Alcuni aspetti del sentimento della morte nella cultura di massa e nella cultura popolare




Brizio Montinaro



Qualche mese fa ho avuto modo di occuparmi del tema della Morte in una delle trasmissioni di COME SE, la rubrica culturale di RADIOTRE della quale ero titolare. Fu in questa circostanza che ebbi modo di constatare personalmente quanto forte fosse il tabù della morte in una grande città come Roma e in un ambiente in particolare: quello degli intellettuali. La cosa, confesso, non mi trovò del tutto impreparato perché in altre occasioni ne avevo avuto i segni, avendo da qualche tempo indirizzato la mia attenzione su questo argomento; ma, certo, mi sorprese per la sua forza e per la profondità delle sue radici.
Dovevo dunque cercare, come era consuetudine nella mia trasmissione, due ospiti più o meno esperti che venissero a parlare con me sul tema della Morte. Mi vennero subito in mente i nomi degli studiosi italiani più noti che si erano occupati a lungo dell'argomento: Mario Praz e Alberto Tenenti; e per altre interviste brevi da inserire nel corpo della trasmissione, i nomi di Giovanni Berlinguer, Enrico Maria Pace, Liliana Cavani e altri. E' vero, non c'era proprio che l'imbarazzo della scelta, come si dice, ma potevo contare su un certo numero di persone che per un verso o per l'altro si erano occupate nella loro professione del "problema" della morte. Escludevo, volontariamente, in questa mia ricerca degli ospiti, gli antropologi, perché c'erano già stati nelle precedenti trasmissioni e in numero massiccio. Ma è bastato un giro di telefonate per rendermi conto dei guai nei quali avevo messo me stesso e i miei collaboratori con la scelta di questo tema: nessuno degli interpellati, per un motivo o per un altro, accettava. Alcuni che in un primo momento sembravano disposti ad intervenire, appreso il tema, reagirono quasi offesi, finsero addirittura di non capire perché erano stati chiamati proprio loro; ed erano quelli, invece, che più degli altri si erano occupati dell'argomento nella loro attività professionale. Alberto Tenenti, residente in Francia, con il quale ci saremmo eventualmente collegati via cavo, autore de "Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento" dopo aver risposto affermativamente si rese poi irreperibile al telefono. Liliana Cavani, la regista de "Il portiere di notte", aggredì al telefono la mia collaboratrice che l'aveva interpellata.
Mario Praz, l'autore de "La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica", testo fondamentale, disse che si meravigliava oltremodo del fatto che avevamo pensato a lui come possibile interlocutore su un tema dei genere.
Era la prima volta che accumulavo "rifiuti" da parte di ospiti nella storia della mia trasmissione che ormai andava avanti da mesi. E devo dire che fu anche l'ultima. Ciò meritava quindi qualche riflessione. Scoprii immediatamente che per qualcuno degli interpellati girava la voce, tra gli intellettuali, che portasse male e che, al solo pronunciarne il nome, scattavano nei presenti una serie di gesti scaramantici che andavano dal palparsi i testicoli, simbolo di vita, al fare le coma. La trasmissione infine fu fatta con l'antropologo Luigi Lombardi Satriani e con l'ottima giornalista Lietta Tornabuoni.
Esisteva dunque tra le persone colte ed altamente civilizzate un vero e proprio tabù della morte.
Decisi allora di svolgere un'indagine su due piani diversi: cultura di massa e cultura della classe subalterna, quella salentina in particolare, perché del resto già da tempo mi teneva occupato.
Scoprii che il tabù della morte è presente in modo vistoso nella classe media, nella grande e piccola borghesia, nel ceto dei lavoratori ed ancora di più in quasi tutti i raggruppamenti sociali delle grandi città industrializzate. Si direbbe quindi estremamente presente nel sentimento collettivo della società quanto più questa è presa nell'ingranaggio del profitto.
Più l'uomo è teso a produrre più sono radicati in lui il tabù e la paura della morte.
Per chiarire questa affermazione, faccio mia la tesi espressa da Philippe Ariès.
"Una causalità immediata salta subito all'occhio: la necessità d'essere felici, il dovere morale e l'obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva evitando ogni causa di tristezza o di noia, dandosi l'aria di esser sempre felici, anche se si tocca il fondo della desolazione. Mostrando qualche segno di tristezza, si pecca contro la felicità, la si rimette in discussione, e allora la società rischia di perdere la sua ragion d'essere". (1)
