Tale doveva essere
per tutto il Medioevo e il Rinascimento lo stato di estrema necessità
che costringeva i poveri, i diseredati, i disoccupati e i mendicanti a
una continua mimetizzazione per sopravvivere e tirare avanti, che in tempi
diversi vennero alla luce due operine - ma in realtà una sola perché
la seconda furfantescamente non è altro che la traduzione italiana
della prima scritta in latino - per definire nei caratteri e smascherare
tutta questa umanità brulicante.
La prima dal titolo: "De cerretanorum origine eorumque fallaciis"
scritta da Teseo Pini è venuta alla luce nella seconda metà
del XV secolo e la seconda "Il vagabondo, ovvero sferza de' Guidoni.
Opera nuova nella quale si scoprono le fraudi, malitie, et inganni di
coloro che vanno girando il mondo alle spese altrui" èdata
in luce "per avvertimento dei semplici" da Rafaele Frianoro
nel 1612.
Nei due libriccini in questione sono catalogati e descritti, con puntigliosità
da entomologo, circa 40 tipi di vagabondi. In questa breve nota non starò
ad elencare "tutte le sorti di vagabondi, ovver pitocchi, che girano
il mondo", ché sarebbe lavoro inutile, dal momento che esiste
il bel volume edito da Einaudi, ancora reperibile, curato da Piero Camporesi;
ma mi fermo a fare qualche breve considerazione solo su un tipo di essi:
gli attarantati.
Non so se questa notizia sia sfuggita ad Emesto De Martino o se più
verosimilmente lo studioso non abbia voluto occuparsi della mistificazione
del fenomeno così a fondo da lui indagato; tuttavia trovando io
il fatto di una certa importanza, mi pare opportuno metterlo in evidenza.
Cosa in realtà è scritto a proposito dei tarantati nelle
due operine?
Riporto qui di seguito i due brani che ci interessano. li primo è
tratto dallo "Speculum cerretanorum" di Teseo Pini. Cito da
"Il libro dei vagabondi" Einaudi, 1973, pag. 39:
" Attarantati,
dicti sunt a quibusdam vermibus venenosis natis in agro Tarentino, quorum
morsibus se cruciatos fingunt, et in varias insanias, et ipsarum bestiarum
naturas speciesque incidisse, elemosinas conquerunt, vibrantes caput,
genibusque trementes, saepeque ad sonum cantant, et ac si coreas ducerent
saltant, modo spumantia ora agitant, dentesque stridoribus conterunt.
Hi nihil petunt, sed socius pro eis elemosinas postulat et recepit,
et quamobrem quove in loco homo ipse attarantatus sit praedicat: o ingenium,
o ars cunctis inaudita seculis! Cercha quidam Trepontianus lacobum Tonii
cerretanum amicum et socium suum catenis duabus vinctum more Petri Apostoli,
tenentemque saponem in ore, spumantibusque labiis, velut limphaticum
canem, per Apuliam ducebat Tarentinosque sese aiebat, et amicum catenatum
tarentinis vermis veneno corruptum in rabiem saevientis canis continuo
exarsisse. Utinam laboribus et vigiliis quibus hoc anno vexatus sum,
tot pecunias domum reportarem, quot Cercha ille, cercando, ut ita loquor,
Trepontium retulit".
Il secondo brano
è tratto da "Il vagabondo, ovvero ecc." di Raffaele
Frianoro e, come facilmente si può notare, altro non è
che la traduzione dello scritto di Teseo Pini con qualche modifica o
aggiunta di poco conto. La citazione è sempre dall'edizione Einaudi
curata da Piero Camporesi. Capitolo XVIII come il precedente, pag. 133.
"Delli attarantati.
Fingono questi esser stati morsi da alcuni animali che nascono nel territorio
di Taranto (da cui sono nominati) ed esser caduti in quella infirmità,
che li rende come pazzi. Vibrano e sbattono la testa, tremano con le
ginocchia, spesso al suono cantano o ballano, agitano le labbra, stridono
co'denti e fanno azioni da matti. Niente chiedono, ma il compagno guidone
notificando per tutto ch'egli è attarantato, chiede e raccoglie
elemosina per loro: oh ingegno, oh arte inaudita per il passati secoli!
Un certo Cesare conduceva per la Puglia Giacomo di Togno suo amico,
legato con due catene di ferro longhissime, sì che pareva San
Pietro. Questo Giacomo teneva in bocca un poco di sapone, quale per
la sua amarezza era causa che dalla bocca mandasse fuori grandissima
quantità di spuma e bava, come sogliono fare li cani arrabbiati.
