Il quadrilatero
più colpito è fra due regioni che travalicano i confini
segnati dal dito dei Savoia: i nomi delle cittadine e dei centri abitati
sono nuovi per molti: Sant'Angelo dei Lombardi, Lioni, Teora, San Mango,
Pescopagano, Balvano. Case, strade, piazze distrutte mediamente al novanta
per cento. Tutto qui è alto: Alta Irpinia, Alto Sele, Alto Ofanto,
Vulture. L'altitudine media è di ottocento metri, e a ottocento
metri le colture mediterranee rinunciano all'albero. Dove non c'è
una vegetazione bassa e torva, la montagna è calva, argillosa;
compatta nei giorni di siccità, si trasforma, d'inverno, in una
gran ragnatela di torrenti fangosi che scendono dalle calanche a dente
di pettine, complicando le comunicazioni, isolando i centri abitati,
rendendo lunari le distanze.
E' l'antico Sud in bilico, la terra delle fumare violente come arieti
che irrompono dilavando il lieve strato di terra coltivabile, mettendo
a nudo il sottosuolo, che ha il colore del deserto. Qui sono accostati,
senza soluzione di continuità, alture e fondovalli, il verticale
e l'abissale, in un gioco di terrificanti incastri che sono il pane
quotidiano delle catastrofi ecologiche.
Quando il cielo ha il sapore dell'inverno, i fiumastri ingrossano improvvisamente,
superando gli argini, distruggendo le colture. "Da sempre - ci
dice un giovane - qui il nostro mestiere è quello di arrangiarci".
A Eboli, città emblematica del Mezzogiorno, duemila famiglie
hanno vissuto per vent'anni nelle baracche costruite dagli inglesi dopo
lo sbarco della seconda guerra mondiale. Le avevano trasferite da poco
in case popolari: due stanze, cucina, un piccolo bagno. Case costruite
come si gioca al lotto: sono tutte inabitabili. Ora, nella città
nella quale hanno scritto che si era fermato Cristo, e nella quale in
realtà sembra che Cristo non ci abbia mai messo piede, i senza-tetto
sono circa ottomila. Altri quindicimila a Pagani. Settemila a Campagna
e dintorni, quaranta per cento delle case distrutte. Quattromilacinquecento
a Laviano, città distrutta al novanta per cento. Milleduecento
a Santomenna, novantacinque per cento delle case rase al suolo. Novemila
a Sarno, seimilasettecento a Scafati. Pochissimi i senza-tetto a Sant'Angelo
dei Lombardi, a Teora, a Lioni: ma novantanove per cento delle case
distrutte.
Una geografia ha mutato faccia, interi centri abitati sono stati cancellati.
Quarantotto ore nette di ritardo, qualunque cosa dicano a Roma, hanno
aggravato colpevolmente la situazione. La malasorte ha giocato le sue
carte. Il maltempo, in seguito, ha fatto il resto. Neve e pioggia per
giorni: la montagna crepata come una melagrana, grandi rivoli di fanghiglia
rossa scesi dalle quote medie e alte hanno trasformato questo paesaggio,
che Helmut Kanter definì "di steppa marina", in un
immenso, inesorabile pantano che ha sconvolto tutto, collegamenti e
soccorsi. Ancora una volta si sono dovuti fare i conti con una burocrazia
lenta e macchinosa, ma soprattutto con i dissesti idrogeologici antichi
e mai sanati, con lo "sfasciume" che ha fatto del Sud - come
diceva Giustino Fortunato - un vecchio carro merci abbandonato su un
binario morto.
"Abbiamo non il dubbio - ci ha detto un baraccato - ma la certezza,
l'assoluta certezza che da qui a qualche mese, passata l'onda di emozione,
nessuno si ricorderà più di noi. E noi dovremo tornare
ai nostri poverissimi problemi esistenziali". Ma in Friuli la gente
non si è messa a ricostruire case e industrie e stalle e poderi
mentre ancora si registravano scosse di assestamento? Lassù,
replicano, avevano qualcosa da perdere. Noi, oltre alla vita, se questa
è vita, che cosa ci rimettiamo?

Conti alla mano: micro-economie, cereali estensivi, allevamenti occasionali,
industria episodica (le cattedrali sono andate altrove, qui è
rimasto solo il deserto), emigrazione.