Questa idea di "felicità" ci conduce in America, negli Stati Uniti, dove, sempre secondo lo storico Ariès, pare nato, agli albori del XX secolo, con l'enorme sviluppo delle grandi industrie, l'atteggiamento moderno nei confronti della morte "cioé il divieto della morte per salvaguardare la felicità" (2) La ricerca della felicità nella cultura capitalistica è legata naturalmente a quella del profitto e ad un rapido incremento economico. Ora, le leggi dei profitto non permettono di parlare di morte, ma, proprio mentre ne danno il divieto, esse stesse lo violano creando, e l'America è un esempio paradigmatico, l'industria stessa della morte.
Con l'attuale crisi del capitalismo va in crisi oggi anche l'atteggiamento nei confronti della morte ad esso legato. E mentre, ancora in questa situazione di passaggio, si continua a cercare di parlare il meno possibile di morte, la morte, attraverso la violenza quotidiana, morale e fisica, pare oggi presente come mai lo era stata da trenta, trentacinque anni a questa parte. L'elevato numero dei suicidi di Takashimadaira, città satellite di Tokio, le morti silenziose tra i militanti della vecchia nuova sinistra, i morti della Guiana sono solo alcuni esempi clamorosi. Poi vi sono le tante morti feriali e quelle festive, le politiche, le quali danno luogo a manifestazioni di neo-folklore e nuova religiosità popolare per una loro diversa valenza. A Roma, nei luoghi in cui sono caduti Giorgiana Masi e gli uomini della scorta di Moro e nel luogo del ritrovamento dello statista morto, si sono creati specie di altari per i nuovi martiri e sono ormai meta di "pellegrinaggi".
Le morti di questo tipo sono ancora le poche cariche di valori morali.
Ma il caso Moro è molto particolare per la storia della morte non tanto per le circostanze della fine o del ritrovamento del corpo ecc., quanto per la sua presenza nei mass media come morto che parla, che ingombra, che determina, che ha un peso politico e sociale, forse, quanto e più di quando era vivo.
Con il caso Moro noi abbiamo assistito ad una grossa gestione della morte e del lutto estremamente sofisticata e moderna. In particolare, il momento della prigionia di Aldo Moro è stato vissuto attraverso i giornali e la televisione come l'organizzazione del lutto di un uomo che già veniva considerato morto attraverso il meccanismo di non considerarlo lucido, non più sé stesso; le lettere non più moralmente a lui ascrivibili. Il potere e i mass media hanno finito per gestire a livello simbolico una realtà che invece aveva una sua drammaticità presente e non codificabile culturalmente in modo facile.
Morte e violenza, si diceva, sottolineando una moderna caratteristica della morte.
Esiste un intero gruppo sociale, oggi in Italia abbastanza vasto, il gruppo della classe dirigente diffusa, che vive nella paura di morire di morte violenta. Questo tipo di paura però non riguarda direttamente tutti i livelli della società; ma proprio perché riguarda la classe dirigente, che è quella che produce la cultura di massa che impone attraverso giornali, televisione e altri mass media di cui dispone, a questa nuova paura della morte partecipano tutte le classi sociali. E pensiamo ai tanti segnali di morte che troviamo presenti nelle grandi città come Roma, Milano, Torino, Genova ecc.: soldati con le armi in pugno, edifici difesi oppure assediati dai propri difensori, porte blindate, vetri antiproiettile, pubblicità di sistemi di difesa ecc. Sono tutti elementi, questi, che rimandano immediatamente all'idea di violenza e al pericolo di morte.
Le immagini attraverso la televisione e il cinema oggi si consumano in ogni più recondita campagna d'Italia, sono spessissimo immagini di cadaveri stesi sull'asfalto con le braccia aperte, di cadaveri rannicchiati in un'automobile con la testa china sul volante, di corpi che hanno cercato di scendere dall'auto e sono metà fuori e metà dentro. Sono tremende immagini di morte.
