Gli economisti sono
d'accordo almeno su questo: i recenti sviluppi portano a prevedere che
nel quinquennio fino al 1985 il mondo, sia quello industrializzato,
sia quello in via di sviluppo, non potrà contare su una crescita
paragonabile a quella del periodo successivo alla prima crisi petrolifera,
ossia al periodo 1973-1979.
E' vero, ed è abbastanza sconfortante, che viviamo in tempi in
cui un certo pessimismo va di moda, ma sfortunatamente i motivi per
non essere particolarmente ottimisti sembrano più che validi.
Per quanto riguarda in primo luogo i Paesi dell'Europa Occidentale si
devono infatti prevedere alcuni fattori che nei prossimi anni tenderanno
a limitare la crescita economica.
Innanzitutto, il vincolo energetico. L'attuale crisi nel Golfo Persico
porta a conclusione un processo che in precedenza era previsto per una
data più vicina alla metà del decennio che non per il
suo inizio. I Paesi produttori di greggio, dopo avere ripreso possesso
negli anni '70 delle risorse naturali proprie, hanno elaborato una strategia
tendente alla massima valorizzazione. Ciò significa che, a seconda
del momento economico-politico, potrà essere deciso in frequenti
occasioni che è meglio tenere il petrolio sotto terra, dove si
valorizza di giorno in giorno, che estrarlo e venderlo per avere poi
il problema di investire dei surplus che non trovano collocazione nel
Paese produttore.
Ciò significa, quantomeno, che nel prossimo quinquennio dobbiamo
prevedere non tanto una carenza fisica di energia petrolifera, quanto
un aumento costante e marcato del prezzo reale del greggio. Anche senza
ipotizzare un terzo o un quarto shock petrolifero, che imporrebbero
nuove battute d'arresto alle economie industrializzate di proporzioni
simili a quella in corso, il rincaro raggiungerà in media l'
8-12 per cento all'anno in termini reali, ponendo un serio vincolo alle
bilance dei pagamenti e alla crescita.
Il secondo vincolo è rappresentato dal tentativo di tagliare
la testa al toro dell'inflazione. Negli anni '70, i Paesi industrializzati
hanno evidenziato due strategie diverse tese a questo obiettivo, con
risultati palesemente differenti. La reazione al primo shock petrolifero
è stata infatti indirizzata in alcuni Paesi (come l'Italia e
l'Inghilterra) a controbattere l'effetto deflazionistico del trasferimento
di ricchezza verso i Paesi dell'Opec; sono stati applicati stimoli all'economia
con l'aumento della spesa e del deficit pubblico, con l'espansione della
base monetaria, con una politica fiscale permissiva, con un ampio deficit
estero e con una svalutazione ricorrente. Ciò ha provocato, in
contrasto con le intenzioni, tassi d'inflazione crescente ed effetti
perversi sull'intero sistema economico.
Altri Paesi hanno invece accettato l'effetto recessivo collegato al
rincaro dell'energia (Giappone, Germania Federale e, almeno per un certo
periodo, Stati Uniti), operando uno stretto controllo della domanda,
dell'offerta di moneta e del tasso di cambio. Il risultato è
stato premiante e in questi Paesi, fino a che è stata applicata
la suddetta politica, l'inflazione è rimasta sotto controllo.
Nei prossimi anni, il classico approccio keynesiano, che si è
dimostrato - o è stato giudicato - perdente nelle attuali condizioni
di stagflazione, verrà presumibilmente abbandonato (laddove non
lo sia già stato) in favore di politiche economiche fortemente
restrittive, caratterizzate da un basso livello della spesa pubblica,
da un ridimensionamento del ruolo dello Stato, da un rigido controllo
della base monetaria e del tasso di cambio, malgrado tutto ciò
possa portare a un peggioramento del già grave problema dell'occupazione.
La tendenza verso questo tipo di politiche economiche è evidente
nel Regno Unito e nella Repubblica Federale Tedesca, meno rigida ma
altrettanto chiara in Francia, probabile in Italia, se non altro per
vincoli internazionali. Fuori Europa, è in atto in Giappone,
prevedibile negli Stati Uniti e in Canada.