Europa comunitaria come terminale temuto proprio perché punto
di arrivo definitivo di quell'emigrazione, Stato lontano anni luce,
speculazioni, classi verticalizzate, mancanza di beni civili e di servizi
sociali, abbandono: tutto questo, e altro ancora, danno un nome alla
fame. Il terremoto ha determinato il tracollo: sette milioni di persone
allo sbando, trecentottantamila senza-tetto. Un'area più grande
della Lombardia, con demografia disastrata, emigrati i giovani, presenti
solo donne vecchi bambini, i dipendenti del pubblico impiego, rarissimi
imprenditori, anche questi in buona parte figli dell'assistenzialismo
di uno Stato che ha prodotto quaggiù l'altro sfascio, forse irreparabile,
abolendo la stessa idea dell'imprenditorialità libera, della
personale intrapresa. Il terremoto ha mietuto all'ingrosso proprio questa
gente che non aveva voluto tagliare le radici. Ma non ha inventato nulla:
nella geografia dell'arretratezza, Alto Sele, Alto Ofanto, Sannio, Irpinia,
Cilento, Vulture erano già nomi notissimi, lo testimonia una
letteratura tutt'altro che salottiera, ignorata dai capicosca dei circoli
milanesi e romani che hanno costruito fortune sul vuoto verticale dei
loro libri. Li conoscevamo attraverso la narrativa meridionale, questi
uomini-roccia, queste donne-ulivo, questi bambini sgomenti dell'esodo
che hanno sfilato nell'anfiteatro dei paesi montani, percorrendo strade
a chiocciola, tra lastroni di ghiaccio e torrenti di fango, che hanno
dovuto abbandonare le case fatte costruire con le rimesse dall'estero
e le "case popolari": hanno resistito le costruzioni messe
su al tempo degli Svevi e degli Angioini, si sono sbriciolate quelle
realizzate dai costruttori dei nostri giorni. Colpe della storia e della
politica. Ma anche colpa di queste eterne vittime. E cerchiamo di spiegare
perché.
Tre viaggi nel terremoto. Il primo nelle strutture fisiche: un'urbanistica
è stata sconvolta, insieme con tutti i "rapporti sociali"
che consentiva, sottintendeva e forse anche condizionava, dalla solidarietà
del vicinato all'economia di autoconsumo.
Di qui, il primo problema: dove, e come ricostruire? Soprattutto: chi
deve ricostruire? Secondo i meridionalisti più accreditati, devono
essere gli stessi terremotati a decidere. Forse, per la prima volta
nella storia del nostro Paese, è emerso con chiarezza che non
esiste un Mezzogiorno omogeneo: c'è un Mezzogiorno come somma
di molti Sud, quelli dell'osso e quelli della polpa, delle brevi pianure
e dell'alta collina e della montagna e del fondovalle. E ciascun Sud
ha una propria storia, una propria economia, un'annalistica, che formano
ricordi accaniti, vere e proprie frontiere, invisibili steccati che
nulla, nessuno è riuscito ad abbattere. Più che confinare,
questi Sud si fronteggiano. Memorie storiche, orgogli di campanile,
ne hanno fatto molto spesso delle Vandee impenetrabili.
Non può spiegarsi diversamente, ad esempio, il rifiuto dei più
a fare un passo indietro per consentire (magari controllandola a vista)
la fase di bonifica, che precede quella della ricostruzione. Ingombranti,
carichi di rancore, irremovibili e soprattutto fermi, con le mani in
mano, come si dice da queste parti, in attesa di tutto e di tutti, in
attesa del miracolo assistenziale, in attesa del "nuovo" venuto
da fuori, gli uomini di alcuni di questi Sud, come le anime morte di
Gogol, hanno messo a nudo le radici del loro immobilismo psicologico
e operativo: sbigottimento per la rovina, paura, dolore e lutto sono
senz'altro attenuanti di rilievo; ma un'aggravante tutt'altro che generica
è la "filosofia dell'attesa" che ha caratterizzato
i comportamenti umani e civili.
