Come sta l'impresa?
Tra due fuochi: cioè tra l'intervento pubblico e l'attività
sommersa. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una forte espansione
di questi due protagonisti della vita economica e sociale a fronte di
una progressiva erosione dello spazio riservato all'impresa vera e propria.
L'intervento pubblico in economia, anzi l'opposizione tra sfera pubblica
e sfera privata, è il risultato di una lunga evoluzione storica,
nel corso della quale la rivendicazione di diritti politici e civili
sempre più vasti per l'individuo si è accompagnata a una
crescente menomazione dei diritti economici. Mentre, infatti, almeno
in linea di principio, la libertà di azione e la libertà
di scelta del cittadino in campo politico sono sempre più esaltate
e difese, vengono sempre più compromesse la libertà d'azione
e la libertà di scelta del cittadino-imprenditore, del cittadino-risparmiatore
e anche del cittadino-consumatore. L'estensione del concetto di libertà
dal campo politico a quello economico è risultata eminentemente
contraddittoria. E principio della libertà dal bisogno è
stato infatti sovente interpretato, specie in Europa, nel senso di una
limitazione della libertà di scelta. Così si garantisce
a tutti l'assistenza sanitaria gratuita, ma questa grande conquista
porta spesso con sé l'impossibilità pratica di scegliere
da chi, come e dove essere curati. La recentissima unificazione dei
servizi mutualistici ha significato, anche per moltissimi italiani,
una severa restrizione nella possibilità di scegliere il medico
curante. Lo stesso fenomeno si può riscontrare nel campo dell'istruzione.
Al tempo stesso, un'interpretazione rigida e schematica della tutela
del posto di lavoro rischia di annullare completamente la mobilità,
danneggiando non solo gli imprenditori, ma soprattutto i disoccupati
e i giovani in cerca di prima occupazione. Una nuova classe di burocrati
si è incaricata oggi, in quasi tutti i Paesi dell'Occidente,
di gestire questo meccanismo essenziale, garantistico ma limitante,
della libertà dal bisogno, e di spendere, per conto del cittadino,
ma senza che il cittadino abbia in effetti molte possibilità
di controllo, una quota imponente e crescente del suo reddito. In quasi
tutti i Paesi occidentali, ormai, una larga quota del reddito nazionale
viene sottratta alla discrezionalità degli individui e transita,
invece, per le casse dell'Amministrazione Pubblica, che la impiega e
la ridistribuisce secondo propri criteri. In queste condizioni ci si
sta muovendo in una sorta di collettivismo di fatto e quel che ne consegue
è che l'impresa Italia presenta un deficit pauroso, pari a circa
il 14% del prodotto interno lordo (PIL). A formare tale deficit globale
concorre l'azione diretta dell'Amministrazione Pubblica in campo economico;
tale azione ha registrato negli ultimi anni una notevole espansione,
non già per una maggiore efficienza, bensì con finalità
pretestuosamente sociali, che si traducono nel salvataggio di imprese
fallimentari. Attualmente l'incidenza delle imprese pubbliche sul totale
delle medie-grandi società italiane industriali e di servizi
può essere stimata , secondo uno studio di Mediobanca, nel 35%
circa per quanto concerne numero di dipendenti e fatturato, e nel 53%
per quanto concerne gli immobilizzi tecnici. Le stesse imprese pubbliche,
tuttavia, hanno concorso per l'82% alla formazione della perdita di
esercizio complessiva del campione (ossia 1.880 miliardi sui 2.300 complessivi
nello scorso anno).
Così, milioni di lavoratori che prima contribuivano allo sviluppo
del sistema sono ora nella condizione obiettiva di essere mantenuti
dal sistema. li profitto è scomparso dalle imprese pubbliche,
tranne pochissime eccezioni, e questo non tanto per colpa dei managers
pubblici, quanto per l'eccezionalità dei vincoli, anche di natura
politica, cui gli stessi sono sottoposti. La necessità di finanziare
la rapida espansione del settore pubblico ha imposto agli italiani,
volenti o nolenti, di mettere a disposizione dello stesso gran parte
delle loro risorse finanziarie: la partecipazione del settore pubblico
al credito totale interno è così andata crescendo, fino
a raggiungere un'incidenza del 68% nel 1979 (36 mila miliardi su 53
mila complessivamente disponibili) lasciando soltanto 17 mila miliardi
per il finanziamento di famiglie e di imprese (incluse le partecipazioni
statali). Questo dato sintetizza efficacemente gli effetti sull'impresa
dell'intervento pubblico.