La stessa cronaca dei quotidiani offre poi una gran quantità di notizie e foto mortuarie: omicidi e in gran numero suicidi. Gente che ammazza e che viene ammazzata, che si ammazza. Da parte dei giornalisti si nota, fatto nuovo, un certo compiacimento nell'usare la parola forte rispetto all'eufemismo del passato. C'è uno sbiadimento semantico delle espressioni eufemistiche con le quali prima si cercava di occultare il dato della morte per non guastare la ricerca della felicità collettiva. Un periodico pubblicizzava se stesso: "Una raffica di notizie", ma mentre viene sparata questa raffica con parole crude, proprio oggi, dai giornali, si occulta la realtà attraverso una accorta opera di manipolazione tra il dato e l'esistenza quotidiana.
Non si occulta più tacendo, si occulta dicendo.
Viviamo oggi in Italia, come appare da quanto ho detto, una grande contraddizione. Da un lato la morte riafferma sempre più la sua presenza, dall'altro tutta l'organizzazione ideologica e produttiva della nostra società è fatta in maniera tale da imporre l'accantonamento della morte. Viviamo una condizione schizofrenica imposta dalla cultura egernone: non si deve pensare alla morte ma la morte è nel quotidiano. Viviamo infine, in maniera dilacerata, due realtà contraddittorie alle quali spesso si reagisce con il suicidio, con la strage, con l'insopportabilità della situazione.
Se questa dunque è la realtà riguardo il tabù della morte e la paura di morire, cosa accade quando poi si muore? Se viviamo una situazione schizofrenica per quanto riguarda la morte di noi, come poi ci comportiamo per la morte degli altri ?
Caratteristica del nostro tempo è il morire in ospedale, fuori di casa, fuori dal proprio letto. Nei paesi anglosassoni esistono addirittura cliniche dove si può andare a morire. A Londra nel 1971 ne esistevano già cinque. Specie di cimiteri degli elefanti dove l'uomo si reca per esalare l'ultimo.
Ma, senza arrivare a questi orribili eccessi, già lo stesso morire in ospedale per la storia della morte è un fatto nuovo e non completamente accettato.
E morire oggi è ritenuto un atto sconveniente da occultare e dimenticare quanto prima.
Al vecchio tabù del sesso si è sostituito il nuovo tabù della morte. Oggi ai bambini si insegna il sesso a scuola, ma li si allontana da casa alle prime avvisaglie di morte di un parente. Ai bambini non si permette di mettere piede in ospedale dove giace un parente che muore e al quale sono affezionati perché non bisogna turbare con immagini sgradevoli la loro infanzia felice supervitaminizzata. Intanto però, passando pomeriggi e serate intere davanti al televisore si nutrono di immagini di morte e di violenza. E i loro giocattoli sono quasi, sempre riproduzioni di strumenti di morte.
Il rituale funebre di oggi si è ridotto all'osso; i superstiti spesso organizzano camere ardenti negli obitori degli stessi ospedali dove il parente ha trovato la morte proprio per non avere i fastidi del portarsi i morti in casa e di sottostare a qualche visita di condoglianze che conoscenti e vicini indiscreti, non perfettamente educati, osano ancora fare.
Bisogna dimenticare, accantonare l'evento luttuoso.
La morte con la sua presenza mette in imbarazzo i superstiti perché procura loro una forte emozione; e proprio questa, invece bisogna evitare in pubblico, secondo i dettami della cultura egemone. "Si ha il diritto di commuoversi solo in privato, cioé di nascosto". (3) "Le manifestazioni esteriori" rituali del lutto vanno quindi man mano scomparendo anche nei piccoli centri perché sono al limite della "civiltà", della "buona educazione".
La società di oggi, addestrata a ferree leggi competitive, considera la presenza del sentimento come una grave mancanza, un insopportabile cedimento. Bisogna essere forti a tutti i costi, o almeno sembrare di esserlo. Come diceva Gorer, il lutto solitario e pieno di vergogna è l'unica risorsa, come una ,specie di masturbazione. (4)
Bisogna avere il senso del pudore.
In tale situazione un funerale ben riuscito è un funerale rapido, ben organizzato da una ditta di pompe funebri e senza lacrime. Ma l'assenza del pianto, di un rituale non è certo assenza di dolore o superamento del sentimento della morte. Anzi, l'evento luttuoso comporta spesso per quei superstiti un trauma tanto più grave quanto più represso è il dolore. Il pianto rituale interrotto non risolve la crisi di cordoglio dovuta alla perdita della persona cara, l'aggrava.
