EPIGRAMMI (1)




di Leonida da Taranto
tradotti da Giovanni Francesco Romano




Testo seguito: The greek Anthology, Hellenistic Epigrams, by A.S.F. Gow - D.L. Page - Cambridge, 1965.

NOTA INTRODUTTIVA Enzo Esposito

La poesia di Leonida è indubbiamente di quelle che non meritano tramonti, perché poesia d'occasione scaturita da un'intima urgenza di canto, anche se talvolta risulta assaporata e compiaciuta, sì da tradire il momento di concentrazione volontaria. A osservare i mezzi espressivi, di cui egli si servì per tradurre le impressioni visive del suo mondo poetico, si ha la sensazione di un giuoco perfetto, ottenuto con una irrequieta sobrietà di lingua, che poco ha di artificioso o di stilizzato. Gli aggettivi, contenuti in una gamma relativamente limitata, ci danno lo specchio della particolare sensibilità del poeta, che dalla grazia spesso dolorosa della vita trasse quella certa esperienza o conoscenza umana, in cui l'amaro e il dolce si fondono e diventano malinconia. L'immagine pertanto non è letterariamente ricercata, ma nasce dal ricordo commosso, fiore puro, solo raramente ottenuto per costruita finzione, con sapiente collocazione di parole lungamente accarezzate nella memoria per il loro autonomo potere di evocazione. L'incontro con l'esperienza poetica moderna, facilmente riconoscibile, è già autorizzata condizione al tradurre. E' quindi varia la nostra attenzione verso queste traduzioni di Giovanni Francesco Romano, poeta fresco e puro, che della parola greca sente la dimensione prima, la direzione originaria, il palpito, la vita. La prima impressione che si ricava è, innanzitutto, quella di un felice avviamento ad intenti interpretativi di natura poetica; ma anche, dopo questo preliminare riconoscimento, volendo scendere più in profondo, l'impressione di un'esperienza congeniale, legata al motivo di un'umanità contratta in se stessa, ordinaria e incapace di eroismi. Va intanto detto che, di solito, il tradurre si risolve in passaggio, sia pure inavvertito, dal momento intuitivo-poetico a un altro propriamente letterario, onde gli scarti metrici ed affettivi, il senso di giuoco e di stilizzazione, che tradiscono in deliri meramente fittizi l'impulso originario dell'espressione. Romano supera e risolve l'equivoco, dandoci modelli di versione, la cui perfetta soluzione ritmica è riservata a intensità espressive puntuali, al disegno melodico, alla proprietà delle voci singole.


GLI EPIGRAMMI

I
(A.P. VI, 202 = I G.P.)

La cintura frangiata e la camicia
Attis appese, quale offerta a te,
sulle porte del tempio,
figlia di Leto:
tu disciogliesti dal suo gonfio ventre
con le doglie del parto il figlio, vivo.

II
(A.P. VI, 204 = VII G.P.)

A Pallade Theris, il falegname, smessa l'arte,
dedicò la sua riga non flessibile
e la sega ben tesa nel telaio,
curva sul dorso, e l'ascia e la pialla
e il trapano che gira perforando.

III
(A.P. VI, 205 = VIII G.P.)

Dei falegname Leontico gli arnesi:
le lime aguzze, le veloci seghe,
le squadra e gli archipenzoli miniati
e i martelli a due colpi
e i regoli dai freghi, qua e là, rossi
e i trivelli forniti di corregge,
e l'arnese che lucida,
e l'ascia con il manico pesante
- signora del mestiere -
e i trapani che agevoli perforano,
e i rapidi succhielli e questi quattro
punteruoli per chiodi,
e la scure a due tagli.
Questi arnesi, lasciando l'arte sua,
egli offerse ad Atena protettrice.

IV
(A P. VII, 648 = X G.P.)

E già salpando il nobile Aristocrate
per l'Acheronte, disse,
portandosi la mano al capo effimero:
- L'uomo sposi una donna, e abbia figli,
anche se lo tormenta la miseria:
si puntelli la vita.
Casa senza colonne è sempre brutta;
anche quando meschino è il focolare,
se forte di colonne, appare ricco;
e assai bene il tizzone che scoppietta,
può misurarsi col lusso bruciante.
Sì, sapeva Aristocrate che giova,
ma odiava, o uomo, perfide!, le donne.

