Parlando del "
linguaggio delle pietre ", Furio Jesi afferma che la Puglia è
la regione italiana più ricca di monumenti megalitici, concentrati
in modo particolare nella Penisola Salentina: menhir (che portano localmente
la denominazione di " pietrefitte "), dolmen, tombe a corridoio,
specchie (quest'ultima denominazione, anch'essa locale, indica cumuli
di pietre che sono, secondo Jesi, Ira i monumenti megalitici più
enigmatici). I menhir, o pietrefitte: " si tratta di numerosissimi
monoliti, poco più di cento in base all'inventario redatto da
G. Palumbo (1955), che però menziona alcuni monumenti già
perduti negli anni '50, e in certi casi in epoca più remota.
Le pietrefitte salentine sono per lo più prismi di pietra molto
sottili e di varia altezza (fino a quattro metri e più), la cui
esilità indurrebbe a pensare a prototipi bretoni (Bernardini,
"Guida alle civiltà megalitiche "), sebbene non vi
stano elementi per fondare storicamente un collegamento del genere,
e si pensi di solito al megalitismo pugliese come a un fenomeno influenzato
direttamente da culture megalitiche mediterranee ".
L'itinerario delle pietrefitte salentine fu tracciato da Giuseppe Palumbo
sulla " Rivista di Scienze Preistoriche ". Un itinerario che
ci riporta indietro di decine di secoli, e che ci illustra eloquentemente
la serie di distruzioni e di danni subita da questo tipo di monumenti
megalitici. Sono quarantasette i menhir che - interi, o in tronconi
di maggiore o minore altezza - possiamo ancora osservare in varie località
del Salento: fra questi, due a Campi Salentina, altrettanti a Lecce,
a Galugnano, a Zollino, a Carpignano Salentino, a Cursi; tre a Melpignano,
a Maglie, a Muro Leccese; otto a Giurdignano. E sono anche quarantasette
le pietrefitte scomparse, distrutte o riutilizzate in costruzioni: se
ne ha notizia di due a Lecce, a Merine, a Sternatia, a Zollino, a Carpignano
Salentino, a Cursi, a Maglie, a Ruffano, a Gagliano del Capo; quattro
a Martano, e altrettanti a Muro Leccese. Una vera e propria documentazione
di una particolare civiltà neolitica salentina letteralmente
dimezzata. Dei menhir esistenti, accuratamente descritti dal Palumbo
nell'itinerario di cui dicevamo sopra si ha buona cura ai nostri giorni.
Ne descriviamo alcuni. Pietrafitta " Staurotomèa "
o " Croce grande ", a Carpignano Salentino: oggi è
un frammento di un metro e 60 centimetri; originariamente era alta circa
quattro metri: ad est del paese, dal quale dista circa un chilometro;
facce di metri 0,27 x 0,56. Scrive Jesi che vi si collegano due leggende,
" in entrambe le quali affiorano i motivi del ' tesoro ' e della
'pietra oscillante (peculiari di regioni megalitiche non solo italiane);
nella seconda leggenda compare anche il tema del sacrificio umano, esso
pure legato alla memoria dei megaliti - ma in particolare del dolmen
('altari nelle tradizioni popolari ".

Nel 1880, prosegue Jesi, il De Giorgi raccolse la leggenda secondo la
quale " due sorelle, una nubile e l'altra maritata, sarebbero venute
un giorno a riposarsi a piè di questa colonna; ma ( ... ) ad
un certo momento essa sarebbe caduta di schianto, schiacciando la maritata,
mentre l'altra donna avrebbe trovato sotto la pietra le molte ricchezze
nascoste ". Poco più di mezzo secolo dopo, nel 1940-41,
dei contadini, convinti di scoprire il tesoro di cui si favoleggiava,
abbatterono e spezzarono il megalite. Intorno a quegli stessi anni,
Giuseppe Palumbo registrò un'altra leggenda, secondo la quale
" il monolito sarebbe stato piantato sopra un preziosissimo tesoro
costituito da monete d'oro, dì argento e da oggetti di alto valore.