Nel paesaggio desolante dell'Irpinia, tra le città e i centri
abitati del Salernitano, sotto Eboli e sopra le montagne del Serino,
il grande fantasma dell'inerzia ha preso corpo e spessore, rivelando
che tutti, i vivi e i morti, prima che vittime del terremoto, sono stati
vittime di un sistema di vita, di una cultura arretrata, di una gestione
della cosa pubblica in molti casi personalistica e clientelare.
Chi metteva sotto accusa il trasformismo meridionale come male epidemico
e come strumento di pura conservazione, può mettersi l'anima
in pace: è morto anche quello, e non sotto le macerie del 23
novembre; e ha preso il suo posto la disgregazione di molti, di troppi
valori: lo ha sostituito, sulla spinta dell'emarginazione, delle migrazioni,
della povertà, della sfiducia nello Stato latitante, l'individualità
anarchica, esistenziale: predomina quell'"amoral familism"
che Banfield aveva distillato dall'osservazione di una comunità
meridionale, e che il terremoto ha accentuato, esasperandolo, fino al
limite patologico delle coltellate per una coperta o per un pezzo di
pane.
Di qui, il secondo viaggio attraverso il terremoto: tra le maglie intersecate
della politica e della camorra, delle cosche clientelari, delle protezioni,
dei boss e degli interessi imboscati, dei santi in paradiso, tra le
componenti negative che hanno frantumato un tessuto sociale di per sé
precario e che (straordinariamente) proprio nella povertà, nell'arretratezza,
nella lotta per la sopravvivenza quotidiana aveva trovato un minimo
comun denominatore, un problematico coibente. E più che un secondo
viaggio nel terremoto, può essere considerato un viaggio "dietro
la facciata": che cos'è la rassegnazione di questa gente,
se non un sistema di "compressione" socio-economica, e dunque
politica, in grado di garantire controllo e dominio? Che cos'è
l'assistenzialismo, se non un "metodo" di produttività
mafiosa, in grado di perpetuare quel sistema? La presa diretta delle
realtà locali sembra avere stravolto (almeno per questo arco
di tempo) queste strategie. Di qui, certe reazioni incattivite, e al
limite certe risse non ancora sopite. Ma è innegabile, qualsiasi
difesa d'ufficio si faccia, che il terremoto è stato una sciagura
che si è abbattuta su altre, più antiche sciagure che
hanno fatto assai più tragica che grande la storia del Mezzogiorno.
Per quanto abbiamo cercato, nessuno ha saputo, o voluto spiegarci il
persistente squilibrio demografico di queste aree, con l'economia agricola
non-industrializzata affidata ancora alle braccia senili; il conseguente
infimo livello di produttività, soprattutto quello di imprenditorialità
locale; l'incidenza di una cultura da retrovia, che sulla scorta di
echi venuti da molto lontano avrà forse messo in crisi le componenti
umanistiche e scientifiche, ma non può o non sa essere in grado
di sviluppare la componente tecnologica: sicché il discorso sullo
sviluppo è comunque fatto in ritardo, e l'unica prospettiva resta
comunque, e ancora una volta, quella di "farsi trainare".
E nessuno ci ha spiegato che cosa ci stanno a fare le baracche del terremoto
del 1962, regolarmente abitate per mancanza di alloggi ricostruiti,
a Morra de Sanctis, ad Ariano Irpino, a Sturno e dintorni; perché
beni civili e servizi sociali qui sembrano essere scienza d'un altro
pianeta; se è vero o no che i giovani continuano a prendere i
cosiddetti "treni della speranza", che in realtà sono
sempre treni della disperazione, dell'espulsione e della diaspora; e
che cosa ci stanno a fare quarantamila falsi terremotati napoletani
tra gli autentici senza-tetto della capitale campana, che non superano
i diecimila; e se sia vero che portaborse e scagnozzi abbiano discretamente
o sfacciatamente incettato soccorsi, per redistribuirli secondo criteri
clientelari; e, infine, che cosa ha fatto fino ad oggi chi strepita
e si sbraccia contro quanti sono andati a verificare quanto - d'altro
canto - era già del tutto noto: che questi Sud, arroccati sullo
sfasciume geologico, rotti dalle calanche, macinati dalle fiumare, malgrado
anni di intervento ordinario e straordinario, malgrado lo Stato e la
Cassa per il Mezzogiorno, sono rimasti, con qualche variazione, quelli
che erano: un'Italia che paga sempre e che paga tutto per tutti.