V
(A.P. VII, 440 = XI G.P.)

Quali ossa racchiudi nel tuo buio,
o tumulo, e tu, terra,
quale corpo inghiottisti!
Aristòcrate, amato dalle Grazie,
e che tutti vivamente ricordano.
Con che dolcezza egli parlava al popolo,
non contraendo mai il sopracciglio,
autentico signore! E nei festini
sapeva, tra bicchieri generosi,
mantenersi, parlando, contegnoso.
Sapeva anche fare opere grate
ai cittadini e insieme agli stranieri.
Tale estinto racchiudi, o terra amabile!

VI
(A.P. VII, 665 = XIV G.P.)

Sia larga, sia profonda, navigando,
non ti fidare mai della tua nave:
le spezza tutte il vento;
il vento che anche Pròmaco assalì;
e ondata enorme giù nel cavo mare
oppresse i marinai.
Ma non dovunque avverso gli fu il fato;
che anzi, là, nella terra del padri,
egli ebbe tomba e funebri onoranze
da parte dei congiunti, appena il mare
rotolò sulla spiaggia il corpo esanime.

VII
(A.P. VII, 295 = XX G.P.)

Theris, tre volte vecchio,
che viveva pescando con le nasse,
più agile nel nuoto di uno smergo,
il predone di pesci,
molto abile nel gettare le reti,
e scrutare le grotte sotto il mare,
e manovrare i remi della barca,
già non Arturo uccise col suo vento,
né la tempesta infranse i suoi molti anni.
Nella capanna d'intrecciati giunchi
la lunga età lo spense, come lume.
E fu la società dei pescatori:
e non la moglie, o i figli,
gli innalzarono questo monumento.

VIII
(A.P. VII, 198 = XXI G.P.)

Se anche su di me, o viandante,
pietra tombale è stata collocata,
piccola e alzata appena sulla terra,
loda pure Filénida, mio caro.
Con ogni cura, per due anni, amò
me, grillo canterino.
E prima me ne stavo tra gli spini,
e molto egli godeva al canto mio
che dentro gli stillava molle sonno.
E non mi trascurò neppure morto:
mi pose sopra, vedi?, breve pietra
a ricordo del mio gracile trillo.

IX
(A.P. 182 = XXIII G.P.)

Fuggitiva dai seni della madre,
e ancora grondante di spuma,
Cypris, che appresta il letto nuziale,
Apelle ha dipinto: è tanto bella
che non sembra dipinta, ma creatura.
E si tocca i capelli con le dita,
e dolce brama le fa caldi gli occhi;
nunzie di giovinezza,
mele cotogne sono le mammelle.
Diranno Atena e la moglie di Zeus:
- Ci perdiamo in bellezza -.

X
(A.P. IX, 337 = XXIX G.P.)

Cacciatore di lepri, in bocca al lupo!
E, se vieni col vischio ad uccellare,
dal fondo della valle tra i due monti
manda un grido anche a me, Pane, custode
dei boschi: con un salto dal dirupo
sarò pronto con cani e con bacchette.

XI
(A P. IX, 24 = XXX G.P.)

Il sole fiammeggiante
rotando discolora
le stelle e il sacro disco della luna.
Poeti a torme Omero dissolve,
alzandosi, splendore delle Muse.

XII
(A P. VI, 302 = XXXVII G.P.)

Via, fuggite dal mio cupo tugurio,
topi, amici dei buio!
E' povera la madia di Leonida,
non sfama neanche un topo.
Contento è il vecchio di un poco di sale
e due pagnotte: apprese dagli avi
a vivere così; dunque, a che frughi
questo buco, goloso, se non resta
neanche una briciola per te?
Va': cerca in altre case - la mia è magra -;
di là tu porterai di che sfamarti.

XIII
(A P. VI, 286 = XL G.P.)

La guarnizione della parte destra
l'ha ricamata Bittion
per la lunghezza di un'intera spanna;
l'altra, l'ha ricamata Antianèira;
il Meandro, nel centro, con le vergini,
lo ha ricamato Bìtie:
figlia di Giove, Artemide bellissima,
abbi a cuore il ricamo
di tre fanciulle in gara.

