§ Ritorno all'agricoltura

Contraddizioni del Sud




Dario Giustizieri



La realtà del Mezzogiorno si conferma, nel contesto della crisi economica che attraversa il Paese, come il punto più debole del sistema, come il peso più incidente sulla ripresa del processo di sviluppo. I sintomi di ripresa che, anche se lievi, è dato in generale di riscontrare, sono infatti appannati dalla preoccupazione per ciò che sta avvenendo nel Sud.
Nelle regioni meridionali si concentra il grosso delle componenti negative che trattengono in basso l'andamento dell'evoluzione della crisi e che ritardano in modo particolare il ritmo di superamento dell'arco più depresso e stagnante della curva congiunturale. La disoccupazione in crescita è dovuta soprattutto al blocco del mercato del lavoro nell'area meridionale; le liste per la disoccupazione giovanile al Sud sono così lunghe che, in alcuni punti nodali, si ha la sensazione che la situazione economica finisca col bruciare un'intera leva del fisiologico ricambio del mercato del lavoro.
Si va facendo strada, in ultima analisi, e da più parti, la convinzione che se non si sblocca il problema della ripresa del Mezzogiorno, potrà essere vanificato quanto si è fatto nel Paese, in particolare negli ultimi mesi, per venir fuori dalla crisi. Allora, è essenziale volgere il dibattito alla ricerca dei metodi per una urgente ripresa del Sud. E ancora una volta la ricerca del " come " è stato scritto rischia di riproporre i termini distorti di alternative settoriali, o peggio ancora, il rischio della ricerca di una ricetta, che venga a cancellare di colpo problemi annosi e irrisolti: con il risultato di restare - come la storia insegna - al punto di partenza.
Si sta riaccendendo violenta, infatti, la polemica sull'industrializzazione, riemergono le frustrazioni di chi aveva creduto nella fase delle infrastrutture come nel primo ciclo per un processo autonomo di sviluppo, in alcuni casi agisce in modo scomposto il " rivendicazionismo " meridionale a proposte di investimento nel turismo, in verità spesso presentate in termini miracolistici, mentre l'atavica diffidenza del Sud consiglia di respingere come diversivi i richiami al ruolo dell'agricoltura e delle attività ad essa connesse.
Questo, invece, è il momento nel quale è necessario superare ogni posizione preconcetta. E' un momento nel quale la classe dirigente meridionale deve comprendere che, se uno sforzo solidale va richiesto all'intero Paese perché si realizzino nuovi investimenti nel Mezzogiorno, è essenziale puntare innanzitutto sulla massima valorizzazione delle risorse interne. Sono infatti da respingere le fallaci alternative settoriali di tipo esclusivo, per orientare lo sforzo verso uno sviluppo equilibrato che si realizza proprio puntando, attraverso un rigoroso processo di piano, al potenziamento adeguato di ciascun settore produttivo, sulla base delle suscettività peculiari dentro l'area meridionale.
In questo contesto, un'attenzione particolare merita nel Sud il problema dello sviluppo dell'agricoltura, per la massima valorizzazione delle risorse e nella consapevolezza che una programmazione complessiva del rilancio economico è tanto più urgente quanto più profonde si mostrano le ragioni della crisi in atto. E' in quest'ottica che già altre volte si è avuto modo di denunciare per il settore agricolo la parzialità degli interventi ed i rischi di mitizzazione, mentre sempre più chiaramente si evidenzia che quello dello sviluppo agricolo è un problema reale e imprescindibile per il riequilibrio della stessa struttura economica italiana.
E' questa contraddizione uno degli elementi più tipici della situazione di ristagno dello sviluppo anche per quanto concerne il settore primario: si assiste infatti, da un lato, all'esplodere oggettivo del problema agricolo nella sua globalità, che ha i fenomeni più evidenti nella fuga della popolazione dalle campagne, nell'abbandono o nella sotto-utilizzazione di significative quote delle risorse naturali ed agricole, e che si traduce, in fin dei conti, nella rapida decadenza del mondo rurale e nell'emarginazione dell'agricoltura dal processo di sviluppo; dall'altro lato, tuttavia, si è andato sommando alla strutturale rigidità della domanda alimentare un sensibile miglioramento delle abitudini alimentari verso diete più vicine ai livelli standard dei Paesi industriali dell'Occidente. Mutamento che, nel permanere di un'elevata incidenza della componente agricolo-alimentare nella formazione della domanda globale interna, specialmente nel Mezzogiorno, ha prodotto le note conseguenze negative a livello nazionale sulla bilancia commerciale con l'estero.