E terzo viaggio è ipotetico: senza dubbio ipoteca il futuro,
prossimo e remoto, e riguarda le scelte di sviluppo che saranno forse
mediate dalle Amministrazioni centrali e da quelle periferiche. Quel
che emerge e che preoccupa, in questo momento, è la prospettiva
tutt'altro che astratta del condizionamento di queste scelte da parte
e a causa degli scontri in atto anche nel dopo-terremoto: questione
morale, arroccamenti delle forze politiche, crisi economica, sono terremoti
che hanno preceduto il terremoto: dagli sviluppi di queste "questioni"
dipenderà in buona misura il futuro del Paese, del Mezzogiorno
e dei suoi Sud, aree fragili, con debole capacità contestativa,
serbatoi di voti clientelari, con scarsa valenza politica.
In questi Sud, nel breve e nel medio periodo, si dovranno paracadutare
da ventimila a quarantamila miliardi di lire per la ricostruzione. E
dunque: o si ricostruirà secondo un progetto di recupero e di
rilancio civile e politico, culturale, sociale, umano, e allora avremo
forse definitivamente cancellato dalla nostra geografia del sottosviluppo
alcune aree che gravitano sul versante del Terzo Mondo; oppure si ricostruirà
secondo i vecchi schemi clientelari, strumentali, a pioggia, per grazia
o per miracolo ricevuto, e allora dovremo abituarci a vivere sul filo
del rasoio. Questo terzo viaggio è, in un caso o nell'altro,
una sfida che non riguarderà solamente i 468 comuni e centri
abitati colpiti, i 166 duramente provati, i sedici del tutto aboliti
dai sussulti omicidi della terra, ma l'intero Mezzogiorno, la sua stessa
esistenza come area europea. Ed è, dunque, una "storia"
che si sa quando è cominciata, ma non è dato conoscere
dove porterà: né dove, attraverso i fatti, con il filtro
della cosiddetta "volontà politica", andrà a
finire.
Quale futuro
per il Mezzogiorno
Il terremoto ha
rivelato lo sfacelo del Mezzogiorno più povero: l'isolamento
di un territorio dissestato, la povertà del tessuto produttivo,
la disgregazione del tessuto sociale. Ci sono anche, nel Mezzogiorno
degli Anni Ottanta, altre realtà: quella delle grandi città
congestionate, alcune delle quali colpite anch'esse parzialmente dal
terremoto; o quella delle zone coinvolte in uno sviluppo spontaneo,
anche se disordinato, come la costa adriatica. Ma per almeno due caratteristiche
il Mezzogiorno si presenta ancora come una realtà omogenea: la
sua dipendenza dall'esterno e l'intensità della disoccupazione.
Se una frontiera di Stato fosse stabilita sul Garigliano, la bilancia
dei pagamenti dei Mezzogiorno segnerebbe un cronico deficit: e rivelerebbe
che per almeno un quinto del loro reddito i meridionali vivono al di
sopra delle loro risorse. Inoltre, con quel reddito, il Mezzogiorno
non riesce ad occupare almeno il dieci per cento delle forze di lavoro
disponibili. Non è una constatazione esaltante, dopo trent'anni
di intervento straordinario. Quest'ultimo, infatti, ha trasformato,
sì, il volto del Mezzogiorno, creandovi grandi infrastrutture,
centri di industria pesante e, soprattutto, elevandovi il tenore di
vita. Ma non è riuscito a realizzare una integrazione economica
attiva col resto del Paese, sia dal punto di vista della capacità
di sviluppo autonoma, sia da quello della creazione di una vera classe
dirigente, imprenditiva e amministrativa.
In questi ultimi dieci anni, poi, il cosiddetto intervento straordinario
è diventato quanto mai ordinario e secondario. Mai come in questi
anni, mentre nei comizi domenicali si parlava di centralità del
Mezzogiorno, quest'ultimo è stato marginalizzato. Dal punto di
vista quantitativo, il flusso di risorse trasferito al Sud è
sceso all'1,6 per cento del prodotto nazionale. Dal punto di vista qualitativo,
esso è consistito sempre più in opere disorganiche e in
incentivi finanziari non finalizzati da una programmazione industriale.
