Alla fine del 1978
il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) ha destinato a dieci regioni
italiane il 40% della sua dotazione globale, e cioé una somma
pari a 168,13 miliardi di lire per la realizzazione di 85 progetti di
infrastrutture. La somma maggiore è stata destinata alla Campania
con 70,39 miliardi di lire per la realizzazione di quattro progetti.
Alla Campania seguono le regioni Puglia (23,02 miliardi); Sardegna (17,48
miliardi); Calabria (12,17 miliardi); Lazio (4,27 miliardi); Marche
(3,05 miliardi); Molise (9,90 miliardi). Ad un progetto interregionale
Basilicata-Puglia sono stati assegnati 6,86 miliardi di lire. Il resto
della disponibilità del Fondo Europeo è andato all'Inghilterra
(27%), alla Francia (25%), alla Germania (9%) e all'Irlanda (6%). Abbiamo
tenuto opportuno sottolineare il notevole e massiccio intervento del
FESR perché consideriamo il Fondo (insieme con il Comitato di
Politica Regionale) come unico strumento della politica regionale comunitaria:
entrambi creati nel 1975, ma ancora poco incisivi per raggiungere l'obiettivo
della riduzione degli squilibri regionali persistenti. Dopo le prime
elezioni a suffragio universale del Parlamento Europeo, appare urgente
almeno per il nostro Paese -con particolare riferimento alla drammatica
situazione economica e sociale del Mezzogiorno - un riesame della politica
regionale comunitaria per la preliminare considerazione che, essendo
radicalmente cambiato il quadro economico nazionale e comunitario in
dipendenza della crisi che ha investito i Paesi industrializzati, deve
necessariamente essere modificata la strategia di fondo della politica
regionale della Comunità e dei suoi strumenti di intervento.
Tale esigenza è stata già avvertita dalla Commissione
della CEE nel documento del 3 giugno '77: la politica regionale deve
essere concepita globalmente, cioé formulata e precisata nel
contesto di tutta la Comunità: "Essa deve tener conto più
particolarmente della politica in materia di aiuti regionali - ha sostenuto
la Commissione - alfine di garantire le condizioni di un buon funzionamento
del MEC", e deve essere indirizzata a dare una dimensione territoriale
alle più qualificanti decisioni politiche della Comunità.
Gli interventi a carattere strutturale debbono essere collegati con
un vincolo di coerenza a tutti gli strumenti finanziari comunitari.
L'esigenza di una politica regionale comunitaria di tipo nuovo, lontana
tanto dalle degenerazioni clientelari quanto dal meccanismo perverso
del rozzo assistenzialismo, è una scelta irrinunciabile del nostro
Paese: il Mezzogiorno d'Italia è anche il Mezzogiorno d'Europa
e le strade dell'unità politica e dell'integrazione economica
passano attraverso il superamento di squilibri vecchi e nuovi, di paralizzanti
divari.
Quando, il 25 marzo 1957, dopo lunghi anni di faticose trattative nasceva
a Roma la "piccola Europa" dei Sei, fu proprio il nostro Paese
a sostenere e a pretendere che nel "preambolo" del Trattato
fosse inserita la necessità di una politica di sviluppo delle
aree depresse e nel titolo terzo del Trattato fosse espressamente dichiarata
l'urgenza di attuare, tra le politiche comuni, una politica sociale
della Comunità. Il Fondo Sociale Europeo, strumento essenziale
per promuovere e realizzare la mobilità del lavoro e la riqualificazione
professionale, è stato utilizzato dai Paesi più sviluppati,
come la Germania e i Paesi Bassi, a danno soprattutto del nostro Paese
e del Mezzogiorno. Analogamente alla politica sociale e alla politica
agricola, la politica regionale - che è venuta sviluppandosi
ad opera esclusiva della Commissione e del Parlamento Europeo - ha mostrato
carenze e insufficienze a causa dei suoi interventi limitati e non concentrati
nelle aree di grave depressione economica e sociale. Osserva giustamente
Vincenzo Guizzi che il nostro Paese, assente dai benefici dei prestiti
di riconversione a norma dell'art. 56 Trattato CECA negli anni '73 e
'74 "non è in grado di utilizzare neppure gli scarsi mezzi
che la Comunità potrebbe mettere a sua disposizione, il che è
grave, specie per il Mezzogiorno". Occorre, d'altra parte, sottolineare
che il meccanismo del FESR non ha aiutato il nostro Sud, che non è
solo problema italiano, in quanto è la più grave e acuta
area depressa della Comunità. Concordiamo con Guizzi che "un
intervento promozionale e riequilibratore avrebbe senso solo se concentrato,
data la scarsità dimezzi, nelle regioni più povere e arretrate".