In una cultura di questo tipo esistono, nei confronti del cimitero, due atteggiamenti diversi e contrari. Da una parte, i cimiteri sono poco frequentati perché ritenuti esclusivamente luoghi di deposito di cadaveri; e questo accade in modo estremamente vistoso soprattutto nelle grandi città e tra gli esponenti di una classe impegnata nei servizi terziari. Da un'altra, esiste tra gli esponenti della classe piccolo borghese impiegatizia e dell'alta borghesia tutta un'ideologia della tomba che vuole questa, la casa per sempre, quanto più possibile ricca sotto le specie della semplicità perché rimanga nei vivi il ricordo dello status sociale faticosamente raggiunto o, per l'alta borghesia, dello status da sempre posseduto da parte di chi non è più.
E allora si fanno costruire cappelle, mausolei, con marmi e statue; si richiamano alla memoria frasi latine ad hoc, e su tutto si appone il nome di famiglia.
Queste rapide considerazioni di carattere generale sul tema della morte valgono naturalmente per tutti gli esponenti della cultura di massa di tipo urbanocentrico e di tutte quelle culture antropologiche che hanno come ideologia la fuga dalla morte che spesso si risolve però, come abbiamo visto, in fuga dalla vita. E il Salento di cui ora parlerò non ne è certo fuori.
Non si accantona infatti la morte senza pagare un costo altissimo.
Bisogna gestire quindi il pericolo che la morte costituisce, la morte come elemento culturale, e non accantonarla con l'efficientismo cinico che è oggi l'ideologia imperante.
"Lottare per una vita migliore, senza sfruttamento-appropriazione del dominato da parte del dominatore, per una società nuova che preferisce l'accumulazione d'uomini, a quella di beni, vuol dire nello stesso tempo rifiutare il tabù della morte in quanto mediazione dei potere che opprime".(5)
Vediamo ora, sempre per quanto lo spazio a disposizione ce lo permetta, se esiste il tabù della morte, qual è l'atteggiamento nei confronti dell'atto finale e quali sono i rituali esistenti tra gli esponenti delle classi subalterne dell'area, abbastanza limitata e relativamente complessa, quale è quella salentina.
E' chiaro che le culture prese in esame in questo scritto non si possono e non si devono intendere come due realtà decisamente separate e contrapposte, ma soltanto come le due parti imprecisate e opposte di una sola retta, che comunque è una, non permette di stabilire soluzioni di continuità, né di fissare limiti di divisione.
Il concetto base sotteso ad ogni ragionamento e sentimento è, che tutto passa - "Mena mena ka poi passa", "Olo pai" - il Panta rei della filosofia eraclitea. Davanti ad ogni sciagura della vita, morte inclusa, il salentino rimane relativamente calmo tanto tutto è destinato a passare, a mutare, a divenire.
A chi gli chiede come sta, la risposta che dà è sempre la stessa: "Tiràmu finché non ci tìrane" (Andiamo avanti finché qualcuno non ci trasporta al cimitero). Identico il detto grecanico: "Sìrnome ris'e'mma sìrune".
Ciò non significa però che davanti alle difficoltà più grosse e soprattutto all'evento luttuoso il salentino rimane apatico rassegnato. La morte anche se viene considerata come un fatto naturale che investe uomini animali e piante, fatale, ineluttabile, viene combattuta con vari mezzi che vanno dalle pratiche magico-religiose alla medicina ufficiale.
"Per stare bene" si frequentano santuari e ci si rivolge ai santi. Sono famosi i santuari di San Rocco a Torrepaduli, di San Donato a Montesano, dei Santi Pietro e Paolo a Galatina, di San Pantaleo a Martignano, di San Donato nel paese omonimo, dei Santi Medici a Oria ecc. Si passa attraverso "la pietra forata" di San Vito sita nella campagna calimerese, si praticano usi magici per scongiurare la perdita della salute e per allontanare l'evento luttuoso che in alcune poesie grecaniche comunque non è dato mai per scontato: "A'ppesàno, aftèntimu kòseme ... " (Se muoio, mio Signore, sotterrami...), "A'ppesàno telo na me klazzi ... " (Se muoio voglio che tu mi pianga), anche se, subito dopo, chi parla richiede ai sopravvissuti un certo determinato comportamento, post mortem.
Il tabù della morte nella cultura contadina salentina non esiste.
Di morte si parla, di morte si racconta nelle serate d'inverno o seduti al fresco nelle notti d'estate, di morte si canta. Esiste certo la paura di morire, per timore del giudizio divino, soprattutto nella cultura salentina di lingua romanza; e la troviamo presente in vari testi della poesia popolare. In uno raccolto a Lecce, per esempio, si dice:

