mille
prove, le vocazioni e gli studi?
Eppure, in trent'anni, sono fuggiti verso gli Stati Uniti non meno di
trecentomila fra scienziati e tecnici, di cui quasi tremila italiani.
I risultati li abbiamo subito visti: in un solo anno l'America ha depositato
all'estero 115 mila domande di brevetto, mentre gli altri Paesi, messi
tutti insieme, ne hanno registrati negli Stati Uniti 25 mila. Su cento
innovazioni apparse nel mondo dal 1945 ad oggi, 60 sono americane, 15
inglesi, 10 tedesche, 4 svizzere, 3,5 svedesi, 3 italiane e 4,5 di altre
nazioni. Questa situazione di dipendenza scientifica e tecnologica ha,
per noi, un prezzo economico enorme: in un anno, su un introito di 35
miliardi per esportazione di brevetti, ne abbiamo spesi, per l'acquisto,
143. Dietro l'angolo, c'è tutto un sistema di imprevidenze, di
cecità, di rinunce che ha drammaticamente indebolito la struttura
e la strategia della nostra ricerca. Abbiamo accettato una sorta di
colonizzazione che, garantendoci il consumo dei beni, ci ha però
sottratto una incalcolabile ricchezza economica e politica: la scelta
di un nostro modello di sviluppo, la possibilità di finalizzarlo,
i mezzi per correggerlo e incrementarlo.
Una conseguenza - forse marginale, ma per me inquietante - è
che tutto il corpo idei nostro Paese, e temo anche lo spirito, è
rimasto segnato da un " progresso " che ci ha spesso obbligati
a prendere il passo, il volto e forse l'animo di civiltà dai
tratti non sempre consentanei alla nostra, col risultato di trovarci
in debito con esse e quindi non più in grado di difendere e affermare
taluni peculiari interessi. Se poi si volesse dire che scienza e tecnologia
sono sempre di più patrimonio il cui sviluppo e i cui scopi,
per la loro irresistibilità, non possono più subire opzioni
particolari, allora bisognerebbe dichiarare tutto il falso di questa
presunta ingovernabilità del fenomeno; è vero infatti
il contrario, è vero che saranno sempre più moderni quei
Paesi che riusciranno a fare i conti con una scienza così libera
proprio perché così padrona. Certo, prima di poter dirigere
la scienza, occorre apprestare e programmare la ricerca. Si tratta di
non tradire non dico Galileo, che da noi ha le corna da 350 anni, ma
la Costituzione della Repubblica, là dove disse di voler "
promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica
". Buzzati Traverso, decidendo di tener qui la sua testa, ha però
proposto che fosse almeno tagliata la coda della norma costituzionale
appena richiamata, cioè le ultime sei parole.
Le tasse
Chi le paga, cioè
il cittadino che non vuole o non può eludere le tasse, si è
fatto di questo dovere, accettato o subito che sia, un'idea tutto sommato
moralistica; è indotto più a invocare l'uguaglianza di
andata (dobbiamo pagare tutti) che verificare la giustizia di ritorno
(se tutti pagassero, pagheremmo ciascuno di meno). E' l'antica richiesta
dei poveri di partire dal medesimo punto, senza gli handicap che la
vita, in ogni caso, riproporrà, pensando da sé a ritmare
la corsa dei concorrenti.
Insomma, a chi paga, basterebbe sapere, un bel giorno, che nessuno è
più in grado di gabbare il fisco; raggiunta questa consolazione,
allora, sì, comincerebbe a chiedersi, come si fa nei Paesi dove
la parità dei doveri è garantita, se non sia possibile
rivendicare qualche diritto. La polemica con il fisco, nelle nazioni
socialmente più evolute, riguarda infatti non l'evasione, come
da noi, ma il pagamento. Avreste mai pensato, d'altronde, che nel rapporto
" gettito fiscale-fornitura di servizi sociali ", gli Stati
Uniti sono di gran lunga lontani non soltanto dalle nazioni scandinave,
le più fiscali del mondo, ma anche da altri ,dodici paesi, fra
cui, nell'ordine, Francia, Inghilterra, Germania, Canada e Italia?
