A prima vista
così lontane, le popolazioni delle due regioni si scoprono eredi
di una comune nazione, apparentate fra di loro etnicamente e culturalmente,
molto più di quanto non lo siano con tutti i popoli che geograficamente
le dividono.
Verso la fine dell'Età
del Bronzo, tutta l'Europa appare percorsa da fremiti nuovi. Migrazioni,
invasioni, guerre, scambi commerciali fra località distanti tra
loro migliaia di chilometri.
Tutto questo avviene in sincronia con i grandi rivolgimenti che nello
stesso periodo interessano l'Oriente: offensiva dei " popoli del
mare " contro l'Egitto, irruzione dei Filistei in Palestina, caduta
dell'Impero Ittita, distruzione di Troia, crollo della potenza micenea.
Quale la causa di tutto ciò? Con ogni probabilità si è
trattato delle conseguenze della scoperta del ferro e della sua diffusione
ad opera di quelle popolazioni che, provenienti da quel calderone di
popoli che da sempre sono state le grandi pianure Ira il Mar Nero e
il Mar Caspio, diffusero, con le loro spade ed i loro attrezzi di ferro,
civiltà e lingua in tutta l'Europa.
Con ciò non si vuole però significare che la penetrazione
di queste popolazioni, che chiamiamo indoeuropee, si sia svolta d'un
tratto, come un'orda che tutto travolge. Anzi, con ogni probabilità,
si è trattato di un movimento lento e continuo, durato secoli,
di piccole tribù che da una comune origine andavano via via differenziandosi.
Civiltà, costumi e linguaggio si modificavano a contatto con
altri popoli, per poi riunirsi di nuovo e dividersi ancora. Si era sempre
in cerca di nuovi pascoli, di nuove terre, di nuovo spazio.
Tutti questi fermenti hanno portato nel corso dei secoli alla formazione,
in Italia, di una popolazione estremamente mista, differenziata, composita,
e per questo estremamente vitale.
Così ad uno strato neolitico, mediterraneo, matriarcale, di raccoglitori
ed agricoltori, legato all'antichissimo culto della Madre Terra, che
in essa inumava i propri morti, si sovrappongono gradualmente piccole
tribù di nomadi, allevatori, domatori di cavalli, portatori di
una tradizione patriarcale, guerriera, commerciale.
Diversamente dai primi, questi popoli bruciano i loro morti e li seppelliscono
poi in urne fittili, in vaste necropoli, che testimoniano il loro passaggio
attraverso l'Europa.
Queste popolazioni sono inferiori per civiltà e cultura alle
popolazioni stanziali, ma hanno nei loro confronti un vantaggio, una
forza sociale che manca agli indigeni: sono organizzati in tribù
piccole ma solide che ovunque arrivano mantengono la loro compattezza,
costituendo un polo di attrazione per gli indigeni dispersi in piccoli
gruppi a livello familiare.
Si ha così l'affermazione della nuova tradizione linguistica
che, pur accogliendo alcuni termini locali, sovrasta in modo altrimenti
inspiegabile i linguaggi autoctoni.
All'inizio dell'ultimo millennio a.C. comincia a giungere in Italia
una nuova serie di tribù indoeuropee: gli Illiri. Secondo le
risultanze dei più recenti studi, la nozione di " Illiri
" va definita come quei popoli indoeuropei che più a lungo
rimasero nelle sedi originarie dopo la diaspora dei Celti verso occidente,
dei Balti e dei Germani verso nord, degli Slavi verso est.
Le testimonianze archeologiche e linguistiche confermano in larga misura
questi nuovi arrivi.
In Puglia, il " campo d'urne di Timmurari ", a cui corrispondono
nel Veneto quelli di Fontanelle e di Este, sono i resti più evidenti.
Il complemento filologico dei reperti archeologici si trova, sulle coste
orientali d'Italia, nelle tracce di dialetti illirici, consistenti per
lo più in nomi di località, tribù, fiumi e monti
che in gran numero, specie in Puglia, si possono far risalire a tale
fonte.
