Inflazione anno 1980




Lucio Tartaro



Ci provò per primo Diocleziano, con l'editto del 301 dopo Cristo, a bloccare i prezzi per legge, e da allora, in 1680 anni, ogni tentativo di mettere il bavaglio amministrativo all'inflazione è stato, nel migliore dei casi, inutile, e non di rado si è rivelato un disastroso boomerang. Non ci sarebbe anzi di che stupirsi se un giorno si riuscisse a dimostrare che una discreta porzione dell'inflazione di questi ultimi 1680 anni è stata provocata proprio dagli effetti perversi delle misure adottate a più riprese per frenarla. L'Italia da tempo detiene lo scomodo primato dell'inflazione più elevata dell'area industriale avanzata e, guarda caso, è l'unico Paese che ininterrottamente da trentacinque anni vincola l'impresa ad un qualche sistema di controllo dei prezzi, che ha trovato via via crescenti stimoli prima nei periodi dell'autarchismo e poi in quelli dell'economia di guerra.
Ora che la tentazione atavica si rifà strada, è stato scritto, non sarebbe male riflettere su due elementi:
1) perché in Italia mettere la briglia ai prezzi per legge equivale a un suicidio economico;
2) perché, dopo tutto, l'inflazione non è, se presa per le corna, quel toro scatenato che tutti crediamo.
Sebbene in questo periodo lo smentiscano, un pò tutti (partiti, sindacati, imprenditori, organizzazioni commerciali) hanno nel cassetto una bozza di progetto per modificare "il processo di formazione dei prezzi". Si va (su questo sono tutti d'accordo) dalla riforma del CIP, il Comitato Interministeriale Prezzi istituito nella forma attuale con "decreto legislativo luogotenenziale" del 19 ottobre 1944, all'ipotesi di alcune forze politiche di "concordati" o "accordi di programma" che sostituiscano il regime dei prezzi determinati per via amministrativa. Altre forze, poi, sostengono che gli strumenti più adatti alla "democratizzazione" dei prezzi sono le Regioni, i Comuni, le singole industrie, "tutte le organizzazioni dei lavoratori", su cui vigilerebbe (con quali capacità d'intervento è fin troppo facile intuire) una commissione nazionale da creare presso la Presidenza del Consiglio. Qualcuno ha calcolato che, se si facesse quel che vogliono queste forze, non meno di 160 mila persone sarebbero addette ogni giorno al controllo dei prezzi, in un inestricabile intreccio (all'italiana) di competenze e di possibili collusioni. Alcuni cattolici, che battono anche certe sinistre per scarso senso della realtà economica, pensano di ridare agli organi politici nazionali il compito di stabilire come va esercitata la "vigilanza".
Le Regioni, ovviamente, chiedono nuovi poteri d'intervento autonomo. Un vasto fronte sindacale propone addirittura il coinvolgimento diretto dei lavoratori in fabbrica nel controllo dei costi di produzione, utilizzando gli stessi strumenti di informazione previsti dagli accordi aziendali.
E' stato scritto ancora da alcuni economisti che è sufficiente una scorsa a queste proposte per convincersi che è meglio dare all'inflazione il suo libero corso, poiché questo sarebbe comunque il danno minore. Il fatto è però che anche le economie più "libere" e progredite hanno - con notevole successo - pianificato attentamente sistemi di vigilanza sui prezzi e che qualche politica di controllo limitata ad alcuni beni strettamente essenziali è probabilmente necessaria. L'approccio è stato tuttavia radicalmente diverso dal nostro, ed è stato basato sulla convinzione che i prezzi non possano essere controllati a valle, nei negozi, ma vadano influenzati a monte, nelle aziende, cioè sul versante dell'offerta di beni e di servizi. Gli strumenti cardine di ogni schema di questo tipo sono stati una legislazione antimonopolistica (totalmente assente da noi) e l'abbandono di misure protezionistiche verso l'estero e di difesa delle corporazioni interne.
Il che dimostrerebbe che si può avere una minore inflazione soltanto se il cittadino è in grado di scegliere liberamente il prodotto migliore al prezzo più basso (quindi se non si creano produzioni "esclusive") e se il Paese accetta di confrontarsi sulla concorrenzialità delle produzioni disponibili in tutto il mondo. Due esempi. Se gli italiani potessero acquistare senza limiti automobili giapponesi, quanto di meno costerebbero le vetture Fiat? Se i due grandi partiti dello schieramento politico non avessero protetto oltre il lecito i privilegi e le evasioni fiscali di quelle grandi sacche di voti che sono la categoria dei piccoli commercianti e dei mediatori, contribuendo così all'atomizzazione della rete distributiva italiana, quanto in meno ci costerebbero oggi un vestito, un mobile, un chilo di frutta?
