Il teatro greco
di Metaponto, testimonianza di una civiltà che fiorì nel
cuore della Magna Grecia e dominò tutto il litorale jonico lucano.
Otranto e il cinquecentesimo anniversario della stia tragedia. I "vattienti":
la "rosa" in una mano, il "cardo" nell'altra, tre
momenti di ciò che fu il Mezzogiorno, e di ciò che è.
La "cavea certo non vibrerà più alle lamentazioni
del coro, né il pubblico sarà lo stesso che migliaia di
anni fa si affollava sui sedili delle enormi gradinate a emiciclo dell'edificio,
fremendo alla rappresentazione delle "Trachinie" o delle "Eumenidi",
ma il teatro greco di Metaponto, sulla costa jonica della Basilicata,
sarà lo stesso in grado di offrire uno spaccato autentico dell'arte
e dell'architettura magno-greca. Poche settimane fa, infatti, un gruppo
di studiosi, sulla base di una fatica archeologica durata decenni, ha
potuto ricostruire, pezzo dopo pezzo, questo teatro, già noto
nell'antichità e citato da storici come Pausania e Strabone,
affrontandone un progetto di completo restauro. Rimettere assieme le
tessere di un mosaico vecchio di oltre ventiquattro secoli comportava
non solo la conoscenza approfondita della topografia di Metaponto, ma
anche dell'arte, della storia e della letteratura dell'intera Grecia.
Ecco perché l'archeologo Dinu Adamesteanu, dopo aver rintracciato
e portato alla luce l'edificio (e non solo questo), dandogli anche una
precisa collocazione storica, ha chiamato a raccolta filologi, grecisti,
architetti, nel tentativo di restituirlo alla fruizione di tutti. Metaponto,
poi (storicamente una colonia degli
Achei del Peloponneso, ma la cui fondazione mitica si fa risalire addirittura
all'eroe omerico Nestore e ai "Nostoi", quei reduci, cioé,
della guerra di Troia, scampati nella penisola italica), per la complessità
della sua storia, costituiva un problema nel problema. Questa città,
infatti, andava famosa nell'antichità non solo per la fertilità
delle sue terre e per l'agiatezza dei suoi braccianti, ma anche per
la sua celeberrima Scuola di Filosofia. Una scuola filosofica fondata
da Pitagora (che morì proprio in questa città) e che aveva
come allievi i rampolli delle migliori famiglie greche: e proprio per
questo anche il governo aristocratico metapontino subiva l'influsso
potente della dottrina pitagorica. Ciò poteva significare che
la tipologia dei monumenti pubblici, anche a distanza di anni dalla
scomparsa di Pitagora, potesse essere differente da quella DEL mondo
greco, in generale, e di quello di Magna Grecia in particolare.
Infatti il teatro di Metaponto, pur essendo greco, possiede sconcertanti
caratteristiche in comune con quello romano: senza che le aquile imperiali
si fossero ancora affacciate in questo versante dello Jonio. Una ricostruzione,
dunque, difficile, dove è stato decisivo l'intervento dell'architetto
tedesco Mertens, dell'Istituto Germanico di Roma, che è riuscito
persino a ricostruire la cosiddetta "proedria", vale a dire
la prima fila dei gradini del teatro, riservata ai personaggi di rango.
L'unico problema, semmai, allo stato delle cose, rimane quello di stabilire
(se mai lo si potrà) se in questi posti sedessero davvero le
autorità del governo, e non, piuttosto, come succede nelle tribune
d'onore dei nostri stadi, raccomandati e politicanti di bassa lega.
Per la storia, furono scolpite 2.500 anni fa le pietre di questo teatro,
ma la loro storia solo da poco tempo è stata conosciuta: da quando,
cioé, una campagna di scavi sistematici le ha riportate alla
luce. Sono le testimonianze di una civiltà che fiorì nel
cuore della Magna Grecia: una comunità che operò sulla
costa jonica lucana dominandola soprattutto dall'alto della sua cultura
e della sua attitudine al commercio e all'industria, e che addirittura
anticipò i futuri sviluppi dell'architettura romana, come dimostra
il prospetto ricco di decorazioni all'esterno del teatro.
I blocchi di pietra sono stati ordinati con estrema cura, restaurati
o integrati (se non proprio ricostruiti) con una pietra artificiale
ottenuta dopo l'analisi del materiale fatta in laboratorio. La malta
ricavata da speciali impasti è molto simile alla pietra dell'epoca,
sicché quando gli antichi monumenti saranno sistemati al loro
posto, così com'erano quattro secoli prima di Cristo, risulteranno
perfettamente uguali a quelli che diedero vita ad un'attività
culturale molto fiorente. Sono state le fotografie aeree a dare una
grossa mano al professor Adamesteanu, che dalla natìa Romania
si era trasferito in Italia ed era approdato in Basilicata come Soprintendente
archeologico, a convincere anche i più diffidenti che Metaponto
era proprio lì. Iniziarono dunque i primi scavi. Oggi, tutto
ciò che è stato riportato alla luce grazie alla genialità
e alla tenacia di questo amico dell'Italia e della Magna Grecia è
un motivo di riflessione importante per la conoscenza della storia del
Mezzogiorno antico, che va dal VII al IV secolo a.C.
