L'opera di Fortunato,
già imponente nella raccolta di discorsi elettorali e parlamentari,
si arricchisce della prima pubblicazione organica del suo vasto e ricco
epistolario.
Insieme alle lettere di Fortunato ci sono quelle, assai significative,
a Fortunato che rendono il "Carteggio" un dialogo a più
voci sulla realtà italiana e, in particolare, meridionale.
Politica e storia
nel carteggio di Giustino Fortunato. Quando la politica non è
mestiere ma ideale nutrito di concretezza; quando al senso dello Stato
è unito il senso della realtà socio-economica; quando
alla sensibilità sociale si accompagna un'apertura culturale
aliena da settarismi preconcetti; quando la tragica consapevolezza dei
limiti e degli errori del presente non elimina la fiducia nel cammino
della Storia allora è possibile che nascano testimonianze e documenti
vivi, capaci di vincere il tempo e di far sentire a lungo la loro voce
con accenti sempre attuali. E' il caso dell'opera di Fortunato, che
già imponente nella raccolta dei discorsi elettorali e parlamentari
in "Il Mezzogiorno e lo Stato italiano", si arricchisce ora
della prima pubblicazione organica del suo vasto e ricco epistolario,
promossa dall'Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno
d'Italia, cui Fortunato fu legatissimo e alla quale volle andassero
i proventi delle prime duemila copie de "Il Mezzogiorno" e
la biblioteca personale, (G. Fortunato: "Carteggio 1865-1911",
a cura di E. Gentile, Laterza 1978, pagg. VIII - 413, lire 15. 000).
Questo è il primo dei tre volumi previsti nel piano dell'opera
e comprende 574 lettere in un periodo di 46 anni importante e decisivo
per la crescita politica dell'Italia unita. Insieme alle lettere di
Fortunato, ci sono anche, e solo le più significative, quelle
a Fortunato, che hanno come mittenti uomini politicamente e culturalmente
prestigiosi, da P. Villari a Croce, Sonnino, Zanardelli, Giolitti, Gentile,
Volpe, Nitti, Prezzolini, Salvemini, e che rendono il "Carteggio"
un dialogo a più voci, vivo e sofferto, sulla realtà italiana
e meridionale in particolare. L'immediatezza dello stile epistolare
si presta, poi, alla rivelazione dell'animo oltre che del pensiero,
allo sfogo sentimentale oltre che all'analisi delle cose, alla passione
oltre che alla disciplina politica. E anche in questo Fortunato e i
suoi interlocutori si rivelano maestri di stile e di dignità.
Scorrendo le pagine, ci si rende conto che è difficile cogliere
l'"essenziale" o il "tema principale", senza incappare
in un'operazione riduttiva della molteplicità e varietà
degli argomenti e degli spunti, trattati a volte di sfuggita in piccole
notazioni cariche di significato che rappresentano, senza dubbio, il
pregio più vero di questo epistolario-documento sulla politica
e sulla società italiana.
Il quasi mezzo secolo di vita e di storia in esso rispecchiato, è
vivacizzato dall'irrequietezza interiore del Fortunato, che mentre sembra
cedere a un romantico pessimismo fatalistico sulla irrimediabilità
del Paese (lo spirito di "impressionabilismo" lo chiama Croce),
coltiva un quasi vitalistico senso dell'azione, sublimato da una vigorosa
mazziniana coscienza etica, di cui il ritmo stesso delle lettere (molte
delle quali dirette a incoraggiare e sostenere iniziative di forze giovani
e intelligenti; ad esempio, l'"Unità" di Salvemini,
il quale gli scriveva: "Tu mi dai una forza ed uno slancio che
io non ho mai avuto finora. Tu stai facendo di me un uomo, forse un
eroe"), è chiara espressione.
C'è poi l'inquietudine politica di questo liberale che, se nel
1875 ritiene suo sogno e ideale il "patronato dei deboli assunto
dai forti", cinque anni dopo chiede alla Camera il voto per i contadini
analfabeti e l'immediata soluzione della questione demaniale (la "terribile
questione"), senza la quale sarebbe stato vano sperare di liberare
i "poveri contadini" dal "rigore del più crudo
e disumano potere" di una borghesia corrotta, dedita all'usura;
che nel 1909 può amichevolmente sfidare Salvemini ad andare a
verificare che cosa egli, non socialista, pensasse della politica italiana,
trent'anni prima dei socialisti. E a proposito del socialismo, la cui
dottrina e il cui movimento egli considerava "con rispetto"
e "simpatia" (tanto da porsi socialisticamente la domanda
se avesse o no il diritto di dirsi "un galantuomo, possedendo terre"),
già nel 1900 non nasconde il suo pensiero che, almeno per il
Meridione, esso sarebbe stato come "la Sinistra di famigerata memoria:
una solenne ipocrisia". E dieci anni dopo, allo stesso Salvemini,
può scrivere, quasi a conferma delle sue previsioni: "Ah,
purtroppo anch'io temo che dal Partito Socialista non ci sia più
nulla da ricavare". Il liberalesimo di Fortunato sfiora il "libertarismo"
quando egli, rifiutando di candidarsi per il Centro di Sidney Sonnino
nel 1894, proclama di voler essere "deputato di opposizione"
e difende questa scelta ancora cinque anni dopo, rifiutando l'adesione
al Partito Parlamentare di Zanardelli. "Sono, ormai, un solitario.
