Dall'Impero Centroafricano
- a sud del Ciad e del Camerun - monumenti di pietra ci fanno sognare
altri cieli e altre pietre, dell'area bretone, di quella salentina, di
quella coreana, che contraddistinguono un momento della storia di differenti
gruppi umani. I monumenti megalitici della regione di Bouar testimoniano
un passato originale e ci indicano soprattutto che una storia, con i suoi
particolarismi culturali, è esistita qui come altrove. Una ricerca
intensa, basata sull'archeologia, l'etnologia, la glottologia, ci consente
di annullare il mito di una Africa selvaggia, poco popolata e sottosviluppata,
e permette la ricostruzione di una storia meno, complessa e grande di
quella europea, senza dubbio, ma altrettanto vera e fondamentale.
Lasciata la valle,
la strada, i villaggi degli uomini d'oggi, ci inoltriamo in una foresta
chiara, con ampie radure, che corre lungo la linea di confine tra il
Ciad e il vecchio Congo. All'ultimo villaggio la gente. detentrice della
verità geografica e umana di questo territorio, perché
lo abita, lo lavora, lo modella oggi, ci aveva detto che il giacimento
che cercavamo si trovava alle sorgenti del Gbakoutou. Fidando in essa
e nelle guide che ci erano state assegnate, obbediamo loro come alunni
docili, dirigendoci verso questa sorgente particolare d'un Paese che
ne conta spesso dozzine, l'una vicina all'altra, ciascuna caratterizzata
da un nome. Incontrammo gli ultimi gruppi: donne che pestavano la manioca
su alcune rocce di granito grigio. Le piste che seguivamo erano utilizzate
dai branchi di zebù Mbororo nelle loro transumanze. Intorno a
noi, un silenzio antico: solo lo stormire delle foglie e le grida degli
uccelli. Stavamo attenti a mettere bene un piede davanti all'altro,
ad andare avanti per venti chilometri al giorno, senza mai perdere di
vista lo scopo del nostro sforzo, l'oggetto in qualche modo intellettuale
della nostra ricerca.
Poi, mentre la cresta da cui scaturiva la sorgente era ancora lontana,
quasi contemporaneamente ai miei compagni, forse un pò prima
di essi, scorsi le pietre: le scoprimmo progressivamente, pudicamente,
tra i tronchi di alberi che qui chiamano " kéa ", "
kpégné ", " gboion ", e che la classificazione
scientifica ci dice essere " detarium ", " bureka ",
" cussonia".
Giungemmo così, quasi familiarmente, al bordo del tumulo e sotto
le pietre. Un'emozione inusuale ci prese tutti. Queste pietre brute,
scelte per le loro forme dopo la separazione dalla roccia-madre, trasportate
a prezzo di una durissima fatica, e piantate sotto il sole, in cima
a un monumento interrato, e, senza dubbio, in un ordine prestabilito,
dovevano pure avere un senso.
Il mio compito era quello di tentare di scoprire e descrivere le diverse
componenti di ciascun monumento, d'essere attento al minimo segno che
potesse aiutare, me o qualcun altro, non importa, alla ricostruzione
di questa cultura umana. morta da millenni, ma che aveva immaginato
queste forme e le aveva lasciate sulla terra, ignorando che sarebbero
state oggetto di riflessione e di studio da parte di uomini del futuro.
Era questo scopo di conoscenza che ci eravamo proposti andando alla
ricerca di queste pietre. Ma, lì per lì, non era l'essenziale:
in quel momento contava l'incontro, il primo incontro tra il ricercatore
e l'oggetto della sua ricerca; contava solo la presenza, mia e di quel
tumulo, di quelle pietre: la loro immagine a tre dimensioni, quale ci
appariva sul momento, la possibilità che aveva la nostra mano
di toccare, di accarezzare furtivamente e quasi con tenerezza quella
roccia dura e fredda: stabilendo quasi una sintonia, stabilivamo quasi
un legame Ira noi, uomini d'oggi, e genti d'altre età, nostri
fratelli, che vivevano, lavoravano, amavano su questo fazzoletto di
terra, due o forse tremila anni la, Era l'istante quasi religioso, rinnovato
ad ogni incontro, quando un uomo fa conoscenza con un altro uomo o con
altri uomini, un'altra forma culturale d'umanità, nel presente
(e l'istante può tuttavia durare più giorni, durante i
quali gli esseri viventi, estranei fino ad allora. si osservano e si
ascoltano) o nel passato per la presenza, come qui, di vestigia materiali
lasciate da chi ci ha preceduti. Dopo, ma soltanto dopo questo istante
privilegiato dell'incontro, verrà il lavoro per la conoscenza
scientifica: decifrazione, lettura, misure, raccolta di rocce, frammenti
di ceramica, se ci sono, topografia, piani, foto, descrizione dell'ambiente
vegetale.
Il paese dei megaliti è costituito dalla conca di Yadé,
prolungamento orientale dell'Adamawa, in Camerun, a un'altitudine media
di mille metri. Questo è il " Paese delle grandi sorgenti
del Centro dell'Africa ", come l'ha chiamato Lefant, il primo viaggiatore
europeo che lo attraversò poco più di una settantina di
anni la. Dallo Yadé partono numerosi fiumi , che vanno in Ciad,
in Congo. Noi siamo sul vecchio zoccolo africano, in parte corazzato
da formazioni tufacee. Ma in numerosi luoghi emerge il granito, a volte
in formazioni mostruosamente caotiche, a volte in splendide composizioni,
come sul Bouar, o sui monti Karé o sui Pana, che dominano la
pianura del Ciad: tutti vecchi, vecchissimi testimoni della storia geologica
del pianeta. Ma nel corso di migliaia di secoli la vita laboriosamente
ha colmato i burroni, è scivolata tra i monti, ha scavato altre
valli. Oggi è la vegetazione che conquista i nostri occhi. Qui,
tra la grande foresta equatoriale che comincia a meno di 200 chilometri
a sud, e la savana-parco della zona sudanese, noi siamo tra i boschi
con tappeto erboso foltissimo, ma anche con alberi, numerosi e massicci.
