In una delle sue
repentine illuminazioni o folgorazioni, il governo della grande maggioranza
scoperse la "centralità dell'impresa". Avvertì
cioè che non ha senso auspicare e promuovere una politica di
sviluppo del reddito e dell'occupazione se mancano unità produttive
dinamiche pronte ad attuarla. Da quel momento la classe politica (di
governo) entrò in uno stato che potremmo definire di agitazione
psico-motoria, annunciando a getto continuo iniziative volte a stimolare
l'economia e, in maniera particolare, l'industria. Non comprese che
per promuovere lo sviluppo, far avanzare il Mezzogiorno, riassorbire
la disoccupazione, bisogna fare molto di meno e molto di più
di quello che piace scrivere nei "programmi": in ogni caso,
qualcosa di diverso da ciò che si è fatto e che si ha
intenzione di continuare a fare, anche in un quadro politico leggermente
mutato.
E' nostro profondo convincimento che in materia di politica economica
e segnatamente di politica industriale, tutto ciò che il Potere
pubblico può fare è di apprestare le condizioni nelle
quali l'iniziativa possa spiegarsi al meglio, ancorché non debba
negarsi all'"autorità" il diritto e il compito di correggere
i calcoli di convenienza di quell'iniziativa per indirizzarla, in data
parte, verso taluni obiettivi giudicati prioritari. Ma, al di fuori
di questi interventi indiretti e limitati, la maniera migliore di eccitare
l'intraprendenza è, ripetiamo, quella di secondarla fornendo
ad essa un "habitat" favorevole. Le componenti di una tale
politica, più facile e più difficile di tutte quelle sinora
seguite, sono costituite essenzialmente dai seguenti elementi. In primo
luogo, un regime fiscale dichiaratamente favorevole all'investimento
di rischio e tale da invogliare il risparmio delle famiglie, tuttora
fermo "sul bordo della pista" a guardare disinteressatamente
le vicende dell'economia, a partecipare alle imprese.
In secondo luogo, la certezza di un quadro giuridico tale da garantire,
non soltanto per l'oggi ma anche per il periodo nel quale l'impresa
proietta i suoi progetti, il rispetto delle sue aspettative naturali
in termini di libertà di operare, di accumulazione di utili,
di scelte di reinvestimento: più volte si è udito parlare,
in proposito, dell'utilità di uno statuto dell'impresa, configurato
come un "pendant" o contropeso dello statuto dei diritti dei
lavoratori; a nostro avviso, di queste sotto-costituzioni non vi è
alcun bisogno, bastando rifarsi alla Costituzione dove i diritti dell'impresa
sono tratteggiati in termini non equivoci. In terzo e ultimo luogo figura
non un'idilliaca e mitica pace sociale, ma un forte grado di consenso
interno alla capacità del sistema impresa-mercato di assicurare
l'aumento del benessere collettivo.

Orbene, se mettiamo
a confronto questi modi dell'azione politica con ciò che concretamente
è stato fatto in Italia negli anni del centro-sinistra e, più
confusamente ancora, negli anni della grande maggioranza detta costituzionale,
si può affermare, senza cadere nella malevolenza, che i governi
hanno peccato soprattutto di presunzione. Hanno pensato, cioè,
non essere loro semplice dovere quello di apprestare il terreno affinchè
le imprese potessero, germinarvi e crescere, bensì di detenere,
essi stessi, tali doti d'immaginazione e d'inventiva da potere additare
alle imprese le iniziative da assumere, le produzioni da privilegiare,
gli interi "settori" da "spingere". Nessuno ancora
è riuscito a spiegare in base a quali segnali di mercato, conoscenze
tecnologiche, esperienze aziendali, la classe politica di governo abbia
maturato questa specie di consapevolezza taumaturgica.
Ne è seguito una specie di gioco degl'inganni. li potere pubblico,
per modellare, secondo le sue vedute, l'imprenditorialità, l'ha
adescata con abbondanti donativi di capitale e facilitazioni creditizie;
dal suo canto, un nuovo gruppo sociale costituito da imprenditori in
larga misura improvvisati (gli "industrializzatori") ha trovato
conveniente tentare l'azzardo dell'industria con denari pubblici: se
gli affari fossero andati bene, i profitti sarebbero stati privati;
se fossero andati male, non v'era che da allargare le braccia e invocare
il rischio economico. Le vicende clamorose che hanno accompagnato la
fine della legislatura, con le iniziative giudiziarie volte a identificare
il reato di peculato nelle erogazioni finanziarie sopra descritte, non
sono che la conseguenza inevitabile delle improvvisazioni di uno Stato
fattosi banchiere.
Conviene meditare brevemente su altri due effetti, i più gravi,
di questa singolare concezione della politica economica e della politica
industriale. Il primo è che lo Stato, già insaziabile
divoratore di risparmio per le sue necessità "correnti",
non esita ad assorbirne quote ulteriori (fino al 66 per cento del credito
globale disponibile) per alimentare le sue stravaganze di banchiere
d'affari. La seconda è che il finanziamento di queste anatre
zoppe dell'industria (gli inglesi le chiamano "lame ducks";
i francesi "canards boiteux") assottiglia il credito alle
imprese più promettenti. Il danno si raddoppia. Lo Stato mette
a razione la parte più valida dell'apparato produttivo per il
beneficio delle industrie care ai suoi "programmatori". A
quale dottrina si ispiri una siffatta politica economica soltanto gli
"economisti del principe" potranno spiegarci.
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