Il terzo vincolo discende in parte dai primi due, e consiste nella crescente
concorrenza da parte dei Paesi in via di industrializzazione (i "Newly
industrialized countries" dell'Estremo Oriente e dell'America Latina),
i quali accentueranno la pressione sui settori già in crisi nei
Paesi europei (tessile, siderurgico, calzaturiero, meccanico, elettronico),
aggravando nel contempo la percezione negativa degli effetti di questa
concorrenza sull'occupazione nei Paesi industrializzati. Il vincolo
sarà rappresentato da una più che probabile (in quanto
già in atto) reazione protezionistica nei Paesi dell'Europa e
negli USA, con un rallentamento generale degli scambi internazionali
e una diminuzione dei contributo della domanda estera sullo sviluppo
industriale. Un quarto vincolo sarà posto dal crescente indebitamento
dei Paesi in via di sviluppo, che aveva raggiunto i 376 miliardi di
dollari alla fine dei 1979, ha oltrepassato i 400 miliardi alla fine
dell'80, e secondo alcune previsioni raddoppierà entro il 1985.
Gli effetti saranno percepibili su molteplici piani: essendo il debito
fortemente concentrato in pochi Paesi - già al limite dell'indebitamento
- ne viene rallentato e complicato il riciclaggio del surplus petrolifero
verso i Paesi in via di sviluppo da parte delle banche commerciali,
mentre nello stesso tempo non si intravede un ruolo più incisivo
dei grandi organismi sovranazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario,
Unctad). Stretti dalla morsa del debito e del crescente costo dell'energia,
i Paesi in via di sviluppo rallenteranno le importazioni.
Un ultimo vincolo è individuabile nelle politiche che i Paesi
Opec tenderanno ad attuare nei prossimi anni. Terminato, infatti, il
periodo delle imponenti importazioni per installare le grandi infrastrutture
di base, le importazioni tenderanno a stabilizzarsi, crescendo a un
ritmo più blando (12-13 per cento all'anno) rispetto a quello
registrato tra il 1973 e il 1979 (15-16 per cento). Poiché nel
contempo i Paesi Opec cercheranno di mantenere il surplus corrente,
anche da questo lato la domanda per i beni capitali prodotti dall'Europa
sarà stabilmente inferiore a quanto sperato in precedenza.
Nei prossimi anni, dunque, sembra d'obbligo ipotizzare un rallentamento
della crescita nei Paesi industrializzati. Un recente studio dell'Economist
Intelligence Unit prevede che nei sei Paesi più industrializzati
(Stati Uniti, Giappone, Germania Federale, Gran Bretagna, Francia e
Italia) la crescita sarà nei prossimi cinque anni non superiore
a un due per cento annuo, contro il 2,7 per cento del 1973-1980. I dati
previsionali relativi a ogni Paese, incluse le stime per l'inflazione
e per la disoccupazione, sono riportati nella tabella l.
Per quanto concerne i Paesi in via di sviluppo, le previsioni sono altrettanto
sconfortanti (tabella 2). Infatti, i Paesi in via di sviluppo importatori
di petrolio registreranno una contrazione della crescita dal 3,6 per
cento del 1970-78, all'1,7 per cento del prossimo quinquennio. I Paesi
in via di sviluppo a medio reddito (essenzialmente i Newly industrialized
countries) dal 5,7 per cento al 2,6 per cento. I Paesi Opec dal 6 per
cento al 3,5 per cento. Questi dati previsionali sono di fonte World
Bank. Intanto, negli ambienti comunitari, preoccupazioni per l'avanzare
della disoccupazione nella CEE. Le statistiche hanno rivelato che ormai
il livello dei sette milioni di disoccupati, atteso per fine '80, è
stato raggiunto e che le prospettive ci riservano sgradite sorprese.
Alla Comunità si teme, infatti, che nel 1985 i disoccupati saranno
il doppio rispetto ad oggi, con tutti i problemi di carattere economico
e sociale che ciò comporterà.
Nel giugno '80 i Capi di Stato del Nove, riuniti a Venezia, affrontarono
il tema di un possibile ritorno ai tassi di disoccupazione tristemente
sperimentati negli anni '30, ma non andarono oltre una raccomandazione
alla Commissione Esecutiva CEE affinché iniziasse ad elaborare
una strategia per l'occupazione. In effetti, gli eurocrati di Bruxelles
hanno avviato una ricerca delle origini e delle possibili cure per la
disoccupazione, pur con le difficoltà connesse al fatto che le
misure concernenti l'impiego sono una tipica prerogativa dei governi
nazionali i quali, in un certo senso, utilizzano la Comunità
come cornice per ottenere determinate concessioni che possono anche
nuocere all'occupazione in altri Paesi membri.