XIV
(A.P. VII, 726 = LXXII G.P.)

Quante notti, a scacciare la miseria,
passò la vecchia Plattis alla rocca
e al fuso, compagno di lavoro!
E canticchiava, già vicina a morte,
e faceva su e giù presso il telaio,
caro ad Atena, insieme con le Cariti,
fino all'aurora; e il lavorato filo
con le mani grinzose
sul ginocchio appassito attorcigliava
per il telaio, come deliziosa!
E giunta a ottanta anni, la vecchietta,
dopo avere tessuto tanta tela,
vide i gorghi dell'acqua acherontea.

XV
(A.P. VI, 13 = XLVI G.P.)

Dedicarono a te i tre fratelli,
o Pane campagnolo, queste reti,
ciascuno per un genere di caccia.
Queste, Pigrete, per gli uccelli; Damis
queste, per caccia grossa; ultimo, Cléitor,
per i pesci. In ricambio, manda al primo
uccelli da colpire su per l'aria;
all'altro selvaggina per i boschi;
a Cléitor manda pesci lungo il mare.

XVI
(A. P. VI, 4 = LlI G.P.)

Il curvo amo e le lunghe aste e la lenza
e i canestri del pesce, e questa nassa
da marinai, che gettano le reti,
e l'aspro arpione, arma o; Posèidone,
e i remi a coppia ai fianchi della barca:
questi avanzi del suo mestiere antico,
il Pescatore Diòfanto
al protettore, grato, dedicò.

XVII
(A. P. VI, 221 = LIII G. P.)

Nella notte d'inverno, colma di neve,
e percossa da grandine impetuosa,
un leone, senza uguale nella razza,
entrò spossato nella cava stalla
di caprai che amano i dirupi.
Essi dimenticarono le capre
e, temendo per sé, Giove pregavano
che volesse salvarli. Ma la fiera,
avvezza a camminare nella notte,
poi che l'urlo passò della tempesta,
lasciò la stalla e alcun male non fece
ai pastori e al bestiame. E i pastori,
frugali abitatori delle vette,
scolpita, questa opera del fato,
presso la quercia, qui, folta di tronchi,
riconoscenti, a Giove dedicarono.

XVIII
(A.P. VI, 298 = LV G.P.)

E la bisaccia e l'indurita pelle
di capro, non conciata, e il bastone
- un tronco storto di ceppo di vite -
e la vuota bottiglia, opaca di olio,
e la borsa di cane, senza un soldo,
e il cappello che già ricopriva
il capo - altro che sacro! - :
questa roba di Sòcari, lui morto,
appese Fame qui al tamarisco.

XIX
(A.P. VII, 408 = LVIII G.P)

Passate oltre la tomba silenziosi,
non svegliate la vespa addormentata,
Riposa, ora, la rabbia d'Ipponatte
che già pungeva pure padre e madre;
ma state attenti, chè le sue parole
s'avventano rabbiose anche dall'Ade.

XX
(A.P. VII, 273 = LXII G.P.)

Fu Euro, calato a precipizio,
e la notte e le ondate che mi uccisero
dopo il nero tramonto d'Orione;
e sdrucciolai così via dalla vita,
io, Callàiscro. Mentre attraversavo
il mare della Libia,
disparvi giù aggirato dalle onde,
e i pesci mi spolparono.
Bugiarda mi sta sopra questa pietra.

XXI
(A.P. VII, 506 = LXV G.P.)

Siamo sepolti in terra e in fondo al mare.
A me, Tarsys, figlio di Carmide,
toccò disavventura così strana
a causa delle Parche. Mi calavo,
immersomi nell'onda ionia, giù
verso il peso dell'àncora tenace:
e quella misi in salvo, ma, io stesso,
mentre su ritornavo dall'abisso,
e già davo le mani ai marinai,
fui addentato da un mostro terribile
che mi recise fino all'ombelico.
E i marinai trassero dal mare
una metà di me, peso gelato:
l'altra aveva ingoiato il pescecane.
Così, su questa spiaggia, seppellirono
di me, Tarsys, i resti, o viandante;
più non feci ritorno alla mia patria.