L'esperienza ha dimostrato che è per lo meno inutile, se non dannoso, tessere una tela di ragno intorno ai listini dei prezzi al consumo, se non si ha la forza di affrontare a monte quel tipo di distorsione. Innanzitutto, il controllo dei prezzi al dettaglio ha effetti pratici solo su quei settori per i quali non esistono altre forme di regolamentazione nazionale (come nel caso dei farmaceutici) ed internazionale (a livello CEE, per lo zucchero e il burro). Provoca invece gravi distorsioni nel caso di prodotti fortemente differenziati "psicologicamente" (esempio classico: i detersivi), che ne risentono denunciando immediati scadimenti di qualità. Quando, poi, le produzioni sono caratterizzate dalla presenza di numerose imprese di diversa dimensione, si ha una conseguenza inevitabile: l'adeguarsi ai prezzi massimi consentiti anche quando non è necessario, generando illeciti vantaggi concorrenziali (nei carboidrati i controlli adottati in passato hanno favorito i piccoli produttori, meno efficienti).
Il panico che sembra prendere il Paese ad ogni rigurgito dell'inflazione sembra più che altro scaturire dalla sensazione di assoluta impotenza nell'incidere sul processo strutturale di formazione dei prezzi (produttività, costo del lavoro, capacità tecnologica) nel momento in cui non si ha forse ancora il coraggio di ammettere che in un Paese come il nostro l'inflazione è purtroppo uno dei migliori - anche se perversi - strumenti di ridistribuzione e creazione di ricchezza. Quante automobili in meno la Fiat dovrebbe produrre se i suoi listini dovessero essere concorrenziali a quelli giapponesi? Quante decine di migliaia di operai, in questo caso, dovrebbe gettare sul lastrico per dare un taglio netto ai costi di produzione? E quante case in meno si costruirebbero, se i canoni di affitto non venissero rivalutati al 75 per cento dell'indice Istat sul costo della vita? Quante aziende fallirebbero, se non potessero "speculare" sulla rigidità del mercato e su certe scarsità organizzate di offerta? E infine, tornando sul discorso un pò farisaico della scala mobile: in quale tremenda recessione saremmo piombati, se soltanto gli operai dell'industria non avessero intascato dal 1977 ad oggi l7.617 miliardi netti di contingenza, alimentando poderosamente i consumi e il risparmio, cioè i due unici elementi trainanti dell'economia italiana di questi ultimi anni?
Il discorso può non piacere, è stato detto, ma questi sono i fatti. Il resto è scienza d'altri pianeti. Certo, con l'inflazione bisogna imparare a vivere, evitando che essa si autoalimenti speculativamente, appiattisca le retribuzioni e taglieggi l'accumulazione di capitale. Ma basta guardare agli Stati Uniti, che si preparano a vivere il più grosso boom economico dal 1975-76 con un' inflazione storicamente elevatissima, per capire che c'è più di un modo per adattare il sistema finanziario a un regime di prezzi e di tassi d'interesse alti e per ripartire più equamente tra imprese pubbliche e private, finanza di Stato, commercianti e famiglie, un plusvalore monetario fatto di quella che gli americani chiamano "inflazione fisiologica".
Queste, alcune tesi sostenute a chiare lettere, in un momento nel quale si rischia una Caporetto economica. Esaminiamo ora le tesi opposte. E' stato sottolineato che nello scorso mese di marzo (un mese che è un punto di riferimento nelle rilevazioni trimestrali) il tasso dell'inflazione, misurato sull'antiquato indice del costo della vita, ha toccato una velocità prossima al 23 per cento sulla proiezione annua. Se quell'indicatore fosse aggiornato ai modelli di consumo attuali, probabilmente si dovrebbe stimare in oltre il 25 per cento la perdita corrente di potere d'acquisto. Sempre in marzo hanno inciso solo in parte o per niente affatto altre concause certe di maggiore inflazione: la svalutazione della lira (prima sul dollaro, in seguito sul Sistema Monetario Europeo), il rincaro dei prezzi agricoli comunitari, la stangata tariffaria. Diventa perciò ragionevole prevedere che - pur al lordo dei provvedimenti governativi di stretta - il tasso finale dell'inflazione per il 1981 si stabilirà sopra la quota del 20 per cento.
Sommando questa stima ai consuntivi degli anni ultimi, ne vien fuori un risultato sconvolgente. L'indice dei prezzi al consumo dell'Istat, con base 100 al 1976, supererà prepotentemente in corso d'anno al quota 200. Ciò significa che, nel quinquennio '77-81, il potere d'acquisto monetario nel nostro Paese è stato più che dimezzato.
Ma, come insegna il celebre apologo del pollo di Trilussa, le statistiche danno un'immagine deformata della realtà. Non tutti gli italiani sono stati impoveriti dall'inflazione; non tutti, comunque, in egual misura.
Le indicizzazioni o l'aggressività sindacale sono servite a difendere del tutto i salari di alcuni, poco o niente quelli di altri. Il risparmio è stato danneggiato in modo sistematico, mentre il possesso di beni reali ha raccolto un premio, talora spropositato. Insomma, si è verificata una gigantesca redistribuzione del reddito e dei patrimoni, per cui può ben dirsi che quella del 1981 è un'Italia assai diversa da quella che conoscevamo appena pochi anni fa.