In ogni caso, la Commissione ha disegnato alcune linee di tendenza,
la cui principale caratteristica è di individuare il fenomeno
della disoccupazione come relativamente transitorio. Infatti, il trend
raggiungerà il suo picco nel 1985, mentre negli anni successivi
la disoccupazione prenderà a decrescere velocemente, per arrivare
ad uno stato virtuale di piena occupazione in Europa verso il 1990.

Il motivo principale
che sorregge la previsione è la proiezione delle tendenze demografiche
in Europa Occidentale. L'attuale situazione di disagio sul mercato del
lavoro è stata infatti fortemente determinata dal "baby
boom" degli anni '60, i cui effetti però si attenueranno
dopo il 1985. Le conseguenze sul lungo termine saranno ad esempio che
il Belgio - oggi in grandi difficoltà - si trasformerà
da Paese con dieci milioni di abitanti e una disoccupazione che sfiora
il 13 per cento di una popolazione attiva compressa dal grande numero
di persone in età di pensione, in un Paese di 8 milioni e mezzo
di abitanti, con una forte percentuale di manodopera specializzata nella
fascia di età tra i 20 e i 50 anni.
Ma il fatto che le prospettive a lungo termine siano così confortanti
difficilmente appagherà coloro che in questi anni avranno da
soffrire dalla situazione che si è venuta a creare alla fine
degli anni '70; anzi, la previsione di un lontano miglioramento può
rendere ancora più insopportabile il malessere presente. Per
di più, il ritorno alla piena occupazione nel 1990 determina
vincoli ai provvedimenti che si possono adottare oggi per variare le
pratiche dell'impiego nell'industria, poiché inevitabilmente
tali nuove abitudini dovranno essere daccapo capovolte entro una decina
di anni.
La CEE avrà dunque pochi strumenti per combattere il fenomeno
nel breve periodo; le stime comunitarie prevedono un numero di disoccupati
per il 1985 variante da un minimo di undici a un massimo di quindici
milioni di persone, senza che sia possibile specificare ulteriormente
il dato a causa della molteplicità dei fattori in gioco.
Due rapporti, preparati per l'analisi della disoccupazione nella CEE,
puntualizzano la portata del fenomeno: il primo è uno studio
interno della Commissione Esecutiva; il secondo è stato elaborato
dal Consiglio dei sindacati europei (Etuc). L'uno e l'altro suggeriscono
la necessità di una crescita economica per riassorbire la disoccupazione
ad un tasso chiaramente irraggiungibile.
Lo studio Etuc afferma che per ridurre la disoccupazione nei Nove al
livello dei 2 per cento nel 1985 (il 2 per cento è indicato come
il tasso corrispondente alla piena occupazione, che ha caratterizzato
molti anni del dopoguerra e che è tuttora prevalente in Paesi
come Norvegia, Svezia, Svizzera, Austria e Lussemburgo), si dovrebbe
realizzare una crescita del Prodotto Nazionale Lordo CEE del 7 per,
cento all'anno. Per mantenere soltanto l'attuale tasso di disoccupazione,
afferma l'Etuc, sarebbe necessario creare quattro milioni di nuovi posti
di lavoro, corrispondenti a un tasso annuo di sviluppo del PNL CEE del
5 per cento da qui all'85. Si deve tener conto che nel '79 la Comunità
ha registrato uno sviluppo relativamente elevato del 3 per cento, e
che nel 1980 non ha superato il 2 per cento.
E documento della Commissione pone il tasso di piena occupazione al
livello più realistico del 3 per cento, ma le conclusioni sul
tasso di sviluppo richiesto per ridurre la disoccupazione a tre milioni
di unità per il 1985 sono analoghe a quelle Etuc, poiché
si richiede una crescita del 7 per cento annuo, mentre per mantenere
l'attuale livello sarebbe sufficiente un 4,5 per cento.
Per un problema di queste dimensioni non vi sono, ovviamente, molte
soluzioni possibili per i governi europei, i quali invece devono fare
i conti con un certo numero di programmi che tentano di combattere il
fenomeno disoccupazione. In realtà, il termine "disoccupazione"
copre tutta una gamma di situazioni.
La disoccupazione strutturale, la condizione che viene prodotta dal
declino delle industrie tradizionali, concentrate in determinate, zone,
ha la prognosi peggiore. Il 40 per cento della forza-lavoro della CEE
è infatti ancora occupata nei settori, caratterizzati da sovracapacità
produttiva, dell'acciaio, della cantieristica, dei tessili, dell'abbigliamento
e delle calzature.