XXII
(A.P. VII, 504 = LXVI G.P.)

Parmis - di Callìgnoto -
abile nel pescare con la canna,
e pescatore di tordo e di scaro
e del pesce persico, avido di esca,
e di quanti altri abitano gli anfratti
profondi e negli scogli inabissati,
mentre un giorno mordeva un'iùlis di scoglio,
la prima che traeva su dal mare,
perché il granchio funesto gli sguizzò
rapido nella gola dalla mano,
soffocato moriva contorcendosi
tra le corde e le canne e gli ami sparsi,
così compiendo il filo del destino.
A lui morto eresse questo tumulo
il pescator Gripon.

XXIII
(A.P. VII, 455 = LXVIII G.P.)

Sotto giace Maronide,
la vecchia sempre avida di vino,
fiamma che lasciò secca ogni bottiglia.
E, simbolo da tutti conosciuto,
ha sulla tomba un calice dell'Attica.
E anche sotto terra si lamenta:
non per i figli, né per il marito,
che ha lasciato sul lastrico, affamato,
ma perché resta il calice, lì, vuoto.

XXIV
(A.P. V, 206 = XLIII G.P.)

Melo e Satira, già vecchie,
figliole di Antigànide, operaie
contente delle Muse: Melo dedica
il doppio flauto dalle labbra esigue
alle Muse Pimplee, con questo
fodero per flauti, di bosso:
e Satira, amica dell'amore,
la canna che fischietta soavemente
e rallegra di sera i bevitori,
costruita con l'aiuto della cera.
E con questa vegliando tutta notte,
vide l'aurora, e il sole, ritornare,
dimentica delle porte di casa.

XXV
(A.P. VII, 480 = LXXIV G.P.)

Scoperchiate e pestate le mie ossa;
e mi tortura la lastra di pietra,
che pesa, smossa, sulle mie giunture.
Avidi i vermi guardano di dentro;
che vale ricoprirle con la terra?
Certo, per camminare sul mio corpo,
i viandanti hanno aperto una strada
che nessuno mai prima percorreva.
Ma, per gli Dei che regnano sotterra,
Aidoneus, Hermes e la Notte,
andate via di qua!

XXVI
(A.P. VII, 472 = LXXII G.P.)

Uomo, infinito il tempo,
prima che tu venissi alla tua aurora,
e il futuro nell'Ade è interminabile.
Che rimane alla vita? Forse un punto,
forse meno di un punto. La tua vita
è breve, angusta, senza gioie e più
dell'orribile morte ripugnante;
è ripugnante come ripugnante
è una testa rapata dal rasoio,
più ancora dello scheletro di un ragno.
Tenuti su da quattr'ossa congiunte,
gli uomini torreggiano nell'aria
e alle nubi si slanciano; ma, vedi,
uomo, come inutile;
perché assiduo un tarlo
lavora intorno al filo della vita.
Maeschina la tua forza! D'alba in alba,
inclina meglio ad una vita semplice;
e, finché resterai vivo fra i vivi,
ricorda a ogni passo
quanto il tuo stelo è delicato, fragile.

XXVII
(A.P. VII, 731 = LXXVIII G.P.)

- Come la vite al paio, così io:
un tempo dritto, ora mi reggo solo
per il bastone, e morte chiama all'Ade.
No, non essere Gorgo, tanto sciocco:
che giova stare a riscaldarti al sole
ancora per tre o quattro primavere? -
Né furono parole:
perché il vecchio, ripudiata la vita,
passò da questo al soggiorno dei più.

XXVIII
(A.P. 206 = LXXXIX G.P.)

Solo Eros adorano i Tespiesi,
il dio fanciullo, nato a Citerèa;
lo scolpì non guardando altro modello,
ma come dentro lo sentì, Prassitele
che volare lo vide intorno a Frine;
e a lei lo dedicò, pegno d'ardore.

XXIX
(A.P. VII, 13 = XCVIII G.P.)

Erinna, la fanciulla poetessa,
mentre, ape fra i poeti,
volava sopra i fiori delle Muse,
Ade strappava, ancora senza nozze.
E la fanciulla, agile di mente,
disse così: "Tu sei invidioso, Ade!"

