Il numero dei disoccupati
registrati nei nove Paesi della Comunità Economica Europea ha
raggiunto sei milioni e 700 mila unità. I dati risultano dalle
tabelle pubblicate a Bruxelles a cura degli uffici di rilevazione della
Commissione Esecutiva della Cee. I Paesi più colpiti sono il
Belgio (+ 18,4 per cento rispetto alla precedente rilevazione); il Regno
Unito (+ 14,3 per cento); il Lussemburgo (+ 13,0 per cento); i Paesi
Bassi (+ 11,9 per cento); la Repubblica Federale Tedesca (+ 9,2 per
cento). Nel nostro Paese il tasso di disoccupazione, che aveva registrato
nel mese di luglio di quest'anno una leggera flessione (meno 0,3 per
cento), è di colpo salito a partire dalla fine dell'estate con
dati non ancora definibili, dal momento che molte unità lavorative
si sono rifugiate nel lavoro nero. Leggermente aumentato anche il tasso
della Francia (+ 2,6 per cento), dell'Irlanda (+ 4,5 per cento) e della
Danimarca (+ 5,5 per cento).

Un confronto con le rilevazioni dello scorso anno indica un aumento
del numero dei disoccupati del tredici per cento nell'intera Comunità
Economica Europea. L'aumento, però, al di là della media
comunitaria, ha raggiunto il livello del 29,5 per cento nei Paesi Bassi
e del 15,6 per cento nell'Irlanda.
I dati, corretti dalle variazioni stagionali, indicano che il notevole
aumento dei disoccupati non è da imputare alla maggiore disponibilità
sul mercato DEL lavoro, tradizionalmente registrata alla fine dell'anno
scolastico. Gli uffici statistici della Comunità rilevano tuttavia
che il 41,7 per cento degli inoccupati nei nove Paesi membri sono giovani
al di sotto dei 25 anni.
Tra le rilevazioni più drammatiche, anche se largamente previste,
predominano quelle dei settori metallurgico, siderurgico, automobilistico,
degli elettrodomestici e dell'industria chimica. Ma non vanno sottovalutate,
ancora una volta, le "fughe" dalla terra: l'esodo dalle campagne
continua, anche se in misura meno clamorosa rispetto ai periodi acuti
della nostra storia recente. I mancati accorpamenti delle proprietà
agricole frantumate in mille brandelli, e dunque economicamente improduttive,
non attraggono: i vecchi abbandonano il campo, i giovani rivolgono altrove
i loro sforzi e le loro attenzioni. Oltre tutto, il costo sociale della
disoccupazione finisce per gravare fortemente sulle spese degli Stati.
E questo, oltre tutto, spiega anche gli insuccessi di alcuni governi,
in particolare quello italiano e quello britannico, i quali, dopo aver
predicato con zelo missionario i più rigorosi controlli della
spesa pubblica, finiscono per ritrovarsi di fronte a fabbisogni pubblici
di altissimo livello, e non di rado oltre gli ultimi limiti di guardia.
Ciò significa, soprattutto:
- che ci sono, in economie altamente industrializzate e sindacalizzate,
dei limiti precisi a ciò che può ottenere la "terapia
d'assalto monetaria" contro l'inflazione, come nel caso del Regno
Unito;
- che non è possibile espandere la propria economia, senza poi
cadere nella recessione, sia pure limitata, come nel caso della Repubblica
Federale Tedesca;
- che non si può ancora continuare a vivere pericolosamente su
un'economia dualistica, del modello locomotiva-carro merci, qual è
quella italiana, con un Nord sempre produttore e un Sud sempre importatore,
con una vasta area creatrice di ricchezza e un'altra area, anche questa
di grandi dimensioni, assistita e clientelare, sospesa tra un'economia
agricola che stenta a rinnovarsi e un'economia industriale che, malgrado
tutto e malgrado tutti, non è riuscita a decollare.
La situazione italiana, infatti, è emblematica: il maggior numero
dei disoccupati si concentra nelle regioni meridionali, che continuano
ad esportare giovani attraverso l'emigrazione; i problemi più
aggrovigliati nel settore primario rischiano di essere risolti con un
totale tracollo, visto che la Comunità ha accolto, direttamente
o sotto forma di "associazione", altri Paesi che immettono
sui mercati prodotti di colture mediterranee come quelli del Sud d'ltalia:
ma a prezzi altamente concorrenziali, perché la manodopera ha
bassissimi costi e non è protetta da alcun sindacato né
dagli "ombrelli" assistenziali e previdenziali. La crisi del
nostro settore vitivinicolo non è che l'occhio di spia di quanto
potrà verificarsi nel Sud a breve termine. Ricorrere alle strategie
delle "integrazioni" può essere solo un fatto temporaneo,
e comunque "assistenziale" nella accezione più inquietante
- dal punto di vista economico - del termine. Bisognerebbe intervenire
là dove l'industria non c'è e i contadini si comprano
a prezzi di fame. In Grecia e in Spagna, in Turchia e in Portogallo,
nei Paesi africani del bacino occidentale dell'Africa. Ma occorrerebbe,
per questo, una moneta fuori corso: il coraggio politico. Tra non molto,
il Sud pagherà a caro prezzo l'assenza di questa moneta.
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