La disoccupazione ciclica tende ad avere, in questo momento di recessione,
un impatto diretto sulla disoccupazione globale superiore a quello del
fenomeno strutturale.
La disoccupazione frizionale, che è la situazione nella quale
si trovano le persone che hanno abbandonato un lavoro e ne cercano un
altro, tende attualmente a confondere l'analisi delle future prospettive.
Ciò perché in tempi favorevoli tale stato ha tempi brevi
e si passa velocemente da un lavoro all'altro. In tempi di crisi, invece,
la disoccupazione frizionale tende a divenire permanente. Molti economisti
industriali sostengono che quasi tutta la disoccupazione ha come origine
la mancanza di disponibilità a spostarsi dove esistono opportunità
di lavoro o ad accettare un lavoro al di sotto del proprio grado di
specializzazione. I sindacati, per contro, sostengono che in questo
modo si spiega solo il 30-35 per cento della disoccupazione, e invocano
altre cause che, al contrario, nascondono la reale portata e gravità
del fenomeno del senza-lavoro.
Una quota elevata è infatti rappresentata da coloro che vengono
"scoraggiati" dalle condizioni economiche e sociali a presentarsi
sul mercato del lavoro e ad iscriversi alle liste di collocamento; di
queste persone, calcolate in un milione (che potrebbe raddoppiare entro
l'85), le statistiche non tengono conto. Nei prossimi anni uno dei cinque
milioni di diplomati dalle scuole non arriveranno mai sul mercato del
lavoro. Ma anche senza tener conto di questi "scoraggiati",
la realtà della disoccupazione giovanile e femminile è
comunque molto grave. Raggiungendo il 40 per cento di tutti i disoccupati
della Comunità, i giovani sotto i 25 anni rappresentano un grande
problema, cui si aggiunge quello delle donne che, in molti Paesi, sono
in proporzione di due a uno rispetto agli uomini senza lavoro.
Tutto ciò stimola, forse come mai in passato, i sindacati a proporre
formule di suddivisione del lavoro disponibile tra un numero più
elevato di soggetti, anche se, nell'attuale situazione di scarsa competitività
dell'industria europea, ciò potrebbe rivelarsi molto dannoso.
L'Etuc, a questo proposito, ha elaborato uno studio che stabilisce una
nuova base di discussione per la riduzione dell'orario di lavoro da
40 a 36 ore. La riduzione del 10 per cento del tempo di lavoro sarebbe
compensata da un aumento della produttività, e in più
si avrebbe un effetto positivo sull'occupazione del 5,5 per cento. Ma
anche i difensori della proposta riconoscono che questo sarebbe solo
un provvedimento addizionale rispetto alle tecniche di creazione di
posti di lavoro ex novo.


Passiamo alla crisi
valutaria e all'inflazione. Ogni epoca ha le sue sfide che provengono
dalle aree più diverse e spesso meno prevedibili delle attività
umane. In campo economico, quella che stiamo affrontando riguarda la
ricerca delle condizioni per il mantenimento e il miglioramento di livelli
di vita e di lavoro in società - comprese quelle "avanzate"
- nelle quali permangono squilibri.
Questo impegno è tanto più importante e urgente, in quanto
esistono gravi fattori di involuzione, sul piano internazionale e nazionale,
tali da innescare processi perversi difficilmente reversibili. Due di
questi fattori, collegati, emergono quali effetto di cause complesse
e stratificate nel corso di decenni. la crisi del sistema monetario
internazionale e I' inflazione strutturale a due cifre: intorno a questi
due fattori hanno giocato e giocheranno altri fenomeni non facilmente
prevedibili, primo fra tutti la crisi petrolifera.
L'avvio di questi fenomeni risale all'inizio degli anni Settanta e può
essere collegato ai rivolgimenti sociali che hanno caratterizzato, in
tutto il mondo occidentale, questo decennio, inducendo in molti Paesi
- in particolare l'Italia -rilevanti conseguenze sul sistema politico
e sulle istituzioni. Tali tensioni, anche per il loro portato ideologico,
hanno determinato forti spinte disgregatrici nelle società occidentali,
alle quali le classi dirigenti non hanno saputo rispondere efficacemente.
