Fino al termine
degli Anni Settanta il controllo dell'economia mondiale era saldamente
nelle mani dei governi e delle autorità monetarie dei principali
Paesi industriali. Poi il sistema è saltato e a poco a poco l'iniziativa
è passata al mercato con tutte le incongruenze e le deviazioni
che ne derivano. Oggi si può affermare che trattare di economia
e di monete è come giocare alla roulette. Nonostante i "pacchetti"
di misure anti-inflazionistiche, i piani di stabilizzazione, gli accordi
internazionali, i politici in realtà sono costretti a giocare
solo di rimessa. Circolano ormai nel mondo, incontrollati e incontrollabili,
immensi capitali che in caso di rapidi spostamenti hanno la forza di
sconvolgere qualsiasi intervento delle autorità monetarie.
Queste ultime, poi, devono far bene attenzione a non strangolare eccessivamente
l'economia dei singoli Paesi, perché una troppo brusca e incisiva
inversione di tendenza potrebbe provocare una rovinosa deflazione e
l'"avvitamento" del sistema produttivo. A questo drammatico
quadro non possono sottrarsi neanche i Paesi dell'Est, che sono direttamente
o indirettamente coinvolti nelle vicissitudini congiunturali dell'Occidente.
E' forse la prima volta nella storia moderna che il mondo intero soffre
del mal d'inflazione: il che finisce col ridurre sensibilmente le possibilità
di intervento tonificatore. Dopo una febbrile attesa, gli Stati Uniti
hanno annunciato la loro strategia antinflazionistica: oltre ad una
tassa sul petrolio importato e ad una serie di riduzioni negli stanziamenti
di bilancio per riportarlo in pareggio, eliminando il previsto deficit
di una quindicina di miliardi di dollari, lo sforzo maggiore sarà
concentrato nel settore creditizio e monetario. In pratica, fatta eccezione
per i comparti auto e casa, l'accesso ai finanziamenti diventerà
più difficile e il denaro costerà ancora di più,
arrivando o addirittura superando il lunare tetto del 20 per cento.
Ciò ha già provocato un terremoto sui mercati valutari
internazionali e un'inversione di tendenza sul cambio del dollaro nei
confronti delle altre monete. Un dollaro molto forte significa pericolo
di tempesta nei Paesi industriali, soprattutto trasformatori, come Giappone,
Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia. Infatti, le materie prime
importate - petrolio greggio in prima linea - sono conteggiate in gran
parte in dollari, il che causa un aumento dei costi che solo in modesta
misura possono essere trasferiti sui prezzi e anche in questo caso con
il pericolo di dare ulteriore alimento alla spirale infiazionistica.
In simili condizioni, il prezzo-base di vendita del petrolio non dovrebbe
subire altri aumenti da parte dei Paesi produttori: anzi, se la tendenza
dovesse continuare, sarebbe necessario esaminare l'eventualità
di una diminuzione. E' una riflessione utopistica? Può darsi,
ma qualche volta anche le utopie si possono trasformare in realtà.

In una situazione tanto aleatoria da sfiorare il gioco d'azzardo cresce
l'affanno in Italia, che è il più fragile e vulnerabile
fra i Paesi industriali. Come è noto, una larga fetta della nostra
attività economica dipende dall'interscambio con l'estero e quanto
avviene oltre i nostri confini ci tocca sempre molto da vicino: il rialzo
del dollaro riduce la competitività ed è destinato a pesare
sulla nostra bilancia commerciale e su quella dei pagamenti. Per questo
motivo, è necessario snellire e rendere più efficienti
le strutture che sono a monte dell'attività economica.
Siamo su questa strada? Si direbbe proprio di no. In una così
delicata congiuntura internazionale, da noi non esiste un Governo che
governi, un Parlamento che sia in grado di affrontare gli eventi che
si susseguono con un crescendo impressionante, una Confindustria che
abbia in pugno la situazione interna, dei Sindacati che sappiano distaccarsi
da quel populismo e garantismo che, dopo i primi successi, hanno impastoiato
il sistema e fatto precipitare la produttività. Inoltre, il più
delicato congegno per un'economia di mercato moderna, quello bancario,
è attaccato da molte parti per faide politiche che poco hanno
a che vedere con il più autentico ruolo che (al di là
di comportamenti singoli, al vaglio della Magistratura) esso svolge
correttamente.

La Banca d'Italia,
nonostante le ferite riportate quando si tentò di scatenare sulla
sua testa una campagna scandalistica priva di fondamento, ha mostrato
di non aver perso il controllo della situazione e manovra in modo da
non soffocare l'attività produttiva, cercando nel medesimo tempo
di contrastare i movimenti speculativi sulla lira. E' per questo che,
anziché aumentare ancora una volta il tasso di sconto, sta procedendo
a rendere il più rigido possibile quel "tetto" sull'erogazione
del credito da parte delle Banche che in questo momento, a giudizio
di validi economisti, è più utile che mai. Non può
però impedire che, via via che passano i mesi, diventi problematico
il collocamento di ingentissimi quantitativi di titoli di Stato (Bot,
Cct, Btp), che sono destinati a coprire il disavanzo pubblico, il male
oscuro che affligge il nostro Paese e che potrebbe provocare, continuando
in questo modo, il collasso dello Stato e la nostra emarginazione dal
consesso delle nazioni industriali.
E tuttavia, quello che stupisce noi, e soprattutto gli osservatori stranieri,
è come il Paese, in mezzo a tanti scogli, tempeste e avversità,
"tenga" ancora, soddisfacentemente. E' questo il segno della
speranza che gli italiani ancora covano nel profondo: la possibilità
di un'uscita dal tunnel e di un ritorno alla luce c'è, nonostante
tutto.
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