Ièu me curcu a lettu mèu la sera
me trèmula lu core pe' 'na gran paura
me vìsciu de la morte secutàre
'ole me porta a chira fossa scura ...
(6)

e un altro, abbastanza diffuso in tutto il Salento, comincia "Morte Giudiziu infernu e paradisu".
In un Contrasto in dialetto romanzo, anche questo diffuso qua e là nel Salento, si coglie l'ineluttabilità del dato "morte" di cui dicevo e i tentativi che la persona morente fa per allontanare il momento dei distacco. Ne riporto il testo:

- Sentu le porte bbàttere
li ferri cotulàre
forzi ca e' lu medicu
ca me vene a visitare.

- No'ssuntu né lu medicu
e mancu lu speziale
ièu su' la morte 'retica
ca t'aggiu da purtare.

- Aprìtili la porta
facìtila trasire
forzi ca passa l'ura
e me face campare.

- Non vòju né la porta
e mancu cu me abbrìti
ièu su' la morte 'retica
ca t'àggiu da purtare.

- Dàtili 'na sedia
facìtila ssettàre
forzi ca passa l'ura
e me face campare.

- Non vòju né la sedia
e mancu lu ssettàre
ièu su' la morte 'retica
ca t'àggiu da purtare.

- Dàtili la bbanca
e facìtila mangiare
forzi ca passa l'ura
e me face campare ...

Alla morte si vuol dare ancora una nave per navigare, un giardino per passeggiare ed altro, a seconda delle versioni della poesia, ma sempre senza speranza. L'ultima quartina è della Morte e conclude:

- Mintìtili le vesti
facìtila vestire
ca è 'rrivata l'ura
e nui ìmu partire.

Ed ecco compiersi per il contadino salentino l'eresia della morte. A questo punto scatta una serie di comportamenti rituali per contenere e canalizzare la piena del dolore che può togliere al superstite la facoltà di "trascendere il momento critico della situazione luttuosa" (7)

Klàfsete, mane, pu èkete pedìa
ce klàfsete ma pònon dinatò,
na sas erti atta fidha tis kardìa,

ti sas afìnnu' pròppi to cerò.
Erkete o Tànato, pu e' respettèi,
ma to trapànittu to kofterò ...

Piangete, o madri, che avete figli,
piangete con dolore prepotente,
che vi venga dalle foglie del cuore,

perché vi abbandonano anzitempo.
Viene Tanato che non rispetta nessuno,
viene con la sua falce tagliente ...
(8).

