Ciminiere sbilenche




Cesare Zuppulli



In una delle sue repentine illuminazioni o folgorazioni, il governo della grande maggioranza scoperse la "centralità dell'impresa". Avvertì cioè che non ha senso auspicare e promuovere una politica di sviluppo del reddito e dell'occupazione se mancano unità produttive dinamiche pronte ad attuarla. Da quel momento la classe politica (di governo) entrò in uno stato che potremmo definire di agitazione psico-motoria, annunciando a getto continuo iniziative volte a stimolare l'economia e, in maniera particolare, l'industria. Non comprese che per promuovere lo sviluppo, far avanzare il Mezzogiorno, riassorbire la disoccupazione, bisogna fare molto di meno e molto di più di quello che piace scrivere nei "programmi": in ogni caso, qualcosa di diverso da ciò che si è fatto e che si ha intenzione di continuare a fare, anche in un quadro politico leggermente mutato.
E' nostro profondo convincimento che in materia di politica economica e segnatamente di politica industriale, tutto ciò che il Potere pubblico può fare è di apprestare le condizioni nelle quali l'iniziativa possa spiegarsi al meglio, ancorché non debba negarsi all'"autorità" il diritto e il compito di correggere i calcoli di convenienza di quell'iniziativa per indirizzarla, in data parte, verso taluni obiettivi giudicati prioritari. Ma, al di fuori di questi interventi indiretti e limitati, la maniera migliore di eccitare l'intraprendenza è, ripetiamo, quella di secondarla fornendo ad essa un "habitat" favorevole. Le componenti di una tale politica, più facile e più difficile di tutte quelle sinora seguite, sono costituite essenzialmente dai seguenti elementi. In primo luogo, un regime fiscale dichiaratamente favorevole all'investimento di rischio e tale da invogliare il risparmio delle famiglie, tuttora fermo "sul bordo della pista" a guardare disinteressatamente le vicende dell'economia, a partecipare alle imprese.
In secondo luogo, la certezza di un quadro giuridico tale da garantire, non soltanto per l'oggi ma anche per il periodo nel quale l'impresa proietta i suoi progetti, il rispetto delle sue aspettative naturali in termini di libertà di operare, di accumulazione di utili, di scelte di reinvestimento: più volte si è udito parlare, in proposito, dell'utilità di uno statuto dell'impresa, configurato come un "pendant" o contropeso dello statuto dei diritti dei lavoratori; a nostro avviso, di queste sotto-costituzioni non vi è alcun bisogno, bastando rifarsi alla Costituzione dove i diritti dell'impresa sono tratteggiati in termini non equivoci. In terzo e ultimo luogo figura non un'idilliaca e mitica pace sociale, ma un forte grado di consenso interno alla capacità del sistema impresa-mercato di assicurare l'aumento del benessere collettivo.

Orbene, se mettiamo a confronto questi modi dell'azione politica con ciò che concretamente è stato fatto in Italia negli anni del centro-sinistra e, più confusamente ancora, negli anni della grande maggioranza detta costituzionale, si può affermare, senza cadere nella malevolenza, che i governi hanno peccato soprattutto di presunzione. Hanno pensato, cioè, non essere loro semplice dovere quello di apprestare il terreno affinchè le imprese potessero, germinarvi e crescere, bensì di detenere, essi stessi, tali doti d'immaginazione e d'inventiva da potere additare alle imprese le iniziative da assumere, le produzioni da privilegiare, gli interi "settori" da "spingere". Nessuno ancora è riuscito a spiegare in base a quali segnali di mercato, conoscenze tecnologiche, esperienze aziendali, la classe politica di governo abbia maturato questa specie di consapevolezza taumaturgica.
Ne è seguito una specie di gioco degl'inganni. li potere pubblico, per modellare, secondo le sue vedute, l'imprenditorialità, l'ha adescata con abbondanti donativi di capitale e facilitazioni creditizie; dal suo canto, un nuovo gruppo sociale costituito da imprenditori in larga misura improvvisati (gli "industrializzatori") ha trovato conveniente tentare l'azzardo dell'industria con denari pubblici: se gli affari fossero andati bene, i profitti sarebbero stati privati; se fossero andati male, non v'era che da allargare le braccia e invocare il rischio economico. Le vicende clamorose che hanno accompagnato la fine della legislatura, con le iniziative giudiziarie volte a identificare il reato di peculato nelle erogazioni finanziarie sopra descritte, non sono che la conseguenza inevitabile delle improvvisazioni di uno Stato fattosi banchiere.
Conviene meditare brevemente su altri due effetti, i più gravi, di questa singolare concezione della politica economica e della politica industriale. Il primo è che lo Stato, già insaziabile divoratore di risparmio per le sue necessità "correnti", non esita ad assorbirne quote ulteriori (fino al 66 per cento del credito globale disponibile) per alimentare le sue stravaganze di banchiere d'affari. La seconda è che il finanziamento di queste anatre zoppe dell'industria (gli inglesi le chiamano "lame ducks"; i francesi "canards boiteux") assottiglia il credito alle imprese più promettenti. Il danno si raddoppia. Lo Stato mette a razione la parte più valida dell'apparato produttivo per il beneficio delle industrie care ai suoi "programmatori". A quale dottrina si ispiri una siffatta politica economica soltanto gli "economisti del principe" potranno spiegarci.


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