Isole a parte, la
Puglia ha 750 chilometri di coste, tutte mediterranee. Due mari diversi:
lo Jonio, più profondo e riottoso; l'Adriatico, più salato
e sempre riottoso. Su questo "patrimonio" costiero si giuoca
buona parte dell'economia pugliese. Quella turistica è fuori
discussione, è un'industria senza ciminiere, come solitamente
la si definisce; non produce inquinamenti, semmai li subisce e ne viene
danneggiata, spesso in maniera irreparabile. Poi, quella marittima e
mercantile, con traffici che da Bari, da Brindisi da Otranto, vanno
per molte rotte. Infine, quella della pesca, la terza marineria peschereccia
dopo quella siciliana di Mazara del Vallo e marchigiana di San Benedetto
del Tronto. Su queste coste, le grandi città-capoluogo di Bari,
Brindisi e Taranto; e le grandi città-dormitorio o città-artigiane,
da Barletta a Molfetta a Polignano, a Trani, e giù giù,
fino ai centri salentini, con la "curva" meridionale che culmina,
dopo Gallipoli, nella città bimare. Indiscussa e indiscutibile,
dunque, l'importanza del mare per la Puglia; preziosi gli apporti di
questo Mediterraneo che fu giustamente definito un "oceano in miniatura".
Un mare che non è morto e non è moribondo, ma presenta
preoccupanti sintomi di malessere, con una crescente degradazione che
colpisce acque, pesci e popolazioni, secondo la legge degli ecosistemi
e delle catene alimentari.
Il Mediterraneo è un gran lago, un bacino pressoché chiuso
e, per sua natura, vulnerabile. Se si continua ad aggredirlo, lo si
potrebbe menomare definitivamente e irreversibilmente. Di questo son
tutti convinti. Ma l'antropizzazione selvaggia delle sue coste (si vedano
gli scempi sulle coste pugliesi, in particolare lungo la fascia brindisina
e in quella jonica), con la persistenza degli sversamenti di scarichi
non depurati e con l'inquinamento delle masse al largo, continua. Fiumi
e fogne non smettono di riversare scarichi immondi e pericolosi. Il
solo Po, ad esempio, ogni anno getta nel mare 244 tonnellate di arsenico,
65 di mercurio, 485 di piombo, 64 mila di idrocarburi, 9 di pesticidi,
3 mila di tensioattivi, 6.800 di nitrati, 47 mila di fosfati, 500 mila
di sostanza organica, 27 milioni di tonnellate di sostanze varie disciolte.
Non c'è dubbio - è scritto in un rapporto dell'United
Nations Environment Programme, l'Agenzia dell'Onu per l'ambiente che
l'inquinamento lungo le coste del Mediterraneo non è di oggi.
Le acque costiere di Alessandria, i canali di Venezia, il "Corno
d'oro" di Istanbul e molti altri tratti di costa hanno indubbiamente
costituito un grosso problema anche nei secoli scorsi. E tuttavia, continua
il rapporto, occorre dire che la situazione è andata sempre più
peggiorando, mentre le capacità - vaste, ma pur sempre limitate
- del Mediterraneo di fronteggiare con i propri meccanismi naturali
di depurazione i carichi inquinanti sono andate sempre più deteriorandosi.
L'aggressione continua anche sotto altre forme. Nel mare continuano
ad essere riversati metalli pericolosissimi come il mercurio, il cadmio,
il piombo, l'arsenico; pesticidi come il DDT che, assorbiti dagli organismi
marini, possono entrare nella catena alimentare e giungere sino all'uomo.
Aggressioni sono anche l'ovefishing, nonché l'impiego di esplosivi
(i nostri pescatori di frodo ne sanno qualcosa), di veleni, di mezzi
che arano il fondo marino; aggressioni sono anche le modificazioni all'equilibrio
degli ecosistemi attraverso la cementificazione delle fasce costiere,
il disboscamento delle rive, l'apertura di passaggi come quello di Suez,
la creazione di dighe come quella di Assuan.
Ciascuna di queste imprese porta a danni incalcolabili. Basti ricordare
che l'apertura del canale di Suez nel 1871 - lo ricorda un pioniere,
Hans Haas - fece penetrare in Mediterraneo un certo numero di specie
ittiche tropicali, finché le specie più deboli scomparvero,
mentre quelle più forti (una trentina) si insediarono e si propagarono
sino alle coste settentrionali africane, alla Grecia, alla Turchia,
alla Puglia, alla Calabria e alla Sicilia. La diga di Assuan, che è
opera di anni recenti, facendo mancare gli apporti tradizionali del
Nilo, ha sconvolto l'antico equilibrio, ha fatto scomparire dalla zona
interessata specie ittiche come le sardine, (e dove sono più
gli zerri, i "pupilli"?), ha creato sott'acqua un vero e proprio
"stato di guerra", ha modificato anche la situazione meteorologica.