Si può obiettare che questi dati statistici riguardano realtà
sociali così diverse che non si possono trarre conclusioni né
incoraggianti né deludenti: come prescindere dalla constatazione
che, se pagassimo tutti le tasse, lo Stato assicurerebbe più
giustizia che assistenza? E che la prima, a conti fatti, ci costerebbe
molto meno della seconda? In un Paese come il nostro - dove l'evasione
fiscale ha assunto proporzioni tanto vistose, ed altrettanto vistoso
è il fenomeno dell'impunità - ogni confronto con gli altri
è in perdita. Come non trovare il bandolo, per esempio, di quel
groviglio d'omissioni, di reticenze, di omertà che hanno reso
possibile, e tuttora nascondono, la lista dei 500? Il cittadino, oggi,
dà al potere non più un generico mandato da esercitare
in nome di quella distante, onnipotente e misteriosa entità che
è l'amministrazione statale: al contrario, dà una "
delega a fare " e a far bene, secondo criteri garantiti dall'alto
ma controllati dal basso, sulla base di quella coscienza civile alla
quale - come diceva de Tocqueville - " ci si può legittimamente
appellare solo a patto di chiedere al popolo non ubbidienza ma condivisione,
non omaggio ma rispetto, non affidamento ma sorveglianza ".
Delitti d'onore
E' accaduto in un
paese di quattromila abitanti, a quaranta chilometri da Messina. Un
venditore ambulante, Nicola Trafirò, (cinquantottenne, senza
precedenti penali), ha sparato, lanciato bottiglie molotov e appiccato
incendi in un raid forsennato che, in pochi minuti, ha visto morire
tre persone: la moglie e i genitori del mancato sposo della figlia.
L'una, sospettata di tradimento con incerte motivazioni; gli altri,
colpevoli di non volere le nozze " riparatrici ".
Delitto d'onore, sosterrà la difesa. Uomo d'onore, ripeterà
negli androni la tetraggine morale che ancora ispira, qua e là,
i costumi del luogo; provocazione grave, concede anche oggi il Codice
Penale. Poi, un silenzio inquieto e, questo sì, assolutorio.
Per la faccia di tutti - assassino, vittime, testimoni - basterà
un marmista a stabilire che, dopotutto, non è successo niente
di innaturale.
Nei cimiteri di quella enorme fascia del mondo che è il "
Sud " corre, sulle epigrafi, una bugia ininterrotta: è l'elogio
tardivo - o nondimeno imbarazzato - di una donna uccisa per cause d'onore.
In queste tombe ambigue, sui volti indifesi delle loro abitatrici incastonati
nella pietra, sulle parole scritte con intenzioni di pietà, di
riparazione o di perdono, la civiltà d'oggi dovrebbe lungamente
arrossire. Questi delitti consumati in nome neppure dell'amore, ma dell'orgoglio
offeso, dell'autorità disconosciuta, della rispettabilità
sconvolta, sotterrano, con le loro vittime, un intero giudizio sulla
vita e sulla sua dignità, civile o sacra che la si voglia considerare.
Se il senso di colpa non continuasse a distendere questo velo di silenzi
che, complici le leggi, copre ancora centinaia di migliaia di croci,
la storia della debolezza umana, a duemila anni dall'ammonimento di
Cristo, non avrebbe più cave per le sue pietre. E se la legge
degli uomini avesse fatto la sua parte, chi ancora è pronto a
lapidare vedrebbe orrendamente contraddetto proprio nel gesto "
riparatore " il rifiuto stesso dell'offesa a sua volta patita.
" Chi non ha non è ", dice un proverbio per i traditi
dalla storia civile del nostro Sud. D'altronde, dove per millenni una
società di sudditi ha cercato invano di diventare una società
di cittadini, e dove la civiltà degli altri ha consumato tutti
i riti della sopraffazione, è " normale " che la tradizione
contrasti ancora le leggi e che la storia non abbia ancora prevalso
sui costumi. Chi è stato tenuto per millenni fuori del tempo
può giudicare la vendetta persino un valore, visto che le altre
norme sanciscono soltanto le verità eluse o conculcate.
