§ VINI DI CASA NOSTRA

Oro rosso




Vittorio A. Stagno



Fino a ieri i nostri vini - doppi, forti, rigeneratori - erano usati per il taglio, cioè per ricostituire altri vini. Oggi si sono imposti sui mercati e sulle tavole e stanno entrando di diritto nell'ambiente più sofisticato, quello delle collezioni.
Rimangono tuttavia gravi contraddizioni: premi per chi impianta nuovi vigneti e premi per chi li svelle; manca una politica della tutela e anche una politica della promozione.
Perciò, i vini salentini, baresi e calabresi finora si son fatti strada da soli e - è il caso di dirlo - malgrado tutto e tutti.

Innanzitutto, le cifre di quest'anno: in Puglia, dopo la buona annata, la produzione di vino si è aggirata intorno ai nove milioni e mezzo di ettolitri: quantità leggermente più alta rispetto a quella dello scorso anno, qualità superiore, ottimi bouquets, contenuti organolettici tipici, particolarmente elevati per i vini salentini. In tutta la regione, con il progressivo abbandono della vite ad alberello e con l'adozione delle "spalliere" e dei "tendoni", gradazioni leggermente più basse (ma anche per influenza delle irrigazioni): e speriamo che ciò significhi non considerare più, o soltanto, i vini salentini e pugliesi come "vini da taglio", destinati a invigorire altri vini, celebri ma esangui, di altre regioni italiane, e di altri paesi d'oltreconfine. I vini meridionali, e quelli salentini e pugliesi, sono riusciti ormai ad imporsi anche "in bottiglia": nomi ne potremmo fare, itinerari dei vini ne potremmo tracciare a volontà. E' una realtà che ormai nessuno può mettere in dubbio. Ed è stata, senza dubbio, una conquista.
Poi, le cifre dello scorso anno, queste definitive: uva da vino, in tutta la regione, dieci milioni e 684 mila quintali; uva da tavola, sette milioni 298 mila quintali, quattro milioni 738 mila dei quali destinati al consumo diretto e all'esportazione, e il resto vinificato; dunque, il totale di uva trasformata è stato pari a tredici milioni e 244 mila quintali. Un buon record, che quest'anno, ripetiamo, è stato superato.
Dicevamo della fine della sudditanza dei vini salentini e pugliesi. Un quotidiano torinese, La Stampa, ben lontano da possibili sospetti, scriveva in ottobre: "Sono vini che non si possono più considerare da taglio e basta: si è raggiunta un'alta specializzazione nella qualità e nella produzione". Non è un riconoscimento da poco. I nostri operatori hanno lavorato duro, conquistando innanzitutto, alle uve, una personalità; poi sono andati alla ricerca dei mercati. Dapprima, i nostri vini erano considerati "da iniezione ricostituente": doppi, forti, rigeneratori. Oggi si sono imposti sui mercati e sulle tavole. E' stanno entrando di diritto nell'area delle collezioni, la più sofisticata delle aree vinicole.
Il Salento, in particolare, ha avuto un gran salto di qualità. Le grandi distese di vigneti hanno corso brutti rischi: le contraddizioni che gli italiani si sono portati dietro a livello di politica europea, (premi per chi impiantava nuovi vigneti; e premi per chi li abbatteva. Come per il bestiame: premi di produzione e premi di abbattimento per capo), ancora oggi stentano a chiarirsi. Si ha un bel dire che i vini tunisini, greci e algerini fanno un'accanita concorrenza a quelli meridionali: la qualità dei vini del bacino meridionale del Mediterraneo è, rispetto a quella del prodotto del nostro Sud, fin troppo scadente. E' mancata una politica di tutela, ed è mancata una politica di promozione. I vini salentini, come del resto quelli calabresi, o baresi, si son fatti strada da sé, e sarebbe il caso di dire che si son fatti strada malgrado la politica italiana e quella comunitaria.
Gli itinerari dei "bianchi" sono quasi esclusivamente dell'alto Tarantino e dell'intera provincia di Bari. Là dove il Tarantino si inoltra nelle argille lucane, i "tendoni" danno anche seicento quintali per ettaro di uve bianche da tavola: l'irrigazione ha fatto miracoli, l'esportazione è sostenuta. Piantare a vigneto, qui e nel Barese, significa senz'altro investire ingenti capitali, ma vuol dire anche assicurarsi, nel medio periodo, un reddito.