Sotto i colpi dell'inflazione non sono passate di mano soltanto delle ricchezze materiali. Insieme agli interessi economici, sono mutati anche le passioni e i valori che muovono gli uomini. Ad esempio, la figura del capitalista finanziario ha spodestato quella dell'industriale, riprendendo un sopravvento perduto già un secolo fa. Al rischio imprenditoriale e all'oculata gestione del l'investimento, che avevano promosso decenni di alto sviluppo industriale, si sono sostituite più effimere ma più cospicue opportunità di arricchimento per chi sappia cogliere in tempo gli spazi di speculazione aperti dagli sbalzi dei valori monetari e dei prezzi dei beni reali. Distratta, comprensibilmente, da problemi più immediati, la coscienza del nostro Paese risulta attutita su questi aspetti della realtà inflazionistica. C'è ribellione per gli inopinati rincari della pasta o del caffè, dell'auto o del frigorifero, ma si stenta a cogliere una reazione di rigetto contro il sottostante fenomeno di redistribuzione delle ricchezze fra classi e fra individui. La coscienza è vigile sulla perdita contingente del potere d'acquisto, ma non lo è sulla trasformazione dei valori economici e sociali che ne consegue. La stessa politica dei piccoli passi seguita dai governi favorisce questa assuefazione collettiva di fronte a un fenomeno che sta cambiando nel profondo etica e modelli della civiltà presente.
Lo Stato sposta in misura crescente sui cittadini futuri gli oneri del benessere degli elettori presenti. Le imprese si indebitano e rincarano il listino dei prezzi, scommettendo così contro i propri investimenti. I padri di famiglia tentano di ricoprire i loro redditi dietro le indicizzazioni e gli acquisti anticipati, scaricando in avanti sui figli il peso di un aggiustamento che appare impossibile. Tutti insieme - Stato, imprese e famiglie - pongono la propria sopravvivenza in competizione con quella delle generazioni future.
Ugo La Malfa aveva parlato di "Caporetto economica". Paolo Baffi va ancora più in là, individuando in questi comportamenti il segno di una vera e propria "crisi di civiltà", indotta dagli alti tassi d'inflazione. Scrive l'ex Governatore in una lettera che merita di essere resa pubblica: "La sfiducia nella moneta genera nei mercati un'instabilità generale: che si manifesta negli alti e variabili tassi d'interesse; nella fuga verso i valori fondiari, i beni di rifugio, i titoli rappresentativi di beni reali (che la Borsa capitalizza a tassi ormai infimi); nella riluttanza all'acquisto di titoli a reddito fisso e nel calo della propensione al risparmio. Questa caotica condizione dei mercati configura una crisi, la quale può ben dirsi di civiltà almeno nel senso che premia la proprietà, spesso ereditaria, di beni reali, in parte non riproducibili, piuttosto che il contributo alla produzione, ed insieme premia gli atteggiamenti speculativi e predaci".
E prosegue Baffi, a proposito di decadenza di valori: "Sono invece penalizzati la fiducia nello Stato e l'impegno esclusivo nella propria professione, sentita come vocazione che necessariamente distolgono chi si attiene a questi comportamenti di intrinseco valore civile dal cogliere occasioni di profitto personale nei tumultuosi movimenti di un'economia privata dell'ancoraggio ad una moneta stabile".
Altro che nuovo Rinascimento! Ci sono alcune verità profonde in queste parole che sembrano coniate su misura per tutti coloro che predicano visioni ottimistiche quanto superficiali. Ma quale vitalità sommersa del Paese e verso quali lidi? Due verità di Baffi sovrastano le altre. Prima: in tempi d'inflazione, trionfa il volto peggiore del neocapitalismo, quello predatorio della rapina speculativa, che fa aggio sui valori etico-economici di professionalità e di risparmio. Seconda: l'eredità che i padri accumulano per i figli si restringe alla trasmissione di beni materiali, perdendo ogni contenuto di lascito politico-morale.
Particolarmente pertinente appare il richiamo a quel concetto di professione intesa come vocazione e dedizione civile che costituì il valore centrale dell'etica protestante, oltre che la molla originaria per il trionfo del capitalismo. Non più ci si cura di rimettere ai posteri quelle condizioni di libertà e di lavoro, che sono le premesse per l'esercizio di tale vocazione. Ma si trasmettono, insieme all'inflazione, valori medioevali e disgreganti, come quelli del saccheggio in attacco e di feudo in difesa. Non fa meraviglia che, anche in politica, la figura ottocentesca dello statista ceda il passo ad arroganti capitani di ventura, i quali arruolano consensi non sulla base di princìpi, ma promettendo occasioni di arbitrio e di razzia. Vorrà questa classe di predoni - oggi dominante in politica come negli affari - battersi veramente contro l'inflazione, che è il suo tipico brodo di coltura?
C'è più di una ragione per dubitarne. Ma almeno non si faccia dell'aggiotaggio politico-intellettuale, vuoi sostenendo che con l'inflazione si può convivere senza troppi danni, vuoi tacciando di "nuova destra" chi cerca di difendere i valori etici, originari del sistema capitalistico.

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