Poi, l'assalto del petrolio ha fatto il resto, sia con gli effluenti
delle raffinerie e dei petrolchimici, sia con gli apporti delle acque
di lavaggio delle petroliere, sia con le perdite accidentali, come quella
che, nel 1973, inquinò la costa francese di Villefranche, per
l'apertura accidentale di una valvola del combustile su una nave da
guerra americana. Secondo stime, 300 mila tonnellate di idrocarburi
finiscono ogni anno in acqua (115 mila da impianti a terra), con conseguenze
tremende sugli ecosistemi, sulle coste, sulle acque, sui fondali, sugli
animali marini, sugli uccelli acquatici. I nostri mari, anche quelli
che "sembrano più puliti", hanno comunque una percentuale
di catrame per chilometro quadrato.
Poi, le città siderurgiche (e Taranto è una delle sette
città costiere siderurgiche del mondo), anche queste colpevoli
di scarichi inquinanti. La dislocazione costiera favorisce le esportazioni,
fa scendere i costi dei trasporti e rende quindi competitivi i prodotti.
Ma si paga un prezzo "a parte", un prezzo invisibile: e a
pagarlo sono ecologia e turismo, salute dell'uomo e salute del mare
e salute del pesce. Non a caso i mari pugliesi sono sempre più
poveri. E i tempi per correre ai ripari sempre più brevi.

Le regioni mediterranee maggiormente inquinate da scarichi urbani sono
la costa spagnola, l'arco costiero che va da Barcellona a Genova, il
litorale italiano in genere (con punte di livelli alte e basse), la
costa che va da Beirut a Tel Aviv, la zona di Istanbul. Occorre aggiungere,
poi, gli apporti dei fiumi. Quelli maggiormente inquinanti, Po a parte,
sono l'Ebro, il Rodano, l'Arno e il Nilo.
Secondo indagini recenti, 140 mila fabbriche di tutte le dimensioni
gravano sul Mediterraneo: il 13% costituito da cantieri navali e industrie
metallurgiche; il 23% da impianti chimici e vetrerie; il 25% da industrie
tessili e conciarie; il 20% da industrie alimentari; il 14% da industrie
della cellulosa e del legno; il 5% da industrie minerarie.
Esistono, ovviamente, altre fonti d'inquinamento (termico, radioattivo,
ecc.), soprattutto quelle degli scarichi urbani. Ma nella scala dell'impatto
inquinante - secondo il Wwf, Fondo Mondiale per la Natura - gli idrocarburi
occupano il primo posto per l'entità dei guasti che producono.
I detersivi hanno poi altissime capacità eutrofizzanti. Essi
contengono polifosfati in genere nella misura del 30% fertilizzando
le acque provocano un eccessivo sviluppo della vegetazione acquatica,
cui segue l'insorgere di fenomeni putrefattivi, con la conseguente moria
di pesci. E' quanto accade lungo le coste provenzali, in Adriatico e
nell'Egeo.
Gli scarichi delle industrie possono contenere fenoli (acciaierie, raffinerie),
cianuri (acciaierie, industrie galvaniche), vari composti contenenti
cromo, zinco, rame, piombo, acidi e basi forti, mercurio. E per quel
che riguarda il mercurio: il suo limite per la commestibilità
degli alimenti è fissato nella misura di 0,02 - 0,05 parti per
milione, mentre in Italia, già nel 1972, il tonno inscatolato
o fresco e anche il pesce spada ne contenevano percentuali tra 1,00
e 1,7.
Studi accurati hanno accertato che i tonni, che entrano in Mediterraneo
per riprodursi, hanno nei loro tessuti percentuali di mercurio più
basse di quelle contenute nei tonni che escono dal Mediterraneo. E poiché
il tonno è un pesce pelagico, si è convinti che esso si
contamini proprio nei nostri mari, dove si nutre di sardine, di sgombri,
di saraghi e di altro pesce azzurro con contenuto di mercurio più
alto che in Atlantico.
E non può non essere citato il pericolo per la salute dell'uomo
costituito dagli scarichi cloacali non depurati, le cui componenti patogene
possono essere veicolate attraverso i molluschi bivalvi consumati crudi.
Tra questi, le cozze appaiono le maggiori imputate, e non da adesso,
se già un secolo fa il professor Lavis e nel 1895 il professor
Wilson dimostrarono l'origine "conchigliera" di un buon numero
di febbri tifoidee osservate nel Sud d'Italia.
