§ Da Sud a Sud

Banditi perché




Luigi Belli



In una notte dell'ottobre 1815, scrive Mario Monti nella sua storia dei briganti italiani, una folta comitiva di uomini a cavallo si fermò davanti all'edificio d'antica costruzione che dominava le case di Martano. Era tardi, e il vecchio servitore aveva, come di consueto, chiuso a chiavistello le grandi porte che si aprivano nei muri del cortile da quando il fosso dell'antico castello era stato riempito e i bastioni demoliti. La Signora, come veniva chiamata nel circondario la ricca padrona di quella casa e delle terre vicine, si preparava ad andare a letto, quando si udì lo scalpiccio dei cavalli e una banda di uomini si inoltrò nella corte. Alcuni rimasero a cavallo, altri smontarono e seguirono il loro capo, che sembrava conoscere quella casa. Era costui di media statura, dal viso bislungo, dominato da un lungo naso carnoso. Pallido, " con una cicatrice sul sopracciglio sinistro e un'altra sul labbro superiore destro ", si avviò, senza una parola, su per lo scalone. Ucciso il vecchio servitore; altri tre servi in agonia; la fantesca con un coltello piantato nella gola. Il capo entrò nella stanza della Signora: chiese dove fossero il denaro e i gioielli: si appropriò trentamila ducati, poi perle, brillanti, rubini, anelli rilucenti e bracciali d'oro che avevano adornato molte e nobili donne di secoli passati. Poi disse:
- Cane morto non abbaia.
La Signora fu uccisa. Il Palazzo dato alle fiamme. Di questo delitto, racconta Monti, si parlava ancora quando il generale Church nel dicembre del 1817 entrò con le sue truppe in Terra d'Otranto, a caccia di fuorbanditi. E la Terra d'Otranto era la più lontana delle Provincie sotto il suo comando. Gli informatori del generale inglese al servizio dei Borboni spiegarono chi erano i malandrini e il loro capo. " A quel tempo; la turpe gloria di Ciro Annicchiarico era al suo apice. Il fatto di Martano, l'abilità nello spacciare tante vittime in una sola notte, non erano che due gemme nella collana di infamie commesse dal fuorbandito ": Ciro Annicchiarico era talmente circondato dalla fama di stregone, che il popolo non osava nemmeno maledirlo ad alta voce per timore che gli spiriti a lui familiari gli ripetessero quanto era stato detto.
Ciro Annicchiarico, don Ciro, l'abate maledetto, autore di imprese tenebrose, di vendette settarie. La gente ricordava l'orrenda fine di Lorenzo Magli, di Francavilla, colpevole di spionaggio, che don Ciro aveva trascinato nei campi e dato in pasto ai cani e raccontava del figlio del Duca di Taurisano, assassinato a Maglie e sospeso da morto alla porta di casa del padre; e ricordava che don Ciro e suo fratello, Stizza, che avevano portato sulla piazza di un paese vicino Angela Greco, dopo avere abusato di lei sotto gli occhi del marito: e l'avevano legata, nuda, a un muro, con gli occhi bendati.
Catturato, dopo che per anni aveva terrorizzato la Terra d'Otranto, fu fucilato dai soldati di Church: " Quando cadde a terra e il frastuono morì tra le case (di Francavilla), una figura nera si staccò da un'androne dove si riparava e s'avanzò. Chinandosi sul cadavere ancora caldo, gli recise la testa. Sarebbe stata esposta in un'apposita gabbia metallica per due anni nella pubblica piazza del paese del brigante ad ammonire e a scoraggiare quanti avessero pensato di seguire il suo esempio ".
Con quella di Annicchiarico, un'altra banda ferocissima scorreva per l'oriente del Sud, quella dei Vardarelli, " la più famosa e la più temuta a quel tempo in tutto il Regno ". Ne facevano parte tre fratelli, Gaetano, Geremia e Giovanni Meomartino, detti Vardarelli, che avevano passato ai seguaci, temibili capi briganti in Puglia e in Molise, come Bartolomeo Minotti, o Giuseppe Primerano, il loro soprannome, tolto dalla professione della famiglia, da anni dedita a fabbricare selle, cioè " varde ", in vernacolo. Avevano stabilito il loro quartier generale nella Vallata del Fortore, densa di boscaglie e scavata di dirupi ma, montati sui migliori cavalli, scelti nei pascoli del Tavoliere, si spostavano come lampi nelle Provincie vicine di Campobasso, Benevento, Potenza, Bari e Lecce. Dappertutto erano ospitati dai padroni delle masserie, timorosi delle loro terribili rappresaglie imponevano taglie, balzelli rapinavano i procaccia che portavano alla capitale i profitti delle tasse; distribuivano migliaia di ducati ai contadini più miseri, che in cambio li informavano dei movimenti delle truppe e offrivano loro rifugi sicuri. Morirono in un'imboscata tesa loro a Ururi.
Dal Salento alla Sardegna. E' stato scritto che la mitizzazione letteraria e scenica del delitto è un vecchio male, non solo italiano. Perciò in Sardegna le uccisioni, i sequestri di persona, le rapine aggravate, le evasioni, spesso costituiscono la materia prima di una sinistra epopea.
La criminalità tradizionale, figlia della società pastorale, sopravvive in quasi tutte le sue manifestazioni tipiche. Essa prorompe dall'economia d'ovile. Si fonda sui reati collegati al possesso e alla difesa del bestiame: abigeato, sconfinamento, sgarrettamento, sfruttamento abusivo dei pascoli, macellazione clandestina, vendetta. Ha una fisionomia precisa, origini storiche e psicologia caratteristiche. La pastorizia rappresenta ancora uno dei cardini dell'economia sarda. Finché esisterà una pecora si rinnoverà il tentativo di appropriazione: l'isolamento dell'uomo dal mondo delle comunicazioni civili incoraggerà l'arretratezza del costume in un gioco tragicamente anacronistico.
Le nuove fonti di reddito, il falso splendore dei consumi, hanno prodotto la nuova criminalità, in parte o del tutto estranea all'antica vena maligna. Come la società pastorale ha generato e tiene in vita una delinquenza primitiva e rudimentale, così la civiltà delle macchine esprime e determina la formazione di un banditismo in grado di approfittarne in schemi moderni. La speculazione sull'uomo ha sostituito la speculazione sull'animale. Spesso accade che la criminalità di. città si serva della criminalità di campagna. Ma sono alleanze occasionali. A differenza del pastore-bandito, il ricattatore o il sequestratore opera su un terreno che esige organizzazione e calcolo, procede con scrupolosa preparazione tecnica, agisce con mentalità da gangster. Non è (come il bandito-pastore) un solitario. Ha possibilità di mimetizzarsi nel tessuto stesso delle città, poiché viene anche da ceti insospettabili. Si adegua alle situazioni ambientali. E' tenace, spregiudicato. E' disponibile al rischio come alternativa alla decadenza dei valori e alla mancanza di prospettive: come evasione, come protesta irrazionale. Si converte al crimine anche con. superficialità. Solo le sue tecniche non sono superficiali. Ciò che lo, accomuna al pastore-bandito è la ferocia. Per il resto, sono personaggi inconfondibili.
La vedova che si risposa diventa una donna di malaffare, e i parenti del morto hanno il diritto di risentirsene. L'uomo che rifiuta di vendicarsi di un'offesa ricevuta è un vile indegno di vivere. Chi può esprimersi è solo l'uomo che abbia dato infinite prove di coraggio e di virilità. Il rapporto offesa-vendetta è il tema fondamentale dell'ordinamento giuridico che la società barbaricina si è dato attraverso i secoli, in contrapposizione all'ordinamento giuridico dello Stato. Questo ha origine riflessa, quello è di formazione spontanea. La pratica della vendetta non promana da una codificazione scritta. Si identifica in un concetto genericamente perseguito di giustizia locale, privata, alla quale però si attengono intere comunità: è la giustizia barbaricina. L'enunciazione delle norme scaturisce dall'osservazione del costume, dal cumulo delle esperienze. La vendetta nasce così come metro di giustizia, con responsabilità chiare e legalizzata dalla complicità della comunità, del gruppo e della famiglia, altrimenti non ha motivazione morale: è vendetta mascherata, pretesto per il sopruso.
L'accordo sulla diagnosi del fenomeno e generale: il banditismo sardo affonda le radici in una società che continua ad essere un reliquato etnico, con rapporti di produzione e sistemi di vita che sono il terreno di coltura della violenza. Scrive il poeta Gavino Ledda: " Odoriamo di capra, di denso concime / pensiamo solo all'erba, al cacio, alla lana / sogniamo acquavite, balli sui sagrati / l'amore cantiamo e imprese di banditi... "
Le grandi terre della mafia sono quelle in cui, dal 1868, si sono verificati i più terribili terremoti. Sono le aree della Sicilia occidentale: Mazzarino, Agrigento, Raffadali, Menfi, Corleone, Castelvetrano, Partanna, Marsala, Trapani, Castellammare, Alcamo, Palermo, Termini Imerese, Montelepre, Misilmeri. Il cuore delle terre mafiose e della Sicilia Occidentale è Corleone. Il cuore dell'organizzazione è Palermo. Le proiezioni da multinazionale sono negli Stati Uniti d'America. Mille delinquenti non sono di più, in Sicilia tengono in pugno l'isola. Fino a che avranno carta bianca, l'ideale mafioso non sarà sradicato dalla mentalità isolana. Sulla tomba di don Calogero Vizzini, temutissimo capomafia per oltre mezzo secolo, una lapide nel cimitero di Villalba così ne descrive le gesta: Comm. Calogero Vizzini / precorse ed attuò la riforma agraria / sollevò le sorti di tutte le ingiustizie fu difensore del diritto dei deboli raggiungendo altezze mai toccate ". Questo, " difensore del diritto dei deboli " fu imputato, in vita, di un'interminabile serie di reati, dalla rapina all'abigeato, dalla truffa aggravata all'estorsione, dalla corruzione di pubblici funzionari alla bancarotta fraudolenta all'omicidio per commissione. Eppure, fu considerato " uomo d'onore ": fu un magistrato a tesserne l'elogio funebre in un commosso articolo.
La mafia tradizionale, quella dei feudi, l'organizzazione che si incentrava sui gabellotti e sui campieri, sopravvive in alcuni centri dell'interno in dimensioni ormai microscopiche. Dopo la legge di riforma agraria, che limitò il diritto di proprietà terriera a un massimo di 200 ettari, il latifondo è pressoché scomparso, e con il latifondo le tipiche figure dei campieri, dei soprastanti e dei burdunari, vessatori mafiosi alle dipendenze dei capibastone.
Abbattuta, o quasi, quella che era un'organizzazione senza leggi e senza riti, ma che esercitava un potere effettivo, resta un modo di pensare e di agire. L'intrastoria (vale a dire le stratificazioni inconsapevoli che determinano un pensiero e un comportamento) non si liquida comminando qualche anno di confino, né nello spazio di una o due generazioni. Sicché si può dire che oggi esistano due tipi di mafia: quel che sopravvive della mafia tradizionale; e la nuova mafia, che si è spostata in città, e poi fuori dell'isola, che ha adeguato i propri metodi ai tempi: infatti, scrive Michele Pantaleone, dallo sfruttamento organizzato dell'agrcoltura e della pastorizia si è passati agli appalti, agli uffici dell'Ente Regione al contrabbando internazionale, alla conquista del mercato della grande città, alla conquista del potere politico ". Com'è che i vecchi, i grandi vecchi sono sopravvissuti? Perché in Sicilia famiglia e amico sono una religione. Scrive Virgilio Titone: " E da qui nasce la negazione dello Stato ". La mafia giovane però, ha sostituito la lupara con il mitra e con gli attentati al plastico. Uccide freddamente, commercia in tabacco, droga, valuta, edilizia, appalti pubblici, prostituzione, gioco d'azzardo. Nessun delitto è passionale, ogni atto, ogni gesto, sono razionali, e contano; - come sempre - su alte connivenze. Così la mafia si è moltiplicata senza divorarsi: ha evitato la fine che fece, a Napoli, la camorra, rimasta al vicolo e all'individuo: è diventata organizzazione. Una vera e propria multinazionale, con un giro di migliaia di miliardi. Forse, oramai, inestinguibile.

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