Per venire in possesso di tali ricchezze, passate in potere del demonio,
sarebbe stato necessario operare nel seguente modo. Due innocenti bambini,
raggiungendo nel cuore della notte il luogo solitario, avrebbero dovuto
mettersi uno da una parte e l'altro dall'altra delle due facce larghe
del rustico obelisco. Il blocco si sarebbe subito abbattuto al suolo
schiacciando uno dei piccoli. Nella stessa notte il bimbo superstite
avrebbe potuto trovare e far propria l' ' acchiatura' ossia il ' ritrovamento
'. Si vuole dal volgo che una certa pendenza la quale era visibile alla
stele fosse stata causata dal fatto che in un tentativo operato per
venire in possesso del tesoro, mentre la pietra cominciava già
a muoversi, quello dei ragazzi che stava per essere sacrificato, si
sarebbe dato a precipitosa fuga verso il paese, per la qual cosa la
colonna si sarebbe fermata dal continuare a cadere, rimanendo invece
pendula ".
Leggende del genere, sostiene Jesi, non sono rare nella Penisola Salentina,
tant'è che nello stesso paese si tramanda la storia di tesori
sepolti in tempi lontani alla base di un altro menhir, situato presso
la stradale Martano-Serrano, e abbattuto, nella identica epoca (1941),
sempre per il possesso delle presunte ricchezze sepolte, e poi nuovamente
eretto dalla soprintendenza nel 1953. " Il carattere (ormai) diabolico
dei tesori che si troverebbero sotto le pietrefitte - e almeno dei loro
guardiani soprannaturali - è sottolineato da varie tradizioni,
secondo le quali ( ... ) i monumenti megalitici in genere, pietrefitte,
dolmen, specchie, sono nidi di tarantole pronte a mordere chi vi si
avvicini. Le tarantole sono state poste a custodia dei monumenti dalle
antiche popolazioni che li eressero (o dai loro " spiriti "
protettori), perché gli antichi morti vogliono ' vendicarsi '
sui vivi (...). Il tesoro celato sotto i megaliti è 'del diavolo
', il quale dunque esige che se ne possa impadronire solo chi gli si
dimostra devoto con riti cruenti (sacrificio del bambino) o blasfemi
(le ostie date da mangiare alle capre). Si aggiunga che il diavolo garantisce
la stabilità delle pietrefitte (come le tarantole mettono in
pericolo chi cerchi di avvicinarsi) ".
Pietrafitta " Sant'Anna ", a Zollino. Vicino alla strada Soleto-Martano,
prende il nome da una Chiesa seicentesca poco distante. Alta tre metri
e 10 centimetri, con pendenza a settentrione. Vi figurano scavati segni
di croce. La sua importanza, sottolinea lesi, è collegata a una
leggenda. Si racconta che in questa zona, " in tempi antichissimi
", fosse stanziata una potente tribù: uno dei capi, quando
morì, fu sepolto là con moltissimi tesori. Sopra la sua
tomba fu innalzato il menhir. Secondo una testimonianza di Giuseppe
Palumbo, questa è l'unica tradizione locale che, nel Salento,
colleghi le pietrefitte a rituali funerari.
Sempre a Zollino, alta oltre quattro metri, la pietrafitta " della
Stazione Ferroviaria ", che, è riferito, " ad una certa
altezza presenta un piccolo incavo, nel quale, come narra la tradizione,
in tempi remoti usavasi collocare una lampada ad olio per comodo dei
viandanti che transitavano la località dirigendosi verso Lecce
". Scomparsa una pietrafitta sulla Sternatia-Zollino, vicina alla
periferia sternatiese: in cima, come ricorda il De Giorgi, aveva una
croce, anch'essa di pietra. Era alta circa tre metri. Altro menhir scomparso
in quell'area, quello della località " Pozzelli ",
fotografato nel 1909 dal Palumbo.
Pietrafitta " Aia della Corte ", a circa -duecento metri a
occidente dell'abitato di Lequile. Alta due metri e 80 centimetri, leggermente
inclinata, ancorata alla base da una pietra quadrata. Ricordiamo questo
menhir, dice Jesi, " per il suo inserimento perfettamente organico
nelle consuetudini e nella vita quotidiana degli abitanti moderni del
luogo. Numerose altre pietrefitte recano croci incise o croci di pietra
alla sommità: l'acquisizione del monumento megalitico da parte
del nuovo gruppo è rimasta nell'ambito della religione ( ...