Diceva il guidone che erano di Taranto, e che quello incatenato era
stato morso da uno di quei maledetti vermi; e che infatti si era arrabbiato
tanto crudelmente che con le catene appena si poteva tenere, né
si poteva trovar rimedio, ché tutti gli avevano fatto peggio,
onde molti andavano per vederlo, e a quel batter e strider de' denti,
che faceva la bocca spumante, gli occhi a sguardature terribili, il
tremor della persona, le scosse delle catene, il dir del compagno guidone
"tien forte quella catena, che adesso va in furore, o là,
a te, guarda che non ti morda o non ti tocchi con quella schiuma, che
saresti spedito", faceva convenire infinita quantità di
popolo a vedere, e ne riceveva tante elemosine che piacesse a Dio che
io avessi guadagnato tanto in quest'anno con li miei sudori, studi e
fatiche, quanto questi furbi si portano alla patria sua."
In che cosa dunque
consiste l'importanza dei due brani? Innanzi tutto lo scritto di Teseo
Pini è una delle prime testimonianze sul tarantismo, anche se
nelle intenzioni dell'autore non esiste certo la volontà di parlare
dell'autentico fenomeno come tale, ma, come si diceva, della mercificazione
di esso a scopo di lucro da parte di certi vagabondi a danno dei "boni
probique homines".
Poi i due scritti, dei Pini e del Frianoro testimoniano della enorme
diffusione, anche se non direttamente del fenomeno del tarantismo, della
notizia e conoscenza di esso in vaste regioni e in gran parte di popolo,
tanto è vero che gli autori sentirono la necessità di
dare indicazioni utili per poter smascherare la massa dei falsi "attarantati".
Ma certo non sono solo queste le riflessioni che si possono fare dopo
la lettura dei due brani. E' anche importante notare come il fenomeno
magico-religioso del tarantismo, questo straordinario e complesso elemento
della cultura popolare, sia divenuto strumento di vera e propria sopravvivenza
per una parte degli esponenti di quella stessa cultura: accattoni, vagabondi,
elemosinanti, affamati, truffatori, disoccupati, e furbi di ogni tipo.
In un'epoca in cui il povero, come era nel XVI e XVII secolo, comincia
ad avere vita veramente difficile, vuoi per le crisi economiche vuoi
perché iniziano a mutare proprio allora le idee medievali sul
suo carattere sacro di "membro di Gesù Cristo", tutta
questa varia umanità deve inventarsi con voli eccelsi della fantasia
una propria esclusiva arte di vivere.
I trucchi e le astuzie dei poveri che mendicano non sembrano però
appartenere tanto alla storia dell'ipocrisia e della simulazione quanto
alla storia dello spettacolo popolare e in particolare alle sanguigne
rappresentazioni carnevalesche. Questi poveri sono degli attori straordinari,
certo neppur lontanamente somiglianti a quelli di oggi che, veri o falsi,
poveri e malati che siano, al massimo riescono ad immaginare una frase
da scrivere su di un pezzo di carta, buttarsi faccia a terra su di un
marciapiede in prossimità di grandi magazzini o di importanti
uffici e lasciar parlare per loro quel biglietto, che somiglia fatalmente
a quello dell'accattone sistemato più in là.
L'unica simulazione di qualche genio, suggerita dai nostri stessi tempi
pieni di orgoglio, è l'ostentare, il rappresentare la vergogna
del domandare elemosina, del chiedere aiuto. Gli accattoni, i truffatori,
i vagabondi e i furbi di una volta, quelli dalla grande fantasia, quelli
veramente degni, oggi non sono più per le strade a fare spettacolo
di sé, ma non sono scomparsi: oggi vivono ed operano ben camuffati
nelle istituzioni. Non hanno però l'estro degli attori della
commedia dell'arte, ma quello più vile e consono ai tempi di
una mimesi perfetta.
Giacomo l'attarantato, che tenendo in bocca un poco di sapone e che
a causa di questo manda fuori grandissima quantità di spuma e
bava e che vibra e sbatte la testa, che agita le labbra, fa stridere
i denti e che al suono canta e balla, è un attore bravissimo,
uno che della necessità ha fatto arte scenica, uno che per riempire
il ventre non esita un istante ad usare le credenze popolari (che lui
stesso conosce benissimo) come mezzo economico di sfruttamento. Questa
raffinata arte di arrangiarsi, che non ha mai più abbandonato
l'italiano, entra così a far parte di quella cultura popolare
cui appartengono gli stessi fenomeni usati come strumento di attuazione
della medesima arte.
E' un circuito chiuso dal quale nulla sfugge e si perde. Tutto rimane
nell'ambito della stessa cultura: il fenomeno del tarantismo vero, i
poveri "attarantati" finti, quelli che fanno l'elemosina nelle
piazze e per le strade, e lo stesso strumento economico della rappresentazione
scenica a forti tinte.
I due testi dei Pini e del Frianoro diventano quindi significanti, al
di là delle intenzioni degli stessi autori, e vanno a sommarsi
a tutta quella letteratura e a tutte le testimonianze sul tarantismo
finora conosciute, aggiungendo una tessera importante - anche se una
sola - al grande mosaico del rito magico-religioso salentino.
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