Otranto 1980: a cinque secoli dalla presa, è ancora vivo il ricordo
di quei terribili momenti; e se pure dal mare non emerge più
alcun pericolo barbaresco e i saccheggi, le rapine, le uccisioni e la
schiavitù non siano ormai che memoria storica, la città
sembra rivivere, il 10 agosto, quella sofferta esperienza: nelle celebrazioni
- quest'anno davvero eccezionali - e nella ricostruzione degli avvenimenti,
nella commemorazione degli "Ottocento che quel giorno dissero no"
e nella ricerca di nuovi rapporti, culturali e civili, con i nipoti
dei pronipoti dei nemici di un tempo.
Fu un'età che segnò la vita, la storia, la letteratura
popolare e colta, il linguaggio degli otrantini, con una coralità
sconosciuta a qualunque altra area - pugliese, lucana, calabrese, persino
campana -- raggiunta dagli scorridori. Probabilmente perché nessun'altra
città di analoghe dimensioni subì una vicenda tanto drammatica;
perché questa vicenda, al di là della verità storica
(sempre in qualche modo distorta con il passare del tempo, per il sovrapporsi
e l'innestarsi di elementi mitologici, leggendari) sfociò in
un grandioso fenomeno di fede; perché la cultura - non solo locale
- ne ha tenuto quanto mai vivo il ricordo. Eppure, rispetto alla storia
"vista dall'altra parte", l'assalto e la presa di Otranto
fu un avvenimento poco meno che marginale. Tant'è che rarissime
sono le fonti islamiche.
E' appena il caso di ricordare che la scorreria non era praticata solo
dai barbareschi del bacino centro e medio-orientale del Mediterraneo.
Se piccoli e medi centri abitati del Sud subirono, anche a più
riprese, gli assalti saraceni, algerini, turchi, sorte non diversa capitava
a centri e a navi islamiche ad opera di scorridori occidentali, cristiani,
i quali praticavano intensamente la tratta degli schiavi, la rapina
e il saccheggio. Il Mediterraneo era un "lago salato" infestato
da pirati di tutte le razze e di tutte le lingue. Otranto, dunque, rientrava
perfettamente in questi "rapporti" determinati dalla condizione
di precarietà in cui si trovavano le città costiere, lungo
l'intera fascia rivierasca mediterranea.
Certo, il centro salentino conobbe, a differenza di quanto si verificò
per l'intera Sicilia o per la Spagna, solo gli aspetti negativi della
presenza turca e islamica. E lo stesso può dirsi per Taranto
e Bari (città occupate in epoche diverse). Non un'architettura,
non una scultura, non una poesia. De resto, la dominazione fu breve
e, appunto, predatrice. E se dovessimo in qualche modo renderla emblematica,
attraverso un'immagine di sintesi, lo faremmo attraverso quello scorcio
di mura, che possiamo ancora vedere: vi è confitta una palla
di catapulta. Testimonianza quant'altre mai eloquente di quanto è
rimasto, oltre al fiore all'occhiello della fede, di quei giorni.
C'è un rito cruento, il sabato di Pasqua, nel profondo Sud. Scorre
sangue vero, che arrossa gli usci e le strade di Nocera Terinese, un
piccolo paese in provincia di Catanzaro, dove l'emigrazione è
l'unica risposta al lavoro. E' più di una "sacra rappresentazione",
quasi una cerimonia nella quale magia e religione si fondono nel nome
della tradizione.
Il rito è quello dei "vattienti", e si ripete ormai
da centinaia di anni (pare risalga al XVI secolo) a sottolineare il
bisogno di una comunità - tra le più sperdute in un Mezzogiorno
affastellato di miti e di tradizioni popolari - di riaffermare la propria
identità culturale. Le motivazioni sono religiose, ma c'è
un fondo di paganesimo che pervade l'animosità dei penitenti,
che col sangue festeggiano Cristo che risorge. Il venerdì santo
è giorno di lutto; sabato vede avvicinarsi il momento dell'apoteosi.
Il "vattiente" è un credente che compie un rito devozionale
il giorno in cui tutto il paese è impegnato a seguire, in una
processione interminabile, una statua lignea della Pietà, che
con ogni probabilità risale al XVII secolo. E' una processione
che vede levarsi preghiere per la resurrezione insieme con canti popolari
in dialetto: canti "della Passione" che si tramandano ormai
solo oralmente. Una processione alla quale tutti, ad ogni costo, vogliono
prender parte: coloro che trascinano sulle spalle la pesante vara dell'Addolorata
(portata in tutti gli angoli, in tutte le strade, senza esclusione)
sono sempre gli stessi, anno dopo anno, e tramandano tale ufficio da
padre in figlio. E per chi è lontano, per l'emigrato, i giorni
della Pasqua con i riti di Nocera rappresentano un appuntamento al quale
non si può mancare: l'appuntamento con la propria fede, non solo
un breve ritorno a casa. Il giorno della Passione rappresenta il momento
di manifestare di fronte all'intero paese la propria devozione, riaffermando
la sacralità di un gesto che persino il Vescovo del centro più
vicino, Tropea, ha più volte - inutilmente condannato.