Il pianto e il lamento che in questi versi vengono consigliati fanno ancora parte, ma raramente, del rituale funerario della classe povera salentina sia grecanica che romanza. (9)
La funzione del lamento funebre, come di gran parte del rituale che segue la morte, è quella di assumere l'evento luttuoso, costituito dalla perdita della persona cara, per reagire alla condizione di "ebetudine stuporosa" che si è venuta a creare.
Lo ha dimostrato magistralmente Ernesto De Martino con la sua indagine esemplare su "Morte e pianto rituale" alla quale rimando il lettore per una migliore e più approfondita informazione sull'argomento.
La morte di una persona cara dunque può, far precipitare i familiari superstiti in una condizione di crisi; a questa crisi bisogna reagire attraverso modelli di comportamento che la cultura ha determinato; comportamento protetto, attraverso il quale si può trascendere la crisi individuale trasformandola in valore per la sopravvivenza. Ora, come si è già detto, non si può sfuggire dalla morte accantonandola: bisogna assumerla, darle significato, senso; bisogna elaborare delle tecniche di difesa dal potere di contagio del morto perché la vita deve continuare E questo bisogno ben lo sente nel profondo il contadino della penisola salentina, e non solo di essa, e cerca di soddisfarlo, a livello inconscio certo, attraverso delle tecniche di difesa estremamente complesse ed efficaci per la sua sopravvivenza.
I vivi dunque hanno la necessità di difendersi dalla morte e dai morti; ciò non significa che si debba passare da una condizione di amore verso i familiari, verso una persona cara defunta, ad una condizione di odio. Si tratta di trasformare quello che fino a pochi momenti prima era vivente e con il quale c'era una rete di relazioni molto intense, in presenza benefica e protettiva e ciò per evitare che egli possa contagiare, trarre nel regno dei morti e, in un certo senso, possa perseguitare i sopravvissuti come immagine allucinatoria.
La vestizione del morto con abiti nuovi, con scarpe nuove, gli oggetti che gli si mette nella bara da portare nel "paese straniero", la veglia funebre, il corteo d'accompagnamento ecc. che sembrano gesti dettati, in chi rimane, solo dalla pietà, e certo a livello cosciente lo sono, hanno soprattutto la funzione di espellere il morto dall'orizzonte quotidiano, direi quasi, se l'espressione non suonasse grottesca, senza che lui se ne accorga. Bisogna vegliare - e parlo di significati profondi molte volte non avvertiti dagli stessi protagonisti dei riti -, bisogna controllare durante la veglia che il morto sia morto e che resti tale, in modo che poi non ritorni.
Il corteo d'accompagnamento, il trasporto dei cadavere dalla casa alla chiesa e dalla chiesa poi al limitare del paese dove il corteo dei vivi si ferma e si scioglie perché non può andare oltre, fino al cimitero, costituisce una tecnica di espulsione dallo spazio del noto - il paese -, e di delimitazione del cadavere in un altro spazio: il cimitero, come spazio dei morti. In molti paesi salentini e, come mi ha confermato Luigi Lombardi Satriani, in tanta parte dell'Italia meridionale, esiste, ai confini dei paesi, salvo che sia stato poi per l'espansione degli stessi in tempi posteriori inglobato all'interno, il Monte Calvario che commemora la passione e la morte di Gesù Cristo. A questa funzione religiosa del calvario se ne aggiunge un'altra culturale, quella di delimitazione, e quasi sempre il Monte Calvario è ai limiti del paese verso il cimitero, tra il regno dei vivi e il regno dei morti. La commemorazione visualizzata della morte del Cristo fa diventare Cristo morto paradigmatico e barriera di fronte al possibile ritorno dei morti, alla possibile invasione del mondo dei vivi. Vi sono numerose credenze popolari nel Salento soprattutto non grecanico, dove maggiore è stata a livello di religiosità popolare l'azione della chiesa cattolica, e in tutto il Sud d'Italia, che parlano dei ritorno dei morti nella notte del martedì, nella notte del venerdì e in altre occasioni particolari. Questa specie di processione dei morti che tornano, che si snoda nelle vie dei paese, non può essere vista da alcun vivente altrimenti questi morrà. Il ritorno dei morti deve essere culturalmente controllato.
Vi è il tentativo di ricondurre, attraverso le griglie del noto, la presenza minacciosa che l'esistenza dei morti dà alla vita quotidiana dei vivi per poterla poi controllare attraverso la creazione di barriere protettrici e diverse realtà simboliche.
Poiché nel Salento, e soprattutto in quello grecanico, la famiglia è soggetto metastorico essendo costituita dai superstiti ma anche dai defunti, non esiste una vera e propria ideologia dei ricordo.
Con i morti si continua a parlare come fossero vivi, a comunicare; cambia certo la qualità e l'oggetto del dialogo, ma questo non viene mai interrotto. Ai morti si rivolgono preghiere e attenzioni, ma da essi si vogliono consigli, protezioni ecc. "Cu pensami quiddi pe' nui". E i morti spesso infatti appaiono in sogno ai vivi per dare loro indicazioni di comportamento e per fare richieste di vario tipo ed esprimere le loro volontà. Possono continuare persino a nutrirsi attraverso il cibo che i parenti danno da mangiare ad un povero. Nella poesia popolare funebre - lamenti e moroloja -, si trovano fissate condizioni e significativi esempi di dialoghi a conferma di quanto dico.
Il tramite privilegiato tra i vivi e i morti è in genere la donna: la donna è prèfica, la donna canta i lamenti, la donna vestita di nero, sola, dialoga seduta nel cimitero davanti alla tomba.