Così, si è alimentato un flusso di spesa pubblica che,
anziché contribuire a gettare le fondamenta di una struttura
produttiva solida, si dirama in un sistema di canali assistenziali.
Le numerose "chiuse" di cui questo sistema è punteggiato
alimentano le clientele politiche, le burocrazie, le camorre: una sotto-borghesia
che soffoca gli impulsi produttivi e i programmi di sviluppo.
E' su questo Mezzogiorno che si è abbattuto il colpo di maglio
del terremoto. Esso può comportare due esiti. Può essere,
come molti pensano e sperano, la sferzata di una ripresa vitale e rabbiosa.
Ma può anche essere, come molti temono, la vittoria definitiva
dell'assistenzialismo, alimentato da un nuovo cospicuo afflusso di fondi.
I progetti, infatti, sono di là da venire. L'apparato clientelare,
invece, si è subito organizzato, ed è stato fin dal primo
momento pronto ed efficiente.
C'è la possibilità di evitare quest'altra sciagura al
Mezzogiorno? Per questo, debbono concorrere almeno tre condizioni. La
prima è un intervento davvero straordinario, per mettere immediatamente
al lavoro il massimo possibile di giovani disoccupati. Il lavoro da
fare c'è, ed è sterminato. I mezzi finanziari ci sono.
Si faccia una leva straordinaria del lavoro, cominciando a costituire
in loco l'agenzia del lavoro e il servizio di protezione civile.
La seconda è che Roma sia in grado di dire in concreto che cosa
intende fare per il Mezzogiorno, in termini di posti di lavoro e di
investimenti, non solo nei prossimi sei mesi o nei prossimi tre anni;
ma nei prossimi dieci anni. Il totale abbandono di una prospettiva di
programmazione adeguata al livello dei problemi strutturali del Paese
non è stato un segno di concretezza, ma di irresponsabile miopia,
che il Mezzogiorno, soprattutto, ha pagato.
La terza condizione è che il Mezzogiorno sia dotato di un apparato
legislativo, progettuale e amministrativo adeguato alla portata dei
suoi problemi. Quanto al primo, il ministro per il Mezzogiorno ha presentato
un disegno di legge innovatore, nel senso della razionalizzazione e
della produttività dell'intervento. Ma una buona legge non basta.
Come non bastano stanziamenti finanziari anche cospicui, senza progetti
di sviluppo seri e senza capacità amministrative. Il vero limite
allo sviluppo non sta nelle risorse finanziarie, ma nella capacità
di usarle, come dimostrano gli ingenti residui passivi accumulati dalla
Cassa e dalle Regioni. Per saper progettare, occorrono esperti e tecniche
di cui il Mezzogiorno è gravemente carente, e per i quali si
dovrebbe ricorrere alle altre regioni del Paese e alla Comunità,
in una vera e propria "leva dell'intelligenza".
Occorrono poi amministratori moderni e tecnici. Ma la capacità
amministrativa non è solo un problema di uomini. E' un problema
politico, che nasce dalla frammentazione delle responsabilità,
agisce libero da vincoli, secondo le norme non codificate dell'ascrizione
clientelare.
Il Mezzogiorno è la terra dei discorsi allusivi e dei poteri
informali, dove la complicazione è fatta solo per chi deve restarvi
impigliato. "Le leggi - diceva Giovanni Giolitti, che di potere
nel Mezzogiorno se ne intendeva - per i nemici si applicano, per gli
amici si interpretano". Il terremoto dovrebbe essere l'eroica occasione
per spazzare le complicazioni procedurali e concentrare i poteri di
programmazione nelle Regioni -assistite dalle nuove agenzie dell'intervento
straordinario - e quelli amministrativi nel Comune, unico microcosmo
democratico che offra un appiglio alla ricostruzione di una classe dirigente
nel Sud.
Politica di programmazione meridionalistica, azione straordinaria per
l'occupazione, sviluppo dell'intelligenza progettuale e smantellamento
della gramigna clientelare sono i temi di una possibile riscossa che
non può contare solo sulla "rabbia di vivere" dei meridionali,
chiamata in causa durante l'immediato dopo-terremoto, ma anche sulla
capacità di governo della classe dirigente italiana.