). Qui, invece, a Lequile, la pietrafitta Menhir " San Vincenzo
" è inserita nella vita del gruppo in modo assolutamente
profano ". Presenta, infatti, come già notò il Palumbo,
lungo gli spigoli, numerosi intacchi incisi dai ragazzi per salire fin
sulla cima; altri intacchi, più profondi, furono praticati dai
contadini per tenervi legati i quadrupedi " durante le soste dal
lavoro di trebbiatura sull'aia immediata ", dalla quale il menhir
ha preso il nome.
Pietrafitta " Pietragrossa ", troncone di menhir, a circa
un chilometro da Novoli: le due facce più larghe presentano verso
l'alto un foro che le attraversa. La contrada nella quale si innalza
questo menhir si chiama, appunto, Pietragrossa (per corruzione: "
Petrarossa "). Secondo il nostro autore, " la tradizione locale
conserva un elemento significativo di elaborazioni dell'onomastica dei
megaliti o dei luoghi in cui essi sorgono: si dice, infatti, che 'Pietragrossa'
è un'alterazione di ' Pietraglossa' cioè ' pietralingua
', (dall'etimologia greca di ' ... glossa '), siccome il troncone della
pietrafitta, o meglio, la pietrafitta nella sua interezza originaria
aveva l'aspetto di una ' lingua '. Le spiegazioni locali moderne vogliono,
appunto, che la forma del megalite, alto parallelepipedo con due larghe
facce opposte ed esiguo spessore, facesse pensare a una lingua. Non
mancano però, nelle regioni megalitiche della Francia e delle
Isole Britanniche, tradizioni popolari circa i menhir che e parlano
'... ".
Il menhir novolese è anche collegato a un'altra tradizione locale,
anche questa tutt'altro che rara: si dice che celi in profondità
un tesoro di metalli preziosi; e anche che indichi il luogo in cui sono
sepolti.
Pietrefitte di Giurdignano. Menhir della " Madonna di Costantinopoli
", dalla Chiesetta dedicata a _questa Madonna, che sorge a pochissimi
metri dalla pietrafitta: intaccata agli spigoli, con una piccola croce
sulla faccia rivolta a settentrione. Sormontata da una " cima "
di circa nove centimetri, forse base di una croce lapidea issata in
epoca cristiana. Alta tre metri, inclinata di un paio di gradi.
Pietrafitta della Fàusa, prende il nome dalla contrada nella
quale sorge e da una spelonca esistente nelle vicinanze. Alta tre metri,
con spigoli arrotondati per cause naturali.
Pietrafitta San Vincenzo, piantata al suolo e circondata alla base da
pietre informi a cupola o a piramide, per un diametro di due metri e
per un'altezza di un metro e mezzo. Alta tre metri e 20 centimetri,
con spigoli arrotondati, ha una fascia di ferro alla sommità,
perchè il calcare si era probabilmente rotto.
Pietrafitta Vicinanza I, dal nome di un antico casale, disabitato da
secoli. Alta tre metri e 13 centimetri, con una croce rozzamente incisa
sulla faccia rivolta ad oriente.
Pietrafitta Vicinanza II, spezzatasi in due tronchi nel 1930, ricomposta
ventitré anni più tardi. Alta circa quattro metri, con
intaccature nella parte alta, e due croci incise sulla faccia rivolta
al paese. Alla sommità, coronamento e rettangolo rastremato.
Pietrafitta di San Paolo, a poca distanza dal menhir Vicinanza I, e
da quello di San Vincenzo. Prende il Menhir " Trice " nome
da una non lontana spelonca di modeste dimensioni. Alta intorno a un
metro e mezzo, ha una palese inclinazione verso sud.
Piettrafitta di Monte Tòngolo, troncone di menhir, dal nome di
un vicino oliveto. Spigoli smussati, una croce incisa sulla faccia rivolta
a settentrione, difesa alla base da un masso di grosse dimensioni e
di forma pressoché circolare. Misura 91 centimetri.
Scomparsa, a Giurdignano, una settima pietrafitta di cui il Palumbo
aveva dato notizia: il menhir della Pastorizza.
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