- Issimèlu dittu, màmmama,
ca vi'a ce tiempu me poi tornare.
- Ca te l'aggiu dittu, fijama,
de nuddu tiempu no' mme spettare
(10)

canta davanti alla bara l'ultima prefica salentina, e a questo dialogo, uno dei tanti in romanzo, fa eco l'altro in grecanico:

- Arte pu se xòsa', kècciamu,
Ti' su stronni o cravattàci?

- Mu to stronni o mavro Tànato
ja mia nitta poddì mali.

- Ti' su ttiàzzi a capetàia
n'àki na plosi treferà?


Ma ta ttiàzzi o mavro Tànato
ma lisària ta tzerà.
Ti' 'se' zzunnà, kiatèramu,
motti e 'mera ene azzilì?

- Ettù 'kau e' panta ìpuno,
panta nitta scotinì.

Ora che sei sotto la terra, piccola mia,
chi ti rifà il lettino?

Me lo rifà il nero Tanato
per una notte molto lunga.

Chi ti mette a posto il cuscino
perché tu dorma morbido?

Me lo mette a posto il nero Tanato
con le pietre più dure.

Chi ti sveglia, figlia mia,
quando è giorno alto?

Qui sotto è sempre sonno,
sempre notte buia.

Sono dialoghi con la dimora buia, senza speranza, pieni di tristezza. Ma nei dialoghi al cimitero e, soprattutto nel pianto e nei canti delle donne greche, non c'è l'angoscia dei Giudizio, non si aspetta il giorno del ritorno, della resurrezione - giorno in cui le tombe si apriranno e i morti verranno fuori, il che genera nei vivi l'ideologia del ricordo -, né l'attesa, c'è invece la certezza che tutti un giorno saremo nel mondo di là, sotto la nera pietra, e c'è la sicurezza che da lì nessuno più ritorna, o forse solo, come continua il lamento romanzo citato prima,

"Quandu caccia mascìscia l'Alìmini,
quandu se sìmena lu mare"