Così voglio restare per debito di coscienza". Da questa
posizione, certamente scomoda e che solo la sua fede politica e la sua
integrità morale hanno potuto mantenere al di sopra di facili
e demagogici rivoluzionarismi, Fortunato osserva e condanna "l'impotenza
governativa e l'indifferenza nazionale" di cui individua la causa
nella "cecità di un indirizzo di politica generale, non
fatto né voluto dal Parlamento, che perderà la Nazione".
Al Villari, nell'agosto del 1899, scrive: "Io, finché l'indirizzo
della politica generale non sarà mutato, io voterà contro
il Governo d'Italia. E' la mia sola protesta, la sola, di cui io sia
capace, contro la cecità dell'Italia ufficiale".
Egli non identifica la sua azione politica con nessuna causa che non
sia quella di uno Stato veramente unitario e di un governo che pensi
a "consolidare l'Italia". Il che vuol dire che la pregiudiziale
assoluta per la vita politica dello Stato e per la storia stessa d'Italia
è, per lui, la soluzione della questione meridionale. E, certo,
il tema meridionalistico è costantemente presente nel "Carteggio"
e si ripropone come fulcro del pensiero di Fortunato. Ma esso non si
afferma solo come analisi e tentativo di capire il "mistero"
della storia dell'Italia Meridionale, bensì come problema italiano.
"Il Mezzogiorno è la questione stessa d'Italia". fortunato
crede nell'unità d'Italia come "unico, ultimo tentativo";
ma non si nasconde che "la terribilità del problema consiste
nell'armonica, durevole coesistenza in un unico corpo di Nazione e di
Stato di due parti uguali del territorio, fra esse assolutamente difformi
per ragioni naturali e delle quali l'una assai inferiore all'altra per
potenzialità economica". Le due Italie !
Ma il vero male oscuro dell'unità Fortunato lo scorge nell'ignoranza
del problema: "L'Italia non sa quel che sia, quel che sarà
il problema meridionale; e, peggio che mai, esso è ignorato dagli
stessi meridionali". Di qui l'assurda realtà di uno "Stato
che ignora se stesso", di un Italia ufficiale piccola ma megalomane,
ignara "della realtà delle cose, o, in una parola, dell'Italia
reale"; la responsabilità dei governi, l'iniquità
delle leggi e delle riforme; il divario crescente fra Nord e Sud; insomma:
un Italia inesistente e una situazione di "dissolvimento"
dovuta alla corruzione elettorale, all'ineffìcienza del Parlamento,
e, soprattutto, a una burocrazia camorristica, "arbitra del divino
e dell'umano", "vera dominatrice d'Italia". Fortunato
non esita ad affondare impietosamente il bisturi nelle piaghe endemiche
e sempre vive del Sud: la degradazione politica, che fu dei deputati
meridionali ombre servizievoli e striscianti dei potenti al governo
(a Villari, 2 settembre 1899) e "l'incapacità, la immoralità,
la infinita volgarità del maggior numero dei nostri paesi, quintessenza
della carne di nostra carne e del sangue di nostro sangue" (a Salvemini,
14 febbraio 1910). Ma l'analisi non si trasforma mai in giudizio e in
condanna. Prevale in Fortunato il senso della pietà storica per
la terra, sua infelice madre, che egli ama, non perché buona,
ma perché infelice. "Il dovere della vita è assai
duro fra noi del Mezzogiorno, che una miseria secolare ha profondamente
corrotti".
Questo primo volume del "Carteggio", i cui interessi vanno
ben al di là di ciò che abbiamo potuto dire nel tentativo
di cogliere principalmente lo spirito dell'Autore, si chiude sull'entusiasmo
di Fortunato per l'uscita del primo numero de l'"Unità"
di Salvemini e per la pubblicazione dei "Discorsi", ma anche
sulla sua trepidazione e paura per l'impresa di Tripoli.
Ci auguriamo che questo vero grande affresco storico-politico sull'Italia
venga completato al più presto, anche per gli anni della prima
guerra mondiale e del primo decennio fascista.
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