L'economia sommersa, o lavoro nero che dir si voglia, nasce in parte
come reazione all'eccessivo dirigismo e ai "lacci e lacciuoli"
frapposti all'attività imprenditoriale. Le stime indicano che
questa economia alimenta una produzione pari al 15-30% del prodotto
interno lordo ufficiale, sfuggendo però alle rilevazioni statistiche
e spesso evadendo la legislazione fiscale e previdenziale. L'economia
sommersa è caratterizzata da costi unitari del lavoro inferiori
a quelli dell'economia istituzionale, da maggiore elasticità
nelle prestazioni lavorative (mobilità, straordinari, scelta
dei dipendenti) e quindi maggiore possibilità di adeguamento
al mercato, da minori costi relativi all'ambiente di lavoro, e, infine,
da oneri fiscali e sociali nulli o estremamente ridotti. Ma non si può
dimenticare che quest'economia, almeno nelle dimensioni raggiunte in
Italia, è un indice delle disfunzioni e dei limiti imposti al
sistema economico ufficiale. Inoltre l'economia sommersa è parassitaria
delle medie-grandi imprese industriali (in quanto la progressiva riduzione
degli orari di lavoro e il crescente assenteismo favoriscono il doppio
lavoro). Infine, può esportare a prezzi competitivi rispetto
a produttori di altri Paesi perché non paga né le tasse
né gli oneri sociali: ma così finisce per esportare ricchezza
nazionale e contribuisce all'allargamento del deficit pubblico. Anche
l'economia sommersa, quindi, danneggia l'impresa.
A tutto ciò, si aggiunga il carattere fortemente ideologico e
spesso portatore di messaggi politici del Sindacato. Questo aspetto
si è radicalizzato nel corso del ciclo di lotte 1969-70, quando
il Sindacato ha fatto ricorso, ai fini di rafforzamento organizzativo,
a un'ampia produzione di ideologie del conflitto e dell'antagonismo
sociale. Si è così alterato il rapporto classico tra partiti
politici e Sindacato, secondo il quale le ideologie erano emanazione
dei partiti e al Sindacato spettava il ruolo di negoziatore nei confronti
delle imprese. Con quali conseguenze? Il messaggio ideologico ha pervaso
vasti settori dell'apparato sindacale, producendo effetti perversi nella
sua condotta di attore industriale e dando luogo a una diffusa conflittualità,
spesso incontrollata. Una volta scoperta la strada del l'ottimizzazione
del rapporto tra danni inferti (alla produzione) e danni subìti
(salariali), alcune frange della forzalavoro hanno eretto la conflittualità
a sistema, e hanno iniziato a usarla anche al di fuori della mediazione
organizzativa del Sindacato. Allora è accaduto che l'impresa,
fondamentalmente centro di produzione, è stata attaccata come
centro di potere ed è divenuta oggetto e territorio non più
di produttività, ma di conflittualità generica, spesso
estranea ai temi stessi della conflittualità aziendale (e quindi
sindacale), e qualche volta portatrice di morte (e qui siamo nel campo
del terrorismo).
Risultato. Se non si corre ai ripari, rispettando le libertà
conquistate, si profila preoccupante all'orizzonte uno scenario misto
di caratteristiche collettivistiche e terzo mondistiche:
1) il continuo declino della produttività potrebbe condannare
le grandi imprese all'estinzione, facendo subentrare ad esse, ovunque,
l'impresa pubblica. In questo caso, per esempio, secondo l'economista
Romano Prodi, si generalizzerebbe un sistema di produzione meno efficiente;
diminuirebbe il reddito nazionale e di conseguenza il reddito dei singoli;
2) in campo internazionale l'Italia potrebbe essere condannata alla
perdita di competitività, a una graduale emarginazione dalle
potenze industriali e a uno slittamento verso il Terzo Mondo (prospettiva
terribilmente concreta se si tiene conto della diversa dinamica della
produttività nel periodo '72-77: -12% in Italia, +26% in Germania,
+24% in Francia);
3) nella sfera del singolo cittadino potrebbe aversi un assoluto garantismo
sulla carta (lavoro, abitazione, assistenza sanitaria) con prestazioni
effettive discutibili (almeno là dove non potesse intervenire
una nuova economia sommersa riconvertita ai servizi) e con ulteriori
limitazioni della libertà di scelta individuale.

Unica via d'uscita, il ritorno al mercato. Ma questo ritorno passa per
una fase assai importante: Sindacato e Impresa non dovrebbero dimenticare
che la crisi dell'uno è correlata alla crisi dell'altra, secondo
un coefficiente tanto più alto quanto minore è la controllabilità
del fattore lavoro. Il cosiddetto "patto sociale" non appartiene
alla letteratura, ma nasce da un'esigenza profonda, che è quella
di un incontro come via obbligata per superare la crisi.
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