XXX
(A.P. VI, 120 = XCIII G.P.)

Non solo so cantare dagli alti alberi,
quando più cuoce il sole, sui viandanti,
e bere a mio ristoro la rugiada,
ma anche sulla lancia di Minerva
dall'elmo luccicante,
o caro, puoi vedere me cicala.
Quanto io dalle Muse,
tanto da me Minerva viene amata,
la Vergine che gode al dolce flauto.

XXXI
(A.P. 230 = LXXXVI G.P.)

Tu, viandante, non bere di quest'acqua,
calda, nel fosso, e torbida di fango
che rode le erbe;
ma superata la salita breve,
sulla cima, nutrice di giovenche,
sotto quel pino troverai tu l'acqua
che armoniosa rompe dalla roccia
fredda più della neve alta del Nord.

XXXII
(A.P. VII, 652 = XV G.P.)

Rumoroso mare, perché
Teleutàgora, figlio di Timares,
che su nave non grande navigava,
col carico mandasti a capo in giù
rovesciandogli addosso onde affamate,
mentre intorno ruggiva la tempesta?
Dovunque sia, sopra deserta spiaggia
lui morto lamentano gli aironi
e i gabbiani, avidi di pesci;
e Timares piange
sulla tomba del figlio senza il figlio.

XXXIII
(A.P. VII, 264 = LX G.P.)

Sia dolce il viaggio del marinaio in mare.
E se furia di venti
spinga ai porti dell'Ade, come me,
chi gomene snodò dalla mia tomba,
alla sua stessa audacia,
non dica male al vortice affamato.

XXXIV
(A.P. IX, 326 = V G.P.)

O fredda tra due rocce acqua precipite,
salve! E voi, rozze statue di ninfe,
foggiate dalle mani dei pastori!
O rocce, fresche di sorgenti, e, o vergini,
queste immagini vostre senza numero,
bagnate dall'acqua, io saluto.
Qui, io, Aristòcle, dono questo corno,
nel quale bevvi, viandante assetato.

XXXV
(A.P. IX, 322 = XXV G.P.)

Questo bottino non per me. Chi appende
al tempio di Ares grazia senza grazia?
Elmi non rotti, scudi senza sangue,
esili lance, intatte.
Arrossisco nel volto per vergogna
e sudore mi gocciola sul petto
giù dalla fronte: con oggetti simili
un portico si adorni
e una sala e una corte
e stanza nuziale; ma bottino
caldo di sangue adorni il tempio di Ares,
agitatore di cavalli: solo
così potremo renderlo propizio.

XXXVI
(A.P. XVI, 306 = XXXI G.P.)

Guarda il vecchio Anacreonte ubriaco fradicio
su quel sasso rotondo come pencola;
e che brama in quegli occhi di crepuscolo!
E si tira il mantello sui malleoli,
ché una scarpa l'ha persa per la sbornia
e nell'altra non riesce ad infilare
il piede rattrappito. - Megisteo,
canta, Batillo mio!... - ; e come tenera
sotto le dita vibra la testuggine!
Ma sorreggilo tu, padre Dioniso,
che un servo tuo non cada per il vino.

XXXVII
(A.P. X, 1 = LXXXV G.P.)

E' tempo di riprendere il mare.
La rondine ciarliera è ritornata
e già con grazia Zefiro sospira;
e i fiori si alzano nei prati,
e il mare che all'impeto dei venti
fu sconvolto dalle onde,
ora si abbandona ai suoi riposi.
Togli le àncore, su, snoda le corde,
o marinaio: queste cose impongo
io, Priapo, custode dei porti;
naviga finché è tempo di mercato.

XXXVIII
(A.P. IX, 99 = XXXII G.P.)

Agile nel saltare,
il barbuto marito della capra
una volta, in un campo,
tutti spezzò saltando i tralci teneri;
ma con rimbombo gli parlò la terra.
"Spezza, distruggi, bruto, col tuoi morsi
i bei sarmenti che ci danno l'uva;
le radici rimangono pur sempre
e daranno di nuovo il dolce vino,
quanto basta ad irrorarti tutto,
brutto caprone, nel tuo sacrificio".