André Gide, che percorse questa regione a piedi intorno al 1925,
paragonò la sua vegetazione a un " frutteto normanno ".
L'immagine non è esagerata. E inoltre, al momento delle piogge
(aprile-maggio), quando la luminosità è migliore, è
tutta una sinfonia di verde in tutte le tonalità, come ce ne
sono poche in altre regioni del mondo. Ci sono animali, tra queste erbe
e sotto gli alberi: ma questa natura non è selvaggia, perché
l'uomo, dopo lungo tempo, ha lasciato la sua impronta, l'ha modellata
sul grado della sua vita e del suo lavoro. Uomini di ieri per i quali
noi siamo venuti qui, che abbiamo cercato, che non abbiamo trovato.
Da una quindicina di anni rivolgevo la mia attenzione all'esistenza
delle pietrefitte di Bouar. Avevo conosciuto i menhir nel Salento e
nella Regione Bretone: amavo queste pietre, ne deploravo lo stato di
abbandono, esse ricordavano un'Età Neolitica ricca di vicende
che pazientemente si vanno ricostruendo o ipotizzando.
Un giorno, per caso, ne incontrai una in Africa. Venni a sapere che
questa " pietra anomala " era conosciuta dai Gbaya, che avevano
cercato un sostantivo per indicarla: " tazunu ", che traduceva
bene il loro aspetto di pietre " conficcate nel terreno ".
Per essi, queste pietre non erano né naturali né umane,
ma opera di Dio che le aveva gettate dal cielo in terra, ove si erano
" piantate ": alcune servivano d'altare per le offerte divine.
Partendo da queste conoscenze, nel 1966 Pierre Vidal fece la prima campagna
di prospezione sistematica e realizzò la prima mappa, archeologica
del Centro Africa. Topograficamente, ogni giacimento (o sito: in archeologia
si può impiegare l'uno o l'altro termine) si trova in cima a
un vallone o presso una sorgente. Fatto importante, perché dimostra,
presso l'uomo di questa cultura, una scelta che indica una concezione
spaziale particolare dell'ambiente. (Importante anche la presenza o
la vicinanza dell'acqua).
I monumenti sono di volume variabile. Si presentano esterioramente (non
tutti, ma la maggior parte) sotto forma di tumulo di circa un metro
d'altezza al centro, più o meno ovale, e la cui superficie varia
da un centinaio a più di mille metri quadrati. Qui sono piantate
le pietre, in numero variabile, da alcune a un centinaio. L'altezza
media delle pietre (compresa la parte interrata), è di 1,5-2
metri; ma le più alte misurano da 3 a 5 metri e pesano circa
quattro tonnellate. Si trovano spesso, in uno dei margini di ciascun
monumento, uno o più " caveaux " interrati, il più
grande dei quali è di un metro cubo.
Non sono dolmen, ma ceste, " cofani " di pietra la cui lastra
di copertura talvolta è imponente. Forse servivano per le sepolture,
ma non esistono prove assolute. E poi, come per tutti i monumenti megalitici,
ci sono degli orientamenti: orientamento del monumento in rapporto alla
sorgente o all'asse della valle, orientamenti del profilo delle pietre
in rapporto ai " caveaux ": posizioni certo non frutto del
caso, anche se allo stato attuale delle ricerche non è possibile
dare chiarimenti coerenti. Anche perché chi costruì queste
pietrefitte aveva un " sistema di pensiero " diverso dal nostro.
Il territorio megalitico centro-africano, quale lo conosciamo, è
molto vasto: circa 15 mila chilometri quadrati. Pierre Vidal ha recensito
personalmente circa 200 giacimenti. Ma se ci si riferisce a una zona-campione
di 100 kmq prospettata in dettaglio, devono esserci ancora oggi non
meno di duemila monumenti. Utilizzando il metodo del Carbonio 14, si
è stabilito che i primi' monumenti furono realizzati poco più
di 2.500 anni fa e che la cultura di cui facevano parte è durata
parecchi secoli. Sfortunatamente, il materiale scoperto negli scavi
è ridotto: una bella ascia di pietra, elementi per trattare il
grano, mole, pestelli, cocci di ceramica molto usati. Dunque, esisteva
qui una società sedentaria, quasi padrona dell'agricoltura, con
una tecnica di lavorazione della pietra assai sviluppata, alle soglie
della conoscenza della metallurgia, sufficientemente forte politicamente
e religiosamente perché gli uomini che la componevano potessero
conficcare per terra e alzare verso il cielo monumenti destinati a definire
la loro cultura, a simbolizzare le loro credenze, a marcare la loro
eternità.
C'è una teoria (detta " diffusionista ") secondo cui
è esistito un pensiero megalitico unico propagato attraverso
il mondo (dalla Bretagna al Salento, dall'Africa alla Corea) da un misterioso
popolo missionario dallo spirito superiore molto elevato. Tutto questo
è pura fantasia. In realtà, c'è stato un fenomeno
megalitico che è stato universale nel momento in cui i diversi
popoli del mondo si sono impadroniti alla perfezione dell'arte di creare
utensili di pietra. Tutte queste testimonianze ci assicurano, ciascuna
a suo modo e nella propria misura, la ricostruzione della storia: e
si ha sempre un avvenire, quando si è certi d'avere avuto un
passato.
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