§ L'ITALIA IN FONDO AL TUNNEL

Come uscirne




U.B.



Nelle discussioni, nei dibattiti e anche nelle polemiche sulle misure da adottare per rimettere in carreggiata la nostra economia si intrecciano in modo confuso ragionamenti che partono da presupposti contrastanti. C'è chi afferma che il nostro sistema economico soffre, almeno a partire dalla fine del 1979, di un perdurante eccesso di domanda interna. Di conseguenza, la produzione nazionale "trascura" i mercati esteri e quindi ristagna il gettito valutario derivante dalle esportazioni, mentre l'aumento dei prezzi delle importazioni comporta un maggiore esborso di valuta. Le spiegazioni del fenomeno sono complesse, e qualcuno farebbe ritenere che esso stia assumendo caratteristiche "strutturali", quindi molto preoccupanti. C'è chi afferma invece che tutte le difficoltà derivano dalla superindicizzazione della nostra economia, per cui gli impulsi inflazionistici provenienti dall'esterno (aumento dei prezzi delle importazioni) vengono amplificati sui costi di produzione. L'eccesso di domanda deriverebbe da questo fenomeno: il peggioramento delle ragioni di scambio con l'estero non si traduce in una riduzione del potere d'acquisto della famiglia italiana, protetta appunto dai meccanismi della superindicizzazione. Nel primo caso, il rimedio per eccellenza dovrebbe essere la riduzione del disavanzo pubblico di parte corrente, non importa tanto se raggiunto con un taglio della spesa (preferibile) o con un aumento dell'entrata (meno accettabile, data la già alta pressione fiscale operante). Nel secondo caso, si dovrebbe quanto meno attuare la proposta, ripetutamente avanzata da alcuni economisti, di eliminare dai meccanismi di indicizzazione gli effetti dei prezzi delle merci esclusivamente - o quasi - importate. In pratica, non è possibile seguire rigorosamente l'una o l'altra impostazione, ma procedere senza curarsene seriamente può portare a inutili controversie o a gravissimi errori. L'impressione, infatti, è che gli "schieramenti" si formino non tanto in base alle due diverse impostazioni, cioè in base alle analisi degli andamenti economici, bensì in relazione al maggiore o minore gradimento per i tipi di provvedimenti che ne derivano. In altri termini, si parte dalla coda.
La notizia venne data dai telegiornali di domenica 22 marzo, nelle edizioni della notte: svalutazione della lira e rialzo del tasso di sconto. Notizia nuda e cruda, nel linguaggio buro-finanziario che riguarda il settore economico.
Nelle ore immediatamente successive, la notizia tenne le prime pagine dei giornali, ma divenne subito dopo l'ennesima occasione per un'aspra polemica fra i partiti ,sia nel governo che fuori: obiettivo principale non era più quello di capire come stavano le cose e di pensare agli strumenti più idonei per fronteggiare la situazione, ma quello di decidere se far cadere oppure no il governo.
Gli scioperi programmati si svolsero "con regolarità"; giovedì 26 marzo l'Italia intera era pressoché paralizzata dallo sciopero degli autoferrotramvieri, che provocò un danno economico ingente, anche se difficilmente calcolabile, e che consolidò un'immagine di Paese allo sfascio e alla deriva.
Solo dall'estero vennero autorevoli richiami ad adottare provvedimenti più fermi e decisi per arrestare un'emorragia inflazionistica che stava raggiungendo livelli sudamericani. La questione dell'inflazione - la malattia più grave delle società moderne e di quelle in rapida trasformazione - è uno di quei problemi che l'informazione quotidiana non riesce a dibattere e che la stessa scienza economica tradizionale si trova in difficoltà a trattare. L'inflazione, infatti, appartiene alla categoria di quei fatti sociali che non hanno l'opportunità di diventare notizia se non quando arrivano alla fase finale, travolgente e ormai incontrollabile, del loro corso. Non solo. L'inflazione è anche uno di quei fenomeni totali che hanno spiegazioni e cause molteplici, che non sono rilevabili e comprensibili da parte di una sola scienza sociale. Né l'economia, né la sociologia, né la scienza politica possiedono, individualmente, gli strumenti analitici e le categorie interpretative necessarie a spiegare e controllare l'inflazione.
La conseguenza di questo stato di cose è che sull'inflazione, (che da oltre un decennio sta soffiando in modo sempre più distruttivo sulla società italiana), non si dispone, né a livello degli addetti ai lavori né della più vasta opinione pubblica, di un'informazione sufficiente: base necessaria per qualsiasi intervento politico correttivo e regolativo del fenomeno.
Ciò è tanto più grave, se si riflette sul fatto che l'inflazione è il fatto sociale di questi anni che maggiormente ha inciso e incide sui processi di trasformazione sociale e culturale della società italiana. Infatti, in contrasto con un'opinione largamente diffusa, l'inflazione - come altri fatti sociali dello stesso tipo: una guerra o una rivoluzione - pur coinvolgendo tutti i membri di una società, non colpisce alla cieca e non colpisce tutti. Al contrario, gli effetti dell'inflazione sono molto diversificati: vi sono gruppi e categorie sociali i cui redditi vengono pesantemente falcidiati; vi sono gruppi e categorie sociali che traggono dall'inflazione enormi vantaggi.
Tutti coloro che possono scaricare subito sui prezzi gli effetti dell'inflazione e che sono detentori di risorse scarse, possono facilmente moltiplicare i loro redditi. Per esempio, gli artigiani e i doppi-lavoristi che lavorano per le famiglie, i commercianti che vendono beni che sono anche simboli di status, i produttori di beni di lusso o di semi-lusso: queste e altre categorie sono largamente avvantaggiate dall'inflazione. Al contrario, i produttori agricoli, le industrie medio-grandi che producono per l'esportazione o per un mercato di massa, le categorie a reddito fisso con meccanismi di scala mobile poco sensibili, i pensionati, vengono fortemente penalizzati. Inoltre, le reazioni soggettive dei singoli e dei gruppi agli effetti dell'inflazione sono molto diversificate, a seconda delle possibilità di percezione delle dimensioni del fenomeno. Per esempio, le reazioni di coloro che temono fortemente di perdere una posizione di status recentemente acquisita, possono determinare spinte alla spesa di prestigio che, a sua volta, accelera il ritmo dell'inflazione. Solo così si può spiegare il livello relativamente elevato di spesa per i beni di consumo pregiati, per il quale superiamo mediamente altri Paesi europei industrialmente avanzati. E' stato scritto che quello che manca nel nostro Paese è il coraggio dell'impopolarità. Il corporativismo ha molte facce, e tutte assistenziali, secondo l'esperienza che ne stiamo facendo da tanti anni e sempre in perdita. Comunque, oggi che siamo arrivati a una drammatica resa dei conti, ci si presenta un altro corporativismo ancora dal volto nuovo, non più soltanto sindacale, di categoria, gruppi o partiti, ma ministeriale. I titolari dei singoli dicasteri sono difatti scesi in gara a respingere le richieste delle riduzioni di spesa che colpirebbero i rispettivi bilanci, e alle richieste del Ministero del Tesoro hanno opposto una raffica di "no" in un gioco furioso di veti incrociati.
Vista la resistenza (a oltranza, e su tutta la linea), occorre fare alcune considerazioni. Ispirazione generale dei Ministri negatori di sacrifici è che, giunto il momento dei risparmi, a risparmiare debbono essