§ Come le pietrefitte del Salento

Menhir nel cuore dell'Africa




Lucio Marescalchi



Dall'Impero Centroafricano - a sud del Ciad e del Camerun - monumenti di pietra ci fanno sognare altri cieli e altre pietre, dell'area bretone, di quella salentina, di quella coreana, che contraddistinguono un momento della storia di differenti gruppi umani. I monumenti megalitici della regione di Bouar testimoniano un passato originale e ci indicano soprattutto che una storia, con i suoi particolarismi culturali, è esistita qui come altrove. Una ricerca intensa, basata sull'archeologia, l'etnologia, la glottologia, ci consente di annullare il mito di una Africa selvaggia, poco popolata e sottosviluppata, e permette la ricostruzione di una storia meno, complessa e grande di quella europea, senza dubbio, ma altrettanto vera e fondamentale.

Lasciata la valle, la strada, i villaggi degli uomini d'oggi, ci inoltriamo in una foresta chiara, con ampie radure, che corre lungo la linea di confine tra il Ciad e il vecchio Congo. All'ultimo villaggio la gente. detentrice della verità geografica e umana di questo territorio, perché lo abita, lo lavora, lo modella oggi, ci aveva detto che il giacimento che cercavamo si trovava alle sorgenti del Gbakoutou. Fidando in essa e nelle guide che ci erano state assegnate, obbediamo loro come alunni docili, dirigendoci verso questa sorgente particolare d'un Paese che ne conta spesso dozzine, l'una vicina all'altra, ciascuna caratterizzata da un nome. Incontrammo gli ultimi gruppi: donne che pestavano la manioca su alcune rocce di granito grigio. Le piste che seguivamo erano utilizzate dai branchi di zebù Mbororo nelle loro transumanze. Intorno a noi, un silenzio antico: solo lo stormire delle foglie e le grida degli uccelli. Stavamo attenti a mettere bene un piede davanti all'altro, ad andare avanti per venti chilometri al giorno, senza mai perdere di vista lo scopo del nostro sforzo, l'oggetto in qualche modo intellettuale della nostra ricerca.
Poi, mentre la cresta da cui scaturiva la sorgente era ancora lontana, quasi contemporaneamente ai miei compagni, forse un pò prima di essi, scorsi le pietre: le scoprimmo progressivamente, pudicamente, tra i tronchi di alberi che qui chiamano " kéa ", " kpégné ", " gboion ", e che la classificazione scientifica ci dice essere " detarium ", " bureka ", " cussonia".
Giungemmo così, quasi familiarmente, al bordo del tumulo e sotto le pietre. Un'emozione inusuale ci prese tutti. Queste pietre brute, scelte per le loro forme dopo la separazione dalla roccia-madre, trasportate a prezzo di una durissima fatica, e piantate sotto il sole, in cima a un monumento interrato, e, senza dubbio, in un ordine prestabilito, dovevano pure avere un senso.
Il mio compito era quello di tentare di scoprire e descrivere le diverse componenti di ciascun monumento, d'essere attento al minimo segno che potesse aiutare, me o qualcun altro, non importa, alla ricostruzione di questa cultura umana. morta da millenni, ma che aveva immaginato queste forme e le aveva lasciate sulla terra, ignorando che sarebbero state oggetto di riflessione e di studio da parte di uomini del futuro. Era questo scopo di conoscenza che ci eravamo proposti andando alla ricerca di queste pietre. Ma, lì per lì, non era l'essenziale: in quel momento contava l'incontro, il primo incontro tra il ricercatore e l'oggetto della sua ricerca; contava solo la presenza, mia e di quel tumulo, di quelle pietre: la loro immagine a tre dimensioni, quale ci appariva sul momento, la possibilità che aveva la nostra mano di toccare, di accarezzare furtivamente e quasi con tenerezza quella roccia dura e fredda: stabilendo quasi una sintonia, stabilivamo quasi un legame Ira noi, uomini d'oggi, e genti d'altre età, nostri fratelli, che vivevano, lavoravano, amavano su questo fazzoletto di terra, due o forse tremila anni la, Era l'istante quasi religioso, rinnovato ad ogni incontro, quando un uomo fa conoscenza con un altro uomo o con altri uomini, un'altra forma culturale d'umanità, nel presente (e l'istante può tuttavia durare più giorni, durante i quali gli esseri viventi, estranei fino ad allora. si osservano e si ascoltano) o nel passato per la presenza, come qui, di vestigia materiali lasciate da chi ci ha preceduti. Dopo, ma soltanto dopo questo istante privilegiato dell'incontro, verrà il lavoro per la conoscenza scientifica: decifrazione, lettura, misure, raccolta di rocce, frammenti di ceramica, se ci sono, topografia, piani, foto, descrizione dell'ambiente vegetale.
Il paese dei megaliti è costituito dalla conca di Yadé, prolungamento orientale dell'Adamawa, in Camerun, a un'altitudine media di mille metri. Questo è il " Paese delle grandi sorgenti del Centro dell'Africa ", come l'ha chiamato Lefant, il primo viaggiatore europeo che lo attraversò poco più di una settantina di anni la. Dallo Yadé partono numerosi fiumi , che vanno in Ciad, in Congo. Noi siamo sul vecchio zoccolo africano, in parte corazzato da formazioni tufacee. Ma in numerosi luoghi emerge il granito, a volte in formazioni mostruosamente caotiche, a volte in splendide composizioni, come sul Bouar, o sui monti Karé o sui Pana, che dominano la pianura del Ciad: tutti vecchi, vecchissimi testimoni della storia geologica del pianeta. Ma nel corso di migliaia di secoli la vita laboriosamente ha colmato i burroni, è scivolata tra i monti, ha scavato altre valli. Oggi è la vegetazione che conquista i nostri occhi. Qui, tra la grande foresta equatoriale che comincia a meno di 200 chilometri a sud, e la savana-parco della zona sudanese, noi siamo tra i boschi con tappeto erboso foltissimo, ma anche con alberi, numerosi e massicci. André Gide, che percorse questa regione a piedi intorno al 1925, paragonò la sua vegetazione a un " frutteto normanno ". L'immagine non è esagerata. E inoltre, al momento delle piogge (aprile-maggio), quando la luminosità è migliore, è tutta una sinfonia di verde in tutte le tonalità, come ce ne sono poche in altre regioni del mondo. Ci sono animali, tra queste erbe e sotto gli alberi: ma questa natura non è selvaggia, perché l'uomo, dopo lungo tempo, ha lasciato la sua impronta, l'ha modellata sul grado della sua vita e del suo lavoro. Uomini di ieri per i quali noi siamo venuti qui, che abbiamo cercato, che non abbiamo trovato. Da una quindicina di anni rivolgevo la mia attenzione all'esistenza delle pietrefitte di Bouar. Avevo conosciuto i menhir nel Salento e nella Regione Bretone: amavo queste pietre, ne deploravo lo stato di abbandono, esse ricordavano un'Età Neolitica ricca di vicende che pazientemente si vanno ricostruendo o ipotizzando.
Un giorno, per caso, ne incontrai una in Africa. Venni a sapere che questa " pietra anomala " era conosciuta dai Gbaya, che avevano cercato un sostantivo per indicarla: " tazunu ", che traduceva bene il loro aspetto di pietre " conficcate nel terreno ". Per essi, queste pietre non erano né naturali né umane, ma opera di Dio che le aveva gettate dal cielo in terra, ove si erano " piantate ": alcune servivano d'altare per le offerte divine. Partendo da queste conoscenze, nel 1966 Pierre Vidal fece la prima campagna di prospezione sistematica e realizzò la prima mappa, archeologica del Centro Africa. Topograficamente, ogni giacimento (o sito: in archeologia si può impiegare l'uno o l'altro termine) si trova in cima a un vallone o presso una sorgente. Fatto importante, perché dimostra, presso l'uomo di questa cultura, una scelta che indica una concezione spaziale particolare dell'ambiente. (Importante anche la presenza o la vicinanza dell'acqua).
I monumenti sono di volume variabile. Si presentano esterioramente (non tutti, ma la maggior parte) sotto forma di tumulo di circa un metro d'altezza al centro, più o meno ovale, e la cui superficie varia da un centinaio a più di mille metri quadrati. Qui sono piantate le pietre, in numero variabile, da alcune a un centinaio. L'altezza media delle pietre (compresa la parte interrata), è di 1,5-2 metri; ma le più alte misurano da 3 a 5 metri e pesano circa quattro tonnellate. Si trovano spesso, in uno dei margini di ciascun monumento, uno o più " caveaux " interrati, il più grande dei quali è di un metro cubo.
Non sono dolmen, ma ceste, " cofani " di pietra la cui lastra di copertura talvolta è imponente. Forse servivano per le sepolture, ma non esistono prove assolute. E poi, come per tutti i monumenti megalitici, ci sono degli orientamenti: orientamento del monumento in rapporto alla sorgente o all'asse della valle, orientamenti del profilo delle pietre in rapporto ai " caveaux ": posizioni certo non frutto del caso, anche se allo stato attuale delle ricerche non è possibile dare chiarimenti coerenti. Anche perché chi costruì queste pietrefitte aveva un " sistema di pensiero " diverso dal nostro.
Il territorio megalitico centro-africano, quale lo conosciamo, è molto vasto: circa 15 mila chilometri quadrati. Pierre Vidal ha recensito personalmente circa 200 giacimenti. Ma se ci si riferisce a una zona-campione di 100 kmq prospettata in dettaglio, devono esserci ancora oggi non meno di duemila monumenti. Utilizzando il metodo del Carbonio 14, si è stabilito che i primi' monumenti furono realizzati poco più di 2.500 anni fa e che la cultura di cui facevano parte è durata parecchi secoli. Sfortunatamente, il materiale scoperto negli scavi è ridotto: una bella ascia di pietra, elementi per trattare il grano, mole, pestelli, cocci di ceramica molto usati. Dunque, esisteva qui una società sedentaria, quasi padrona dell'agricoltura, con una tecnica di lavorazione della pietra assai sviluppata, alle soglie della conoscenza della metallurgia, sufficientemente forte politicamente e religiosamente perché gli uomini che la componevano potessero conficcare per terra e alzare verso il cielo monumenti destinati a definire la loro cultura, a simbolizzare le loro credenze, a marcare la loro eternità.
C'è una teoria (detta " diffusionista ") secondo cui è esistito un pensiero megalitico unico propagato attraverso il mondo (dalla Bretagna al Salento, dall'Africa alla Corea) da un misterioso popolo missionario dallo spirito superiore molto elevato. Tutto questo è pura fantasia. In realtà, c'è stato un fenomeno megalitico che è stato universale nel momento in cui i diversi popoli del mondo si sono impadroniti alla perfezione dell'arte di creare utensili di pietra. Tutte queste testimonianze ci assicurano, ciascuna a suo modo e nella propria misura, la ricostruzione della storia: e si ha sempre un avvenire, quando si è certi d'avere avuto un passato.


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