XXXIX
(A.P. VI, 305 = LVI G.P.)

Le caldaie panciute di Larisa,
le pentole e il bicchiere smisurato
e la curva forchetta
di bronzo, lavorata,
e la grattugia e anche il ramaiolo,
adatto a mescolare la polenta:
questi doni la testa di Dorieo,
puzzolente di sterco, dedicò
alla Voracità e all'Appetito
che alle labbra non dà mai riposo.
E tu, Voracità, accettando questi
brutti doni di brutto donatore,
non ricordargli mai assennatezza.

XL
(A.P. VII, 35 = 99 G.P.)

Gradito ai forestieri era quest'uomo,
e caro ai cittadini:
Pindaro, ministro delle Pieridi
dalla voce soave.

XLI
(A.P. MI, 719 = 9 G.P.)

Io, qui, tomba di Tellen,
sotto la terra custodisco il vecchio
che primo modulò canti scherzosi.

XLII
(A.P. VII, 19 = 57 G.P.)

Il cigno che cantò canti nuziali,
e voce aveva degna delle Muse,
il grazioso Alcmane,
la tomba chiude: lui, gloria grande
di Sparta; o che egli della Lidia
.........................................
.........................................
gettato il corpo se ne scende all'Ade.

XLIII
(A.P. IX, 719 = 28 G.P.)

Menti Mirone, non mi modellò,
pascolante mi trasse via dal gregge
fissandomi per sempre su una pietra.

XLIV
(A.P. IX 179 = 28 G.P.)
Chi da legno d'incenso
trasse Eros con l'arco
- e una volta scoccò anche su Giove? -
Su Efesto ora mira,
ma giunta è la sua fine, anche se tardi.
Che nessuno lo guardi,
se non dal fuoco sparpagliato in cenere.

XLV
(A.P. IX 320 = 24 G.P.)

Disse Eurota a Ciprys una volta:
"O prendi le armi, oppure lascia Sparta,
perché in armi la città tumultua".
Rispose con un molle sorriso
la dea: "E io resterò senza armi,
abitando in Sparta tuttavia".
E Ciprys è senza armi; ma i sapienti
dicono, svergognati!, che anche Ciprys
qui da noi porta le armi.

XLVI
(A.P. VII, 466 = 71 G.P.)

Qui Timocleia e qui Filo ed Aristo
e Timàito, figlie di Aristòdico,
morte tutte di parto: e fu per esse
che anche il padre, Aristòdico, morì,
appena ebbe innalzato questo tumulo.

XLVII
(A.P. VII, 466 = 71 G.P.)

Povero Anticle ed, ahi, povera me
che sopra il rogo ho posto il figlio mio,
l'unico: e a diciotto anni mi moristi,
fiore di giovinezza! lo qui ti piango,
e compiango la mia nuda vecchiezza.
Voglio scendere anche io
nella casa di Ade, tenebrosa.
Non mi consola Aurora e
non raggio di sole fuggitivo.
Povero Anticle, ahimé, che soggiacesti
al tuo destino. Sii medico tu
del mio dolore: toglimi la vita.

XLVIII
(A.P. VII, 452 = 67 G.P.)

O passeggeri, ricordando il sobrio
Eùbulo, beviamo:
porto comune, attende tutti Ade.

XLIX
(A.P. VII, 654 = 16 G.P.)

Sempre ingiusti i Cretesi,
e predoni e corsari! Chi di essi
conosce la giustizia?
Rotolarono in mare anche me,
sventurato Timolito,
che navigavo con meschino carico!
Su di me fan lamento ora i gabbiani,
figli alati delle onde:
Timolito non sta sotto la pietra.

L
(A.P. VII, 715 = 93 G.P.)

Giaccio, ahi, come lontano
dall'italica terra,
da Taranto, mia patria:
e questo mi è più amaro della morte!
Senza vita è la vita dei randagi.
Ma, io, ebbi l'amore delle Muse,
dolce, nelle sventure, come miele.
E il nome di Leonida
è vivo: questi doni delle Muse
sulle onde del tempo lo sospingono.


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