E pericolo per l'uomo è grave, perché - come ha osservato
J. Brisou, del Gruppo di Studi e Ricerche in Farmacia e Medicina di
Poitiers, in un volume pubblicato dall'OMS - i batteri patogeni non
sono affatto distrutti dall'acqua di mare né dai molluschi, anzi
esistono batteri enterici e virus che, in talune condizioni, si moltiplicano,
mentre non è prova o il cosiddetto "potere battericida o
virulicida" dell'acqua del mare. Il Mediterraneo è un bacino
che si estende su una superficie di circa tre milioni di chilometri
quadrati ed è circondato da dodici mila chilometri di coste,
escluse le isole. Su questo ampio perimetro gravano centoventi città
e 140 mila fabbriche, con una popolazione degli insediamenti costieri
di circa quarantacinque milioni di abitanti: oltre cento milioni se
si considerano come gravitanti sulla linea di costa anche le città
della "fascia costiera" fino a 25 chilometri all'interno.
Aperto all'Atlantico con lo Stretto di Gibilterra, questo antico mare
ha solo modesti passaggi con il Mar Nero e con il Mar Rosso;, e se per
il ricambio superficiale delle acque occorrono almeno ottant'anni, ne
occorrono almeno 250 per il cosiddetto "ricambio verticale".
La profondità media del Mediterraneo - che è diviso in
due regioni dallo zoccolo siculo-africano - è di 1.494 metri.
La profondità massima (che si riscontra nello Jonio, nella "Fossa
Matapan") è di 5.121 metri. Nel Tirreno, la massima profondità
è presso il "Monte Vavilov" che sorge da un fondale
di 3.600 metri e arriva fino a 735 metri dalla superficie. Altro monte
sommerso di notevole rilievo sorge a nord delle Eolie: è il "Monte
Marsili", che da 3.200 metri di fondale arriva a 500 metri dalla
superficie.
L'Adriatico presenta la maggiore salinità: 33 per mille.
Sei milioni di anni fa, il Mediterraneo si disseccò, le acque
si ritirarono, divenne un bacino desertico profondo tremila metri: le
prove di questa rivoluzione biologica furono scoperte da una nave da
perforazione, la "Glomar Challenger", che nel 1970 condusse
una crociera di esplorazione in tutto il bacino. Scomparendo le acque,
si formarono enormi depositi di sale, e sul fondo si aprirono grandi
canyons, che ancora oggi sono reperibili. Dopo il sale, venne il diluvio.
Dal 5 marzo 1979 nel nostro Paese sono in vigore gli accordi internazionali
di Barcellona, emanati nel '76 in seguito alle iniziative di vari organismi
mondiali come l'UNEP (l'Agenzia delle Nazioni Unite per l'ambiente),
la FAO (l'Organizzazione per il cibo e l'agricoltura), l'IMCO (la Consulta
intergovernativa per il mare), l'OMS (l'Organizzazione mondiale per
la sanità). Questi accordi portarono nel 1977 alla firma, a Spalato,
di un "Piano blu" e di un "Programma di azioni prioritarie
per il Mediterraneo". In Italia, il CNR ha avviato un progetto
"Oceanografia e fondi marini" articolato in sei sottoprogetti:
1) risorse biologiche;
2) risorse minerarie;
3) inquinamento marino;
4) piattaforma continentale,
5) tecnologie marine;
6) diritto del mare.
Al piano d'azione del Mediterraneo lavorano, con l'UNEP, la Commissione
Economica per l'Europa (ECE), l'Agenzia dell'Onu per lo sviluppo (UNDP),
la FAO, il Consiglio Generale della Pesca (GFCM), la Commissione Intergovernativa
Oceanografica (IOC), l'OMS, l'Organizzazione Meteorologica Mondiale
(WMO), la Consulta Marittima (IMCO), l'Agenzia Internazionale per l'Energia
Atomica (IAEA), numerosi organismi minori.
Le conseguenze del l'inquinamento sono preoccupanti, il prezzo che paghiamo
nel Mediterraneo è enorme. Secondo un'analisi dell'UNEP, questo
prezzo è così articolato:
- epatite virale, dissenteria, tifo e poliomelite sono mali endemici
della Regione Mediterranea, dove si verificano periodicamente anche
casi di colera;
- molte aree costiere e spiagge destinate al tempo libero sono ecologicamente
dissestate, e, in alcuni tratti, pericolose per la salute dei frequentatori;
- le fonti tradizionali di alimenti marini vanno diminuendo, mentre
ciò che rimane è sempre meno adatto al l'alimentazione;
- composti tossici di carattere chimico, specialmente mercurio, e pesticidi
si concentrano nella catena alimentare, mettendo in pericolo l'equilibrio
degli ecosistemi;
- lagune costiere e acque interne litoranee, che costituiscono le fasce
di riproduzione di molte specie, soprattutto dopo gli insediamenti edilizi
stanno diventando infrequentabili;
- materiali tossici si vanno concentrando nei sedimenti, con gravissimi
danni per gli organismi marini;
- effetti ancora da scoprire minacciano di apportare danni agli ecosistemi
fino al limite dell'irreversibilità.
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