Un economista calabrese, Antonio Serra, nel tracciare - dal carcere
della Vicaria, dove scriveva nel 1613 - l'inventario dei mali del Mezzogiorno,
identificava così gli accidenti cui far risalire l'inferiorità
del Mezzogiorno rispetto ad altre parti d'Italia: la scarsità
di artifizi (oggi diremmo: di industrie), di genti industriose (oggi
diremmo: di imprenditori), e gli svantaggi del sito (oggi diremmo: del
territorio); ma soprattutto (accidente degli accidenti), la "provisione
di colui che governa".
Colui che governa oggi ha materia per riflettere. Il terremoto può
essere un'occasione tragica per cambiare strada. Ma anche per allontanare
ancor più il Mezzogiorno dalla via dello sviluppo: dando una
ragione per abbandonarlo definitivamente agli uni; una ragione per affidarsi
pigramente alla manna del sussidio clientelare, agli altri. In tal caso,
i bollettini di una guerra cronicamente perduta dovrebbero ripetere
monotonamente: a Mezzogiorno, niente di nuovo.
Tra presente
e futuro
Che cosa fare per
il futuro? Innanzitutto, riflettere e assumere decisioni:
- intorno all'entità finanziaria e alle modalità in cui
si dovrà realizzare il programma di ricostruzione, di riassetto
territoriale e di sviluppo economico e sociale dell'ampia area sconvolta
dal terremoto;
- su che cosa resta dell'intervento pubblico nel Mezzogiorno, e di quello
straordinario in particolare - nei contenuti, nelle modalità
e nell'assetto istituzionale - in rapporto alle sue questioni fondamentali
del lavoro, della produzione, dell'assetto urbano, delle leggi specifiche.
Lo sforzo che lo Stato dovrà compiere nei prossimi anni per il
Sud è paragonabile soltanto a quello realizzato nella fase di
ricostruzione del Paese nell'immediato dopoguerra. Anche allora, sia
pure in proporzione notevolmente più ampia e generalizzata, vi
erano città e centri urbani da ricostruire, attività produttive
da avviare e rinnovare profondamente, infrastrutture imponenti da riassestare
o ricostruire o "inventare".
Per fare questo, però, è necessario mobilitare tutte le
forze produttive e sociali del Paese, orientare il massimo delle risorse
finanziarie e la totalità delle risorse addizionali disponibili
verso il Mezzogiorno, dare efficienza e rapidità di esecuzione
ai programmi e alla struttura istituzionale.
Nell'area investita dal terremoto vi sono due realtà sociali
e produttive distinte, anche se strettamente interdipendenti: da una
parte il sistema urbano principale, con le città di Potenza,
Avellino, Salerno, nelle quali prevale il terziario pubblico e di intermediazione,
con uno sviluppo industriale che, anche se ancora agli inizi, si stava
rafforzando nel suo tessuto connettivo con l'insediamento di iniziative
produttive di piccola e media dimensione, direttamente promananti dalle
sue componenti più dinamiche; dall'altra parte, l'entroterra
agricolo, esteso in terreni montani, con poche potenzialità irrigabili,
con una popolazione attiva attorno al 50 per cento e con un terziario
di mercato.
L'azione di ricostruzione, da promuovere attraverso uno specifico programma
elaborato e gestito con la compresenza attiva di soggetti pubblici e
privati, in modo da assicurare il massimo di flessibilità e funzionalità,
dovrebbe riguardare i contenuti economici dello sviluppo, promuovendo
direttamente o indirettamente le attività produttive, l'integrale
riorganizzazione e riassetto del territorio, dei centri urbani, dei
servizi e delle relazioni sociali per ricomporre un'identità
dinamica delle popolazioni.
La ricostruzione dell'area distrutta dal terremoto potrà poggiare
su solide basi di stabilità solo se il Sud intero procederà
nella strada dell'unificazione economica con il resto del Paese. Crediamo
che innanzitutto occorra prendere coscienza di alcune essenziali tematiche
comuni all'intero Paese, che inevitabilmente influenzeranno le scelte
per il Mezzogiorno. In primo luogo, intendiamo riferirci alle analisi
condotte recentemente sulle tendenze della popolazione italiana e alle
sue implicazioni sociali ed economiche, che si pongono in modo palesemente
differenziato rispetto alle diverse aree urbane e produttive del Paese.