Ma è inutile soffermarsi sul passato, quando si deve piuttosto
valutare l'entità dei guasti prodotti e ricercare rapidamente
le vie d'uscita. Sul piano valutario, la situazione è andata
peggiorando in questi anni, con un forte aumento del potenziale di instabilità,
soprattutto dopo la crisi petrolifera. Questo fatto ha dilatato oltre
misura la massa di dollari vaganti nei mercati internazionali con un
ovvio effetto di perdita di credibilità di questa moneta e di
precarietà del sistema (se così può essere chiamato)
monetario mondiale. E' certo difficile valutare che cosa possa significare,
in termini di instabilità, la realtà di centinaia di miliardi
di dollari disinvestibili (o convertibili) a breve, ma le recenti vicende
dell'oro sembrano indicative di prossime rilevanti turbolenze, se non
proprio dell'approssimarsi di un deciso show down.
Due sono le alternative estreme fra le quali, come sempre, la fantasia
umana potrà collocare infinite formule: quella del completo abbandono
dell'oro come base, sia pure teorica, monetaria, che comporta la realizzazione
di qualche progetto sulla moneta "mista" internazionale (ad
esempio: diritti speciali di prelievo), e quella invece del mantenimento
di un collegamento tra gli strumenti di scambio e qualcosa di reale,
si tratti dell'oro o di altre commodities, non necessariamente metalliche.
E evidente che, comunque sia, si tratterà di una scelta storica,
la quale potrà avere risultati diversi se vi si giungerà
costretti dagli avvenimenti o attraverso una profonda e diffusa convinzione.
E' difficile giudicare sui gradi di probabilità che tale scelta
possa avvenire in tempi relativamente brevi, ma è certo che il
prosieguo dell'attuale instabilità comporterebbe: 1) difficoltà
allo sviluppo del commercio internazionale;
2) minore efficienza nella gestione delle risorse economiche a livello
mondiale; 3) un rallentamento e forse una stasi del progresso economico
e sociale dell'Occidente.
Ad evitare tale prospettiva, sembra logico ritenere che la situazione
richieda l'avvio immediato di un grande negoziato fra i Paesi industriali
avanzati, un nuovo Bretton Woods per intenderci, finalizzato alla definizione
- almeno - del processo operativo e delle fasi per giungere ad un nuovo
equilibrio, ad un sistema.
All'attuazione (e al successo) di tale svolta sono collegate anche le
prospettive di superamento dell'altra patologia alla quale abbiamo accennato:
l'inflazione strutturale a due cifre. Qui il discorso si diversifica
sostanzialmente all'interno dei Paesi Occidentali (ed europei), perché
esistono ad un estremo il caso tedesco e all'altro quello italiano,
fra i quali il rapporto d'inflazione relativa ha oscillato in questi
anni da 1:3 a 1:4. Fra questi due estremi, le più diverse combinazioni.
Parliamo dell'Italia. I fattori interni di inflazione sono stati e sono
superiori a quelli esterni e sono ben noti: inefficienza del sistema
(pubblico e privato), assistenzialismo e garantismo, automatismo perverso
dei costi di produzione e dei servizi, e via dicendo. Questa realtà
è la conseguenza di un processo di degradazione che si rifà
sostanzialmente a due gruppi di cause:
1) una economico-tecnica, riflessa nel l'insufficiente risposta professionale
della ruling class di fronte ad una notevole complicazione dei problemi
di gestione del cambiamento;
2) l'altra politica, legata all'instabilità strutturale del sistema,
alla scarsa capacità di canalizzazione del dissenso e all'insufficiente
potere di indirizzo e di mediazione dei rapporti sociali.
Sotto entrambi gli aspetti la situazione italiana si presenta, agli
inizi di questi Anni Ottanta, profondamente diversa rispetto a quella
europea, e non è pensabile che essa possa protrarsi senza determinare
crisi di compatibilità e di coesistenza. La conferma della scelta
europea richiede quindi un vero e proprio saldo di qualità del
Paese nelle direzioni più volte indicate (e auspicate) sul piano
politico come su quello economico e sociale.
E inutile chiedersi, ancora e sempre, dove e come si possa o si debba
avviare questa svolta, anche per evitare alibi operativi; in termini
più chiari, non sembra giustificato rassegnarsi a certi comportamenti
a livello "micro" (economico, politico, sociale) che sono
chiaramente incompatibili con gli obiettivi che il Paese deve porsi.
Le ricostruzioni sono sempre difficili e l'esperienza ha dimostrato
che il loro successo non è necessariamente legato alle grandi
riforme, ma forse più spesso all'operare tenace sui piccoli (così
sembrano) problemi da parte di individui sorretti - e questo, sì,
è fondamentale - dalla ragione e dalla volontà.
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