L'itinerario dei rossi e dei rosati, invece, è quasi esclusivamente salentino: e intendiamo per Salento quella che fu l'area "messapica": dai confini a nord-ovest (agro di Manduria-Sava), all'intera fascia brindisina; oltre, s'intende, alla parte meridionale della penisola, che è provincia di Lecce. Qui le uve rosse - se il tempo non fa brutti scherzi - si raccolgono fino al venti di ottobre. Una lunga stagione propizia, dalle fioriture primaverili alla crescita estiva, fino al completamento degli assorbimenti zuccherini della terra, può assicurare raccolti d'eccezione. E il discorso non vale solo per i "tendoni", in verità assai poco diffusi nel Salento; né per le sole spalliere, che vanno prendendo piede su larga scala, anche se comportano costi d'impianto e impieghi di coltura piuttosto alti. Vale sempre per gli alberelli, le piante basse (perché il vento ci passi sopra, senza apportar danni) che i nostri padri, invasori Ariani, trovarono già, insieme con l'altra pianta nobile del Mezzogiomo, l'olivo. Ancora oggi, gli alberelli sono una ricchezza salentina. Perciò le, grandi distese, perciò il paziente lavoro contadino: l'alberello ha bisogno di cure assidue, (dallo stato di barbatella al momento - molto delicato -dell'innesto; dalla prima crescita alla fioritura; e poi, nel corso dell'anno e della stagione viticola, fino ad ottobre). Se il nostro paese ha potuto contendere, e poi strappare alla Francia e alla Spagna i primati nella produzione di vino e di olio d'oliva, lo deve soprattutto alla nostra regione (la Puglia produce il 35 per cento dell'olio italiano; il vino ha provenienze più articolate, dal Piemonte alla Sicilia). E se era giusto trasformare l'agricoltura nelle zone prive di vocazione vitivinicola, con le conversioni in orticolture pregiate, molto meno lo era in aree in cui il vitigno ha regnato da sempre. Qui, semmai, ortofrutticoli, viti e olivo possono tranquillamente convivere, e le reti di distribuzione irrigua possono dare un vitale soffio di modernità. Ma non difendere più le colture secche (quelle dalle quali, poi, sono venuti pregiatissimi DOC), abbandonarle per compromissioni politico-economiche in sede comunitaria o per evidenti rinunce codificate da ambigui trattati bilaterali con i paesi del bacino meridionale mediterraneo, è delittuoso. Il reddito, e questo soltanto, tiene legati gli ultimi contadini alla terra. Sono venuti meno gli accorpamenti, non c'è stata -quando era il tempo - una seria riforma agraria, l'emigrazione ha strappato alla terra troppe braccia, senza che in cambio sia sorta un'industria degna di questo nome, compresa quella di trasformazione dei prodotti agricoli. E, infine, il nostro sbilancio alimentare continua a indebitarci con l'estero. Una politica agricola si impone, nella globalità della sua accezione: tutela delle colture ad alto reddito (vite, olivo, agrumi, mandorli, ortofrutticolture); impianti di industrie di conservazione e trasformazione; promozione all'estero; difesa dalle concorrenze sleali (i paesi del bacino mediterraneo pagano pochissimo la manodopera, e questa non esprime ancora un sindacato che ne difenda gli interessi: perciò questi paesi possono vendere alla Comunità europea a prezzi stracciati i prodotti che, agli operatori italiani e meridionali, costano molto di più); impianto e colture specializzate e selezionate; rete commerciale efficiente; eliminazione degli intermediari; realizzazione di centri raccolta e di parchi vagoni-frigo; lotta alle sofisticazioni, e via dicendo. Sono mali antichi, e non possono essere estirpati da un giorno all'altro. Ma è importante incominciare da qualche parte, e fare le cose con serietà. Il campo del lavoro è semplicemente sterminato.


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