Fra questi popoli due si distinguono per una indipendenza culturale
e politica che conservarono fino al loro inserimento nell'orbita romana:
Veneti e Salentini.
Nell'Adriatico settentrionale, troviamo testimonianze dell'arrivo dei
Veneti che, secondo le fonti antiche erano un popolo illirico che avrebbe
occupato le sue sedi storiche, cacciandone gli Euganei.
Stabilitosi nella parte orientale dell'arco alpino e protetto verso
Sud e verso Ovest dalle grandi fiumare del basso Po e del basso Adige,
poté conservare la sua indipendenza e le sue tradizioni.
Attraverso l'Adriatico meridionale giunsero invece altre tribù
illiriche: Dauni e Japigi, cui corrisponde approssimativamente il territorio
di Foggia; Peucezi in quello di Bari; e Messapi in quello di Lecce.
Narra Dionigi d'Alicarnasso che " diciassette generazioni prima
della guerra di Troia, quanti fra gli Arcadi che possedevano meno terra
del bisogno, attraversarono lo Jonio sotto la guida di Enotrio e di
suo fratello Peucezio di cui presero il nome ". Dionigi li fa Greci,
ma l'esistenza di una tribù di Japigi, attestata in Slovenia,
e le caratteristiche linguistiche ci permettono di correggere l'affermazione
dello storico che riportava fatti leggendari, tramandati oralmente e
successi secoli prima di lui.
Di questi popoli solo i Messapi, arroccati nell'entroterra della Penisola
Salentina, potranno resistere alle nuove ondate migratorie che giungeranno
in Italia in tempi già storici. Così i Greci, sbarcati
su alcuni punti della costa pugliese, resteranno confinati in un breve
retroterra e influiranno solo marginalmente, nonostante la prorompente
potenza della loro civiltà, sulla civiltà messapica.
Gli stessi Romani, pur completando la conquista politica della regione,
ne dovettero rispettare l'autonomia economica. Nessuna colonia romana
fu infatti dedotta nel Salento.
Questo sorprende tanto più in quanto, sul piano culturale, il
Salento era così aperto a tutti gli orizzonti che il salentino
Ennio poté dire di avere tre " cuori ", corrispondenti
alle tre tradizioni, messapica, greca e romana, che avevano cooperato
alla sua formazione.
L'indipendenza linguistica del Salento è fondamentalmente dovuta
al fatto che sul suo dialetto non giunse l'influenza della lingua osca
che, fondendosi poi con il latino, diede origine ai dialetti latino-volgari
dell'Italia Meridionale.
Tali dialetti sono basati su nove vocali mentre nel Salento sono sette,
mancando la distinzione fra breve e lunga della I e della U; inoltre
il Salentino pronuncia chiaramente le vocali finali.
La lingua messapica è attestata da più di trecento iscrizioni
che vanno dal VI al I secolo a.C. e, non essendosi mescolata con il
latino, rappresenta il documento più importante della tradizione
illirica indoeuropea. Foneticamente il carattere più importante
è dato dal passaggio, all'interno della parola, delle consonanti
sonore aspirate e sonore semplici, carattere questo che ci riallaccia
alla lingua venetica.
Le parentele della lingua venetica sono piuttosto controverse, ma certamente
la posizione geografica l'ha maggiormente esposta alle contaminazioni
con i dialetti dei popoli che si sono succeduti nel Veneto.
Le iscrizioni, rinvenute particolarmente nella zona di Este, confermano
comunque l'indipendenza del Venetico.
Esso ha avuto anzi qualche parte nella formazione del Latino, in conseguenza
di una discesa verso il Lazio di correnti linguistiche e culturali,
come si deduce da alcune soluzioni fonetiche latine affini al Venetico
e opposte a quelle umbro-sabelliche.
Così Veneti e Salentini, a prima vista così lontani, si
scoprono invece eredi di una comune nazione, apparentati Ira loro etnicamente
e culturalmente molto più di quanto non lo siano con tutti i
popoli che geograficamente li dividono.
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