Le previsioni sull'aumento della popolazione italiana al 1991 - anche
se alla luce degli avvenimenti accaduti dovranno essere riconsiderate
-conducono a valutare che l'incremento della popolazione attiva nel
periodo 1971-1991 (circa quattro milioni di unità) si concentri
per oltre il 70 per cento nel Mezzogiorno, con un incremento relativo
del 24 per cento, contro appena il 5 per cento del Centro-Nord. Già
oggi, del resto, l'incremento naturale della popolazione italiana si
deve nella quasi totalità all'apporto dell'area meridionale.
In secondo luogo, si sta realizzando a livello internazionale, già
da alcuni anni, un ampio processo di riallocazione delle risorse disponibili
e una modificazione sostanziale nella divisione del lavoro.
Infine, un ultimo elemento riguarda il processo di allargamento della
Comunità dei "nove", soprattutto per le sue ripercussioni
nella politica agricola. Nella "CEE a dodici" gli occupati
in agricoltura si eleveranno di circa il 55 per cento, sfiorando i 14
milioni di unità. In questa situazione, l'Italia e in particolare
il Sud si troveranno a dover competere con le altre agricolture mediterranee
all'interno di un mercato ristretto che, oggi, assorbe soltanto il 40
per cento dei prodotti "mediterranei" di provenienza dei Paesi
aderenti alla Comunità, contro il 75 per cento dei prodotti "continentali"
(carne, zucchero, burro e cereali).
Il nostro Paese sta attraversando una fase di mutamenti socio-economici
estremamente diffusi, di spessore rilevante, soprattutto negli assetti
sociali e nelle attività industriali, che hanno intaccato o almeno
reso problematiche le stesse capacità e possibilità di
progresso insite nel nostro sistema di economia di mercato. In tal senso,
la questione meridionale si pone oggi in un contesto esterno radicalmente
mutato e dominato in prevalenza da componenti di incertezza e di crisi,
ma anche in presenza di fattori interni all'area meridionale di indubbia
dinamicità e originalità. La situazione esistente nell'area
più industrializzata, di stazionarietà o di decremento
dei saldi netti di occupazione, deve convincere che non è più
possibile pensare a spostamenti di forze di lavoro dal Sud verso le
aree del Centro e del Nord. Pertanto, gli sbocchi occupativi devono
essere ricercati soprattutto all'interno del Mezzogiorno. Ma sarebbe
davvero velleitario condurre politiche di piena occupazione puntando
esclusivamente sulle strutture e sui servizi interni del Sud, senza
sperimentare eccezionali interventi di politica attiva dell'occupazione
che si prefiggono in modo specifico la temporanea occupazione per migliaia
di disoccupati.
Solo recentemente è stato compiuto da parte dell'operatore pubblico
uno sforzo di acquisizione di conoscenze e di analisi prospettiche.
Ciò ha consentito di cominciare a delineare una politica industriale,
anche se ancora inceppata nel momento operativo, capace di espandere
e mantenere a livelli competitivi il sistema industriale. Ora, se si
assume come invariabile l'accennata previsione della popolazione attiva
nei prossimi dieci anni e la rigidità dell'offerta di lavoro,
la localizzazione dei nuovi investimenti nell'area meridionale, per
l'allargamento della base produttiva del Paese, diventa quasi una direzione
obbligata. Ne consegue che le opzioni e le scelte di linee produttive
devono trovare il loro primo e più importante riscontro nella
localizzazione territoriale. A tal fine, sembrerebbe essenziale peraltro
riportare la gestione degli incentivi pubblici alle imprese industriali
alla loro originaria funzione di assicurare effettivi differenziali
nei costi di insediamento a vantaggio dell'area meridionale.
Le trasformazioni di questi ultimi trent'anni hanno profondamente modificato
il tessuto urbano e insediativo del Sud, con l'emergere di due fenomeni
strettamente correlati alle caratteristiche dello sviluppo: da una parte,
l'addensamento della popolazione in centri urbani di medie e grandi
dimensioni; dall'altra, lo svuotamento progressivo di piccoli centri,
e in genere l'impoverimento, in termini di risorse disponibili e di
attrezzature sociali, del territorio abitato.
