Ma i segreti restano in fondo al mare




L. C. B.



Dicevamo di Roca: possiamo aggiungere che la zona archeologica si ferma improvvisamente di fronte al mare. Scriveva anni fa Raffaele Congedo, scrupoloso indagatore dei segreti delle acque interne e costiere della penisola salentina: "lo sfaldamento della costa e la sommersione di parte della vecchia città sono visibilissimi. E' chiaramente visibile, sommersa a circa dieci metri di profondità, una parte della muraglia. E' questo un luogo di estremo interesse per chi si occupa di archeologia sottomarina. Chi osserva, infatti, la costa da terra, rileverà che la muraglia appare tagliata netta nella roccia e la vedrà prolungarsi sommersa, e nascondere nel mare la storia dei Messapi, il villaggio protostorico, le anfore caratteristiche di quel popolo (le trozzelle), le lapidi incise con caratteri non ancora decifrabili".
Persa nel tempo, la storia di questo popolo di stirpe illirica, venuto in Salento (che allora si chiamava Calabria) all'inizio dell'età del ferro, intorno a mille anni prima di Cristo. Strettamente imparentati con gli Japigi i quali vennero spesso confusi dagli autori antichi, accaniti ostacolatori della greca Taranto, la cui espansione fermarono con guerre vittoriose. Vinti da Roma, ebbero sul capo una colonia latina, Brundisium, che li guardò a vista. Poi scomparsi. Lasciarono tombe e mura, a Roca, ad Alezio, a Manduria, estremo confine verso Taras, e più o meno, duecento iscrizioni. Famosi e misteriosi quanto gli Etruschi, meno fortunati di costoro perché lontani dal confine di Roma, centro del mondo.
L'altro mistero è a Torre San Pietro in Bevagna, alla foce del fiume Chidro, dove la leggenda vuole che sia sbarcato l'apostolo Pietro e vi abbia fatto naufragio San Cataldo. Alla profondità di circa sette metri, riferisce il Congedo, giacciono ancora i famosi sarcofaghi di marmo, detti volgarmente "le Vasche del Re", insieme con la carena di una nave. Congedo fu il primo a fotografare, nel 1960, questi monoblocchi.
Nell'occasione, asportò un frammento di marmo, inviandolo al direttore dell'Accademia di Roma, Ward Perkins, che così si espresse: "Si tratta senza dubbio di marmo greco. Un tipo di marmo non comune. Esso non appartiene infatti ad alcuno dei tipi solitamente usati per sarcofaghi (marmo pentelico dell'Attica e proconnessiano dell'isola di Marmara), ma è una buona qualità di marmo che in genere si adoperava per la statuaria e che proviene da una delle isole minori della Grecia. Credo si tratti della stessa qualità usata per il bellissimo sarcofago che si trova al Metropolitan Museum di New York, anch'esso con estremità arrotondate. Alla luce della sua scoperta, credo che valga la pena di considerare altri esemplari della stessa forma. Per il momento credo di poter dire con tranquillità che il carico proveniva dall'Egeo e che probabilmente, trattandosi di marmo pregiato, la destinazione effettiva fosse Roma. La data deve aggirarsi tra il 150 e il 300 dopo Cristo". La presenza della carena non può che indicare una nave affondata. In ogni caso, sono rintracciabili ruderi di un molo sommerso, che indicherebbero l'esistenza di un antico scalo marittimo. I fondali, infine, malgrado i saccheggi, sono ancora oggi ricchi di materiale archeologico di varia natura. E a Torre Chianca, nella località nota con il nome di "Scala di Furnu", un altro deposito da naufragio: sette gigantesche colonne granitiche, poggiate sulla carena di una nave, alla profondità di sette-otto metri: alte nove metri, con un diametro di un metro e venti centimetri, sono di marmo cipollino, cioè di marmo Carystiumnda Carystos nell'isola di Eubea, largamente esportato a Roma e in altre località occidentali. Coperte da depositi calcarei, vi giacciono da secoli. Qualcuno ha praticato un prelievo da una colonna, probabilmente per vedere di che cosa si trattasse.
Bene: colonne e sarcofaghi potrebbero essere riportati in superficie con una spesa non eccessiva. Eppure, restano lì. L'ubicazione precisa è nel volume "Salento scrigno d'acque", del Congedo. E lo stesso autore ne ha fotografato il fondale con i reperti. Ci sono, in fondo ai mari salentini, interessantissime aree archeologiche. Sono acque disseminate di materiale: per naufragi, per l'abbassamento della costa. Ci sono state brutali rapine (i pescatori tiravano antiche àncore, sfasciandole per appropriarsi il piombo, che poi vendevano per quattro soldi) e saccheggi volontari, anche organizzati. Mai, al di là di quelle di studiosi "non ufficiali", mai ricerche e indagini sistematiche: una mappa dell'archeologia sottomarina rivelerebbe, e non solo in Salento, ma in moltissime aree, soprattutto meridionali, itinerari nuovi, segreti anche millenari. Tanta storia e protostoria e a pochi metri di profondità, a pochissimi metri dagli orli attuali delle rive. Noi italiani andiamo a scoprire i tesori di Ebla, ed è opera di splendida sapienza e capacità operativa. Ma trascuriamo quanto è sotto i nostri occhi, e rischia di essere perduto da un momento all'altro. Schiere di giovani sono in cerca di occupazione, e non si organizzano gruppi in grado di catalogare, indagare, descrivere con metodo scientifico, e sotto guide esperte, i tesori sepolti negli scantinati dei musei, a fior di terra, quasi a pelo d'acqua. Come dicono gli inglesi, "si gira intorno al problema": vi si gira da decenni, ma non si conclude mai. L'accademia è nemica dell'azione, affoghiamo in un mare di parole, di atti congressuali, di meetings, non si dà mai mano alle pale e alle draghe, ai pontoni, alle immersioni, ai picconi. Restano così, i misteri, nel loro impenetrabile mondo; ed esperti più degli esperti sono gli scavatori clandestini, i sub clandestini, i commercianti clandestini. Mentre lo Stato resta a guardare.

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