L'unità europea che ha preso l'avvio con le elezioni del 10 giugno
è nata tra luci ed ombre del passato e del presente. Tra le ombre,
una è particolarmente pesante e rischia di condizionare negativamente
l'unificazione politica e l'integrazione economica dell'Europa: la politica
regionale. L'Italia è molto sensibile ad una equilibrata attuazione
del Fondo di sviluppo e ad una radicale innovazione della sua strategia,
in quanto il suo Sud è l'area più depressa della Comunità,
nella quale si riscontra il più elevato grado di sottosviluppo
economico a carattere strutturale. Il Mezzogiorno non è un'area
depressa come le altre della Comunità (su 120 regioni europee,
le aree più sviluppate del nostro Paese sono tutte al di sotto
della media comunitaria per prodotto interno lordo pro-capite, e tutte
le regioni centro-meridionali sono al di sotto del 70% di tale media),
ma l'unica area di sottosviluppo nella quale concentrare gli sforzi
e gli interventi di una politica regionale più organica ed incisiva.
La battaglia europeista del nostro Paese ha avuto come ispirazione fondamentale
la politica di sviluppo delle aree depresse: ora si tratta di impegnare
il nuovo Parlamento Europeo ad affrontare la politica regionale di sviluppo
con una visione nuova, non più assistenzialistica, come se il
Fondo Europeo fosse una brutta copia della Cassa per il Mezzogiorno.

La politica regionale
di sviluppo deve essere per noi un punto irrinunciabile e deve impegnare
la rappresentanza italiana a Strasburgo a farne il problema centrale
del Parlamento. Essa rappresenta l'alternativa più seria all'involuzione
nazionalistica, accentuatasi a seguito della crisi energetica. Giova
all'Europa un ritorno ai funesti "sacri egoismi" nazionali
anche in fatto di Fondo Regionale di Sviluppo? Crediamo di no. Crediamo,
al contrario, che la causa europea si serva andando avanti sulla strada
della cooperazione e dell'integrazione, abbandonando chiusure autarchiche,
egoismi nazionali, modelli alternativi impraticabili e negativi rispetto
all'obiettivo dell'unità europea.
Occorre ricordare che la lunga battaglia del movimento europeista e
del meridionalismo democratico è stata sempre indirizzata all'obiettivo
di realizzare l'unità politica europea: e non è un caso
che proprio la mancanza di una politica unitaria comune abbia contribuito
a rendere per troppo tempo inadempiente la Cee in relazione alla definizione
e all'attuazione del Fondo regionale chiesto dal nostro Paese. Una richiesta
insistente, non certo avanzata in chiave di politica clientelare e di
interventi caritatevoli a favore delle regioni depresse, ma intesa come
l'adempimento politico di un preciso obbligo, che scaturiva dall'art.
2 del Trattato di Roma. Una gestione verticistica del potere comunitario
e interessi degli Stati più forti hanno contribuito a ritardare
l'attuazione del Fondo.
Con il vertice di Parigi del 9 e 10 dicembre '74 veniva formalmente
deciso che il FESR, destinato a correggere i principali squilibri regionali
esistenti nella Comunità, "a motivo in particolare della
predominanza di attività agricole, di trasformazioni industriali
e di una sottoccupazione strutturale", venisse attuato dalle Istituzioni
della Comunità a partire dal I' gennaio '75. La dotazione iniziale
del Fondo fu di 300 milioni di unità di conto per il '75 e di
500 milioni di u. c. per ciascuno degli anni '76-77, per un totale di
un miliardo 300 milioni di u.c. Il vertice parigino stabilì anche
la ripartizione delle risorse sulla base di uno schema proposto dalla
Commissione. Si trattò di un avvio promettente, anche se tardivo,
e non mancarono considerazioni negative, sia per l'entità delle
risorse, sia per i parametri oggettivi con i quali venivano assegnate
quelle risorse alle regioni depresse. Le ragioni di una obiettiva contestazione
della filosofia del FESR sono tuttora valide. Esse si intrecciano in
considerazioni di ordine politico generale e in considerazioni relative
alla politica economica della CEE. Sul piano politico generale, è
opportuno rilevare che gli europeisti più convinti e coerenti
non hanno mai concepito che la costruzione europea dovesse essere fondata
sull'attuazione dei Fondi: Fondi settoriali o speciali. Abbiamo, in
Europa, i "fondi", perché non abbiamo mai avuto un'Europa
politica, che si tenta di avviare dopo le elezioni del 10 giugno.
Pochi giorni dopo l'avvio del FESR, il Presidente del movimento europeo
Petrilli, avvertiva che l'Italia, a motivo della propria struttura dualistica,
occupava una posizione in qualche modo intermedia tra i Paesi industrializzati
e i Paesi in via di sviluppo: pertanto, il nostro Paese si presentava
come un elemento eterogeneo nel contesto della CEE. Ieri come oggi,
per l'Italia il problema è quello di capire come possa realizzarsi
un'unione economica e monetaria tra Paesi a struttura economica diversa,
e quindi di non ripetere su scala comunitaria gli errori e le insufficienze
della politica di sviluppo del Mezzogiorno. Aveva ragione Petrilli quando
osservava che "il problema regionale, anche nell'ambito europeo,
non interessa solo una frangia di regioni periferiche", in quanto
analogamente alla situazione italiana "le regioni periferiche risentono
sempre più di una emorragia demografica non compensata adeguatamente
né dalla presenza di correnti turistiche né dalle rimesse
degli emigrati". I primi tre anni di vita del FESR non sono incoraggianti
per il nostro Sud, anche se una cospicua erogazione di risorse è
stata destinata alle regioni meridionali. Quando si parlò dì
una "prenotazione" delle erogazioni a favore del Mezzogiorno,
si intendeva certo non riproporre richieste settoriali e frammentarie,
ma affrontare con uno strumento più incisivo il problema della
distorsione e del sottosviluppo strutturale del nostro Paese.