Morire di eroina
E' sconfortante:
qualcuno ha detto che, se proprio vogliamo prendercela con la droga,
dobbiamo anche domandarci se la Fiat, costruendo automobili, non è
per ciò stesso la prima causa degli incidenti stradali. Parole,
testuali, di un sociologo. Le ho ascoltate alla radio. Morte per morte,
stabilirne l'origine è irrilevante; omologare, non a caso, è
verbo in gran voga. Lo stesso, birichinissimo personaggio ha aggiunto
che quello dell'eroina è un " falso problema ": in
realtà, si tratta di stabilire i " come " e i "
perché ". Sacrosanto: l'origine certo, è sempre a
monte. Ma se a valle si muore, il problema è ancora falso? L'intellettuale
in oggetto, alla ragionevole anche se un po' risaputa domanda "
la droga è o no una fuga dalla vita? ", ha risposto: "
Fuga? Ma neanche per sogno. E' esattamente il contrario: è lo
strumento per mobilitare, al massimo grado, le capacità critiche
". Come dire che se non prendi un po' di eroina il sistema ti concia
per le feste anche quando discuti col portiere.
" E' una protesta autolesionista? ", ha azzardato l'intervistatore
provocando lo scienziato al di là di ogni prudenza.
" Autolesionismo? ", è stata la replica; " ma
quale autolesionismo? Lei vorrà scherzare. L'eroina è
una delle tante risposte alle leggi del mercato ". " Vuoi
dire che ci si droga solo perché si spaccia la droga? ",
ha aggiunto il radiocronista per venire incontro, in qualche modo, anche
alle istanze del sociologo.
" Voglio dire ", ha risposto lui, " che porre la questione
in termini emotivi, traumatizzanti, è fuorviante: l'eroina, a
piccole dosi, non ammazza nessuno ".
Ho spento la radio. E mi sono messo a pensare ai tanti modi di ingannare
genericamente il prossimo e, in particolare, i deboli; a quanti danni,
più o meno innocentemente, hanno provocato, anche in questo ambito,
gli psicologismi, gli ideologismi, i moralismi di ogni segno. E mi sono
tornate alla mente le parole gravi del prof. Alberto Maddeddu: "
Non bastano più le nostre idee, occorrono le strutture. Chi si
droga non ha soltanto un " libretto rosso " sotto il braccio,
ha un corpo malato. E' necessario curarlo. Quanto alle " idee ",
la soluzione solitaria non è mai politica; bisogna intendersi
anche su questo ". Riflusso? No, probità intellettuale,
prima ancora che impegno sociale e inquietudine morale.
Del resto, va detto che bucarsi non significa solo morire di eroina,
più o meno tagliata col borotalco, con la stricnina e persino
con la calce: può significare anche morire, per esempio, di tetano
o di epatite virale. Il 60% delle morti per " buco " è
un evento così poco drammatico, di per sé, da sfiorare
la banalità. E questa non è una tragedia? Certo, dietro
tale " interiorizzazione della violenza " c'è una violenza
visibile, esplicita: non solo la vita, cioè, nelle sue qualità
esistenziali, ma con la quantità dei suoi guasti istituzionali.
Questa constatazione potrà mai indurci a credere che ci si debba
rassegnare, per mero automatismo ideologico, al " processo vendicativo
", e non si debba invece chiarire che la protesta, così
facendo, viene esercitata solo contro se stessi, come se il problema
andasse affrontato con un rito di negazione simbolica, per giunta individuale,
e rilevante solo ideologicamente?
Troppa confusione, in nome volta a volta del privato e del sociale,
del personale e del politico. C'è un dato: la tossicomania è
in continuo aumento. Non la fermeremo con le norme dettate dai Codici,
qualunque essi siano. L'affronteremo, invece, se sapremo dirci con franchezza
che ciò di cui si muore è il contrario di ciò da
cui prende forma l'unica esperienza vivibile, cioè la vita. Per
" rifar nuove, anche noi, tutte le cose " non servirà
dire che, dopo tutto, si muore anche per colpa della Fiat: da fermi,
con una siringa in mano, si conta meno di un operaio che, con un trapano,
buca le carrozzerie di Agnelli. Sarà questione di riflusso, ma
questa dei drogati è una società di vittime, non di martiri.
Perciò vanno aiutati. Commemorare i vinti è spesso l'alibi
dei vincitori, a prescindere dalle buone ragioni degli uni e degli altri.
Tra gli uni e gli altri c'è di mezzo, fondamentalmente, non l'ideologia,
ma l'esistenza.
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