Da questo punto di vista, quindi, agricoltura e Sud costituiscono le facce della stessa medaglia della crisi che scuote il sistema economico: il che comporta che una via di ripresa per le regioni meridionali non può non attraversare la struttura del settore primario, anche incidendo profondamente sui tradizionali meccanismi di intervento, per ridisegnarne un ruolo attivo e non marginale. Ora, occorre mettere in evidenza il fatto che l'agricoltura del Nord, quella della pianura padana in particolare, ha gli anni contati: le produzioni intensive, infatti, vanto della scienza moderna, hanno, sì, consentito rese molte volte superiori a quelle dell'agricoltura estensiva, ma non hanno tenuto conto di una cosa: che il nostro è un Paese stretto, che non ha grandi disponibilità di territorio pianeggiante. Dunque, si sta verificando questo: che le produzioni si ottengono a forza di concimi (un chilogrammo nel Mezzogiorno contro cinque chilogrammi nel Nord), perché non si è concessa ai terreni una moratoria, non li si è lasciati riposare, non li si è fatti " riprendere ". Sono terre stanche, è un territorio di cui si è abusato al limite della tolleranza, e che rischia di preannunciare il deserto. E' solo di qualche settimana fa il grido d'allarme: è necessario recuperare all'agricoltura italiana per lo meno quattrocentomila ettari di nuovi terreni, duecentomila dei quali da irrigare immediatamente, altrimenti (come dimostrano le crisi cerealicola e quella zootecnica) dovremo importare di più, e di conseguenza spendere di più. Dove andare a trovare tanta terra? E' tragico il gioco di chi vuol rivolgere l'attenzione alle cosiddette " terre incolte o abbandonate ": abbandonate sono solo le terre degli assegnatari di una " riforma agraria " che fu fallimentare, e che come tale si riconosceva ancor prima di attuarla; incolte sono le terre montane, quelle che non si è voluto rimboschire. Inutile abbandonarsi all'illusione di " reperire " grandi superfici di terre, quando si sa che la campagna italiana è coltivata -forse - come si gioca al lotto, per via della sua eccessiva frantumazione, ma " è coltivata ", è sotto il dominio dell'uomo: dire il contrario, fatte le debite, ma non eccessive eccezioni, è solo far demagogia.
Il problema che assomma tutti gli aspetti negativi dell'agricoltura, dunque, è un altro: e consiste nel riaccorpamento, nella ricostituzione delle grandi superfici aziendali, le sole in grado di produrre e di vendere, le sole che escano dal giro della economia di sussistenza familiare; consiste nell'orientare le produzioni, eliminando le contraddizioni che fino a questo momento sono state un giuoco al massacro (premi per chi svelle vigne, premi per chi pianta vigne; per chi abbatte capi di bestiame, e per chi alleva bestiame; e via dicendo: con gli olivi, con la frutta, col tabacco: e chi ci capisce più niente?); consiste nel far tornare la gente alla terra, nel rendere remunerativo il lavoro, nello specializzare le colture, nel mettere accanto alle campagne le industrie di conservazione e di trasformazione, nel battere la concorrenza e nell'aprirsi e consolidare mercati internazionali di consumo, nel diffondere i rimboschimenti da reddito, nel creare ampie riserve zootecniche, annientando le mafie degli importatori di carne che hanno interessi opposti, nel portare dentro ai punti nevralgici delle produzioni tipiche i centri di sperimentazione che ora sono sparsi e quasi dispersi, e comunque lontani dai luoghi naturali. Una programmazione in agricoltura, come si vede, è una specie di rivoluzione copernicana. E possono spaventare, semmai, i tempi che una rivoluzione del genere richiede, non il resto, investimenti compresi: perché i conti torneranno, e avremo bilanciato i nostri pagamenti con l'estero, e avremo creato occupazione " qualificata ", è bene dirlo, perché quella generica sta per sparire dalla circolazione, emigrata, passata al terziario, gonfiandolo a dismisura. Al di fuori di questa rigorosa, ma anche coraggiosa e autentica " riforma ", si lavora soltanto ad un'opera senza nome.

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