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ANNI '80
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Terra! |
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Lucio
Marescalchi
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Ormai in quasi tutte
le regioni italiane stanno sorgendo cooperative agricole fra giovani.
Si parla di circa 300 iniziative del genere: non tutte, data la loro
precarietà e improvvisazione, destinate a resistere all'impatto
con la difficile realtà della terra. Ma, in buona parte, stanno
prendendo piede. Il take off, il decollo, è promettente. Il fenomeno,
dunque, non fa scalpore per la sua dimensione, ma perché si tratta
di giovani; e, come è stato scritto, con essi si intravede un
ritorno giovanile verso la terra; una rottura con il mito della fabbrica,
della tuta blu, e con il miraggio della città. Ma, anche, in
questa scelta giovanile potrebbe germogliare il seme per un cambiamento
nelle campagne che coinvolga globalmente la qualità della vita.
I giovani non vogliono adattarsi ad aree di parcheggio, per coprire
la disoccupazione o in vista di un altro lavoro. Se aiutati, vogliono
creare fonti permanenti di reddito e di lavoro. Sono, quindi, giovani
inoccupati, pochissimi di origine contadina, per lo più sono
diplomati nelle discipline agrarie; alcuni sono laureati. E' una eterogeneità
che si tiene in piedi con l'entusiasmo e con la forza che derivano dalla
novità, dalla "scoperta" della terra. I terreni coinvolti
sono quelli abbandonati; spesso i giovani si accordano con i proprietari;
molto più spesso riscattano le terre lavorate. Gli Enti locali,
in primo luogo le Regioni, hanno accolto con favore queste iniziative.
Ma è bene non creare grandi aspettative, non illuderli. La terra
ha bisogno di giovani, questo è innegabile; e tutto deve essere
fatto per facilitare l'incontro giovanicampagna. Ma come? in quali condizioni
operative? Senza dubbio, non in quelle che tuttora caratterizzano la
vita nelle zone rurali. Un salto di qualità nella vita rurale
non si inventa da un giorno all'altro, né possono realizzarlo
le scarse, anche se entusiaste, schiere giovanili, che alla fine sarebbero
vittime di situazioni storicamente consolidate e per le quali finora
si è fatto poco o nulla. Questi giovani, infatti, si scontreranno
ben presto con il dissesto del territorio, con gli inquinatori dell'acqua
e dell'aria, con gli investimenti pubblici "a pioggia" o concessi
in tempi lunghissimi e col contagocce, con caseggiati rurali fatiscenti,
con la scarsità e con l'inefficienza dei servizi pubblici e sociali,
con una pressocché inoperante assistenza tecnica, con strutture
colturali che quasi non esistono, con una ricerca applicata che è
distante anni-luce dall'agricoltura italiana. Il quadro del sottosviluppo
è sufficientemente chiaro. Non solo, quindi, milioni di persone
hanno lasciato la campagna e l'agricoltura per il miraggio della città;
ma anche, se non soprattutto, per le dure condizioni di vita alle quali
erano costrette a sobbarcarsi. Così, soprattutto nel Sud, si
sono avuti l'invecchiamento e la femminilizzazione della popolazione
agricola. Quattro milioni di ettari di montagna e sette milioni di ettari
di collina condizionano da sempre lo sviluppo dell'agricoltura meridionale;
circa due milioni di ettari dell'Appennino meridionale superano la pendenza
del 20-25 per cento; solo un milione di ettari sono rimboschiti, ma
più della metà sono cedui, cioè degradati, inefficienti
ai fini idrogeologici; un milione e ottocentomila ettari montani sono
incolti o abbandonati. L'esodo rurale è stato un'epopea, la pressione
sulla campagna è diminuita fino al limite dell'infarto. Eppure
tutto questo non ha significato ricomposizione di medie e grandi proprietà
fondiarie, l'accorpamento, la creazione di aziende agricole autosufficienti.
La terra è rimasta spezzettata, in nome forse dell'antico dato
permanente della gente del Sud: la fame di terra, e sia pure di un fazzoletto
di terra; il senso della microproprietà che non produce e non
dà reddito. Parliamo, ovviamente, della generalità dei
casi. L'agricoltura infatti è fiorente là dove si è
messa sulla lunghezza d'onda, ne ha accettato i ritmi, ne ha recepito
stile, metodi e mentalità. In altri termini, ovunque si sia dato
un efficiente taglio imprenditoriale. Perché ci si possa avvicinare
agli obiettivi del Piano Agricolo Nazionale, (trasformazione di 36 milioni
di quintali di prodotti ortofrutticoli, contro i 25-26 milioni di quintali
attuali; dieci milioni di quintali di conserve animali contro i nove
di oggi; 5,6 milioni di quintali di formaggi, più o meno un milione
di quintali in più; produzione intensiva di carne, anche alternativa,
soprattutto nelle aree altocollinari e montane del Mezzogiorno, e la
relativa produzione di mangimi e foraggi, per limitare le importazioni
che sbilanciano paurosamente i nostri conti alimentari con l'estero)
gli strumenti di fondo ci sono, alcuni un poco zoppicanti, altri di
incerta attuazione: ma ci sono. Dalla legge 675 che ha consentito il
varo di un piano finalizzato, che, quanto meno, auspica una regolamentazione
dei rapporti tra agricoltura e industria di trasformazione, al più
recente "Quadrifoglio". uno strumento, questo, che non è
immune dai vizi dei vecchi "piani verdi", perché ancora
eccessivamente affidato a una logica settoriale, ma che porta con sé
preziose indicazioni innovative, come quella del l'ammissione ai benefici
della legge 984 degli imprenditori anche non agricoli. Sono le premesse
per una trasfusione di sangue nuovo (cioè: di mentalità
imprenditoriale e di mezzi finanziari) in un settore tuttora anemico.
Poi, i piani regionali di sviluppo, che dovrebbero essere il braccio
secolare del "Quadrifoglio" (ma qui siamo ancora fermi alle
dispute di principio); infine, ultimo strumento, la programmazione del
fondi comunitari Cee-Feoga, e la ricerca scientifica applicata.
E al Sud? Negli anni 80 la
programmazione nazionale dovrà essere un fattore di razionalizzazione
dell'intervento pubblico, mentre occorrerà far leva sul mercato
come criterio di verifica della validità degli investimenti e
delle capacità imprenditoriali, entro il quadro dei grandi riferimenti
nazionali e comunitari sull'uso delle risorse, in primo luogo energetiche.
Cosa accadrà per le regioni meridionali? Gli industriali hanno
presentato al Ministro per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno
un "decalogo", dal quale stralciamo i punti principali:
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