Luigi Lombardi Satriani, tra i più attenti studiosi delle tradizioni
popolari del Sud, sostiene che in questi paesi "i processi degenerativi
del tessuto sociale e le violenze acculturatrici si stanno consumando
fino in fondo. Non siamo - prosegue l'Autore - in presenza di relitti
culturali di epoche precedenti che si trascinano inerti ( ... ), la
flagellazione sottolinea la centralità della cultura folclorica
del tema del sangue che, in quanto simbolo della vita, non può
essere inpunemente versato e rende decisive e irrevocabili le azioni".
I "vattienti", mentre tutto il paese è dietro la processione,
si flagellano - secondo una gestualità rituale immutata nel tempo
- le gambe e lasciano scorrere il sangue per le strade, correndo su
e giù per il paese. Solo dopo che è stata resa visita
a tutti i parenti, gli amici, ed eventualmente anche alla fidanzata
(che in questo caso prende come buon auspicio la vitalità del
promesso sposo che sanguina), il "vattiente" ha concluso il
rito: può dunque medicarsi le ferite e andare in chiesa, in visita
alla Madonna, a processione rientrata.
Sono una trentina in tutto i "vattienti" che ogni anno ripetono
il rito. Ci sono stati casi di emigrati i quali, non potendo far ritorno
a Nocera il Sabato Santo, si son fatte sanguinare ugualmente le gambe
nei Paesi nei quali risiedono; altri, sempre in quel giorno, hanno donato
il sangue alle emoteche: importante, è non interrompere la tradizione.
La preparazione avviene in un locale attiguo all'abitazione del "vattiente":
qui hanno accesso solo i maschi. Il "vattiente" si toglie
gli abiti e indossa una maglia di lana nera, un pantalone corto, e si
copre con il "mannile" (un panno nero indossato abitualmente
sul capo dalle donne) la testa, appoggiandovi sopra una corona di spine.
Insieme con il "vattiente" si prepara un ragazzo, comunque
un giovanissimo, chiamato "acciomu" ("Ecce Homo"),
il quale si cinge i fianchi con un panno rosso e porta sulla testa una
corona di spine con lunghi e aguzzi aculei (la "spina santa").
L'"acciomu", con una croce rivestita di panno rosso, accompagna,
il "vattiente" nella sua corsa per il paese, restando legato
ad esso con una cordicella di qualche metro. Il "vattiente"
si lava i polpacci e le gambe con un infuso di acqua e rosmarino, che
ha funzione disinfettante, quindi incomincia a flagellarsi gli arti.
Per quest'operazione dispone di due dischi di sughero che sono chiamati
"rosa" e "cardo". La "rosa" è un
disco levigato con il quale il protagonista si batte le gambe per far
affluire il sangue; il "cardo", invece, porta tredici pezzi
di vetro attaccati al sughero. E' con il "cardo" che il "vattiente"
si lacera, con colpi secchi e violenti, le gambe, lasciandosi sanguinare.
Ha inizio così il rito vero e proprio. Il "vattiente",
che secondo la tradizione non può incontrare la statua dell'Addolorata,
corre per le strade del paese, fermandosi davanti alle case di amici
e parenti. Ad ogni sosta crescono i colpi di "cardo" e le
gambe si rigano completamente di sangue: il sangue che arrossa vie,
porte di abitazioni, gradinate. Ma il "vattiente" soffre in
silenzio la "penitenza". Concluso il giro del paese, questo
protagonista, ferito anche profondamente, ma felice d'aver compiuto
il suo atto devozionale, fa ritorno a casa, si rimette in sesto, e prende
la via della chiesa. Il sangue, dunque, assume un significato di offerta
di se stessi alla divinità per propiziarsela, (un fervore religioso
che poggia troppo sulla mortificazione della carne, sulla scorta di
antiche tradizioni medioevali di flagellazioni); ma il gesto in sé
racchiude anche una specie di sofferta rabbia secolare contro l'abbandono
e la miseria del paese.
In un Sud che sembra ancora assai lontano dall'"altra Italia",
nel quale magia e sofferenza, mito e religione, tradizione e disperazione
si fondono con l'interiore rivolta della gente emarginata, la celebrazione
della Passione, più che rinascita della vita, sembra rappresentare
il trionfo della morte. Una morte trasfigurata in evidenti tracce della
propria identità culturale, mai rinnegata.
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