Quel che è necessario intraprendere è soprattutto una
svolta nel concepire il ruolo della città meridionale, che deve
ridiventare o diventare centro promotore di attività produttive
per le piccole e medie imprese e luogo di produzione di servizi, tradizionali
e innovativi. Questo vale soprattutto oggi, nel momento in cui si deve
affrontare la ricostruzione di tante città dell'area campano-lucana.
Appare ormai convinzione generalizzata la non omogeneità del
Sud e la presenza al suo interno di differenziazioni qualitative e quantitative
anche consistenti, nelle strutture produttive, nelle condizioni urbane
e nella stessa intelaiatura istituzionale. Per questi motivi, gli strumenti
dell'intervento straordinario oggi più che mai dovranno essere
caratterizzati da una forte elasticità e propensione all'adattamento
ambientale, senza irrigidire le strutture operative e i contenuti dell'azione
pubblica. Ciò significa che bisogna puntare maggiormente che
nel passato sulle realtà istituzionali e sociali, sulle autonomie
e i nuovi soggetti dell'area meridionale, per far crescere dall'interno
forze produttive e dirigenze nuove, un reticolo istituzionale più
responsabile e più funzionale alla crescita delle componenti
endogene di questa realtà.
Vi è infatti l'esigenza di prevedere strumenti e modalità
di procedimento che siano capaci di adattarsi prontamente alle diverse
"facce" dei Sud che esistono all'interno del Mezzogiorno:
alla pianura, alla collina e alla montagna; ai grandi nuclei territoriali
vicini a zone già sviluppate e a quelli che ne sono lontani;
alle aree nelle quali si deve fermare il dissanguamento dell'emigrazione,
e a quelle che hanno incrementato la popolazione per scarsa propensione
alla "fuga" verso il Nord o verso l'estero. Se non si articola
in questo modo l'intervento nel Mezzogiorno, se non si tiene conto di
tutte - nessuna esclusa - le realtà territoriali, storiche, psicologiche
e le componenti sociali, civili e umane di questi Sud, terremoto o no,
il decollo del Mezzogiorno si potrà coniugare solo in un futuro
di anni-luce.
Dai tecnici del
Cnr la mappa sismica d'Italia
Disponiamo finalmente
di una vera mappa sismica. L'hanno presentata gli studiosi del "Progetto
Finalizzato Geodinamica" del Consiglio Nazionale delle Ricerche,
anticipando di sei mesi la data di consegna prevista. La mappa che aveva
regolato l'imposizione delle norme di costruzione antisismica è
un prodotto davvero singolare della burocrazia italiana, e in particolare
di uno speciale organo del Ministero dei Lavori Pubblici che ne ha curato
la compilazione. Infatti, il criterio seguito era quello di dichiarare
sismiche le zone dopo che un terremoto disastroso le aveva distrutte.
Ciò che insegnano la storia (studio della frequenza dei terremoti
nei secoli passati) e la scienza (studio delle zone predisposte a fenomeni
sismici) non era mai stato preso in considerazione: si aspettava il
terremoto.

Poche cifre consentono di apprezzare la sostanziale novità introdotta
dalla nuova carta sismica del Cnr. Mentre il territorio protetto da
normativa antisismica era pari a circa il venti per cento del suolo
nazionale (1.337 comuni, nei quali risiede il 13 per cento circa della
popolazione italiana), le zone che gli studiosi di "Geodinamica"
hanno proposto di aggiungere sono pari a circa il 50 per cento del territorio
(altri 1.357 comuni, abitati da circa il 22 per cento della popolazione
italiana). La superficie protetta copre così la maggior parte
della penisola. Relativamente "tranquille" restano soltanto
alcune zone della Val Padana, del Piemonte, della Liguria, della Toscana,
del Lazio, della Sardegna e della Puglia. I territori a più alto
rischio sono la Calabria, la Sicilia orientale, una larga fascia dell'Appennino
centromeridionale, aree sparse dell'Italia settentrionale.
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