e l'Alimini non sarà mai fertile e il mare non sarà mai seminato.
Le tombe dei poveri nel Salento sono in genere costituite da tumuli di terra con una croce di legno. In questi ultimi tempi si cerca di evitare però questo tipo di sepoltura e di favorire quella in cassettoni.
I cimiteri sono molto frequentati dagli appartenenti alla cultura subalterna in ragione direttamente proporzionale alla loro povertà. Il ceto medio di cui parlavamo prima teso al raggiungimento egoistico della felicità attraverso il consumismo, ridotto il rituale funerario, piuttosto che frequentare assiduamente il cimitero, preferisce essere presente con tombe estremamente ricche, simboli di uno status più o meno raggiunto, più o meno presunto.
La filosofia dei "tutto passa", il pianto funebre rituale, il lamento, i simboli e le varie tecniche a cui finora si è accennato ed altre ancora, contribuiscono tutte a far superare a quel salentino che vive ancora piuttosto lontano dalla cultura dei benessere e della felicità e non completamente massificato, la crisi procurata dall'evento luttuoso, dal verificarsi dell'eresia della morte In alcuni valori rimasti della cultura e della religiosità popolare salentine esistono gli anticorpi per guarire da quella malattia della morte che altrimenti potrebbe portare "fuori dalla storia".
L'ideologia del pianto interrotto : per vergogna, per "civiltà" ed "educazione"; l'ideologia sottesa a tutta la cultura di massa; la paura della morte di sé e il disagio per la morte degli altri; il fallimento del capitalismo e la mancata risposta agli interrogativi più angosciosi della moderna medicina; lo sfrenato individualismo che esclude tutti porteranno inesorabilmente a vivere la morte nel peggiore dei modi, come una drammatica interruzione dell'esistenza.
Il problema oggi è di adeguare dei simboli e delle tecniche nuove capaci di dare risposte integrali ai bisogni esistenziali dell'uomo che sono anche bisogni certo simbolici, bisogni psichici e bisogni morali, senza sottomettere tutto ad una logica della produttività e della competizione.
Una rinnovata società con questo dovrà fare i conti per evitare di trovarsi, appunto, nei vicoli ciechi in cui ormai oggi ci troviamo. La dimensione etica che è necessario recuperare dopo tanto cinismo al quale siamo stati abituati, deve comportare l'assunzione della morte in un progetto di vita; cioé dobbiamo essere contro la morte degli altri, dobbiamo lottare contro la possibilità di morte di tutti gli altri. Recuperare una tensione etica comunitaria significa anche vivere in maniera completamente diversa: bisogna abbandonare l'idea dell'esistenza individuale come progetto di affermazione, come risultato di una competizione con gli altri, come una corsa alla felicità del consumo, ed inserirsi in una logica comunitaria in cui l'io avverte che può realizzarsi solo se recupera la dimensione dei noi. Questo certo può essere vissuto in maniera pietistico-moralistica, e allora diventa la retorica di una certa morale tradizionale, o può essere assunto come fondamento di una diversa maniera di concepire i rapporti intersoggettivi e le costruzioni sociali. Certo è che la cultura del pianto interrotto, che è quella che noi oggi viviamo, non dà sbocco e preclude ogni via d'uscita, e se una via rimane aperta è quella, come dice Ernesto De Martino, della morte "peggiore di tutte in quanto si annunzia come vuoto del pensare, come vano fantasticare e come crescente terrore del nulla morale che avanza". (11)

NOTE

1 - Philippe Ariès - STORIA DELLA MORTE IN OCCIDENTE, Rizzoli Editore, Milano 1978, pag. 74.
2 - Philippe Ariès - Op. cit., pag. 75.
3 - Philippe Ariès - Op. cit., pag. 71.
4 - G. Gorer - DEATH, GRIEF AND MOURNING, New York, Doubleday, 1963.
5 - V. Thomas - ANTROPOLOGIA DELLA MORTE, Garzanti, 1976, pagg. 569 - 570.
6 - I.M. Malecore - LA POESIA POPOLARE NEL SALENTO, Olschki editore, Firenze 1967, pag. 229.
7 - E. De Martino - MORTE E PIANTO RITUALE, Boringhieri editore, Torino 1975, pag. 43.
8 -V D. Palumbo -ANTOLOGIA GRECO-SALENTINA, Vol. 1, I canti, V Taube Editore, Calimera 1896, Pagg. 2 e 3.
9 - In alcuni paesi si piange e si rèputa durante la veglia funebre ormai esclusivamente nelle prime ore dell'alba, quando gli amici e quelli del vicinato sono andati via a riposare lasciando soli i familiari del defunto.
10 - Lamento funebre originale inciso sul disco "Musiche e canti popolari del Salento". Vol. II° a cura di Brizio Montinaro. Albatros VPA 8429.
11 - E. De Martino -LA FINE DEL MONDO, Einaudi, Torino 1977, pag, 264.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000