I criteri adottati dalla Commissione nella definizione dei parametri,
in base ai quali sono state accertate le aree sottosviluppate, penalizzano
le regioni meridionali. Si tratta di parametri non applicabili alla
realtà socio-economica del Mezzogiorno e tali da vanificare esigenze
legittime. Valga un esempio per tutti: la definizione di area depressa
è legata, tra gli altri parametri, all'incidenza di occupazione
agricola del 9-10%, quando sappiamo bene che la media europea è
del 9,50%. Con siffatto parametro, tutto il Nord d'Italia è "Mezzogiorno",
tutte le regioni sviluppate del Centro-Europa sono "Mezzogiorno".
E come possono essere equiparate le aree agricole meridionali (dove
tuttora persiste un'incidenza dell'occupazione agricola pari al 30-35%
dell'occupazione globale) con le regioni sviluppate della Padania o
della Valle del Reno? Quando si scelgono alcuni parametri per la definizione
delle aree suscettibili di aiuto, si perviene al risultato di includere
alcune aree congestionate e sovra sviluppate in Italia e nella Comunità
tra quelle depresse e quindi meritevoli di aiuto.

Il Fondo Regionale
si disperde in mille rivoli, a danno ulteriore delle aree della depressione,
e con l'aggravante di un'assegnazione surrettizia di interventi ed erogazioni
a favore di aree diverse dal Mezzogiorno. Sorge a questo punto l'esigenza
di definire una scala di priorità nell'attuazione degli interventi
previsti dal FESR a favore delle regioni sottosviluppate, tenendo ben
fermo il concetto che all'interno di ogni singolo paese della CEE la
definizione di "area arretrata" deve avere come punto di riferimento
la situazione economica oggettiva nazionale e non quella europea. Solo
in tal modo potremo impedire la vanificazione degli aiuti e degli interventi
a favore del Mezzogiorno.
Parametri e criteri fino ad oggi adottati mettono in chiara luce i limiti
della politica regionale e confermano i pericoli intravisti anni fa
dall'inglese Thomson nella gestione del Fondo e nella sua strategia
degli interventi ad "innaffiatoio", cioé la dispersione
a macchia d'olio degli interventi e l'estensione indiscriminata delle
aree sottosviluppate a livello europeo. Nelle aree sottosviluppate,
nelle quali il Fondo ha erogato finanziamenti, figurano accanto alla
Calabria e alla Campania gli "arrondissements" belgi e francesi,
cioé intere aree subregionali che nulla hanno a che vedere con
la squallida miseria e la secolare depressione delle aree interne ed
emarginate del Mezzogiorno. Per quanto riguarda l'Italia, dobbiamo respingere
"allineamenti" e parificazioni territoriali che non sono rispondenti
alla gravità del~ la situazione di depressione delle regioni
meridionali. Il nostro Mezzogiorno, per la sua acuta depressione e per
le sue tensioni sociali, non assomiglia alle regioni della fascia carolingia
dell'Europa: ha problemi e contrasti non paragonabili né riscontrabili
in altre aree comunitarie. Perciò il contributo che l'Italia
può ricevere dalla CEE non deriva tanto dalla politica degli
"aiuti" e dei "Fondi" - che, non inquadrati in una
vasta ed armonica politica di sviluppo, si configurano come atti di
assistenza - quanto dalla enorme possibilità di utilizzare la
politica regionale come spinta decisiva per vincere le contraddizioni
e le insufficienze di una politica economica nazionale, compromessa
da vecchi errori, e dall'insorgere di una crisi difficilissima, che
tocca certamente tutti i Paesi industrializzati, ma che in Italia e
nel nostro Mezzogiorno assume aspetti drammatici.
Il Mezzogiorno è al primo posto nella graduatoria delle aree
depresse della Comunità. In esso la Cee dovrà creare iniziative
ad elevata intensità di lavoro, in grado di bloccare la disoccupazione
e l'emigrazione. Ciò implica, in concreto, che la politica regionale
deve rappresentare il presupposto fondamentale della politica economica
europea. La necessità di un più organico e stretto rapporto
tra unità politica e superamento degli squilibri dev'essere l'impegno
del nuovo Parlamento. L'Europa ha camminato nel corso di questi 25 anni,
e ora il Vecchio Continente si prepara a compiere il "salto di
qualità" verso una nuova fase storica: andiamo verso la
meta degli Stati Uniti d'Europa, "in una corsa senza ritorno",
come ci ha ricordato spesso Jean Monnet, durante la quale non possiamo
e non vogliamo fermarci. Il Mezzogiorno deve muoversi con l'Europa,
e deve muoversi in fretta se vuole restare legato, come noi ci auguriamo
e per la cui prospettiva ci battiamo, al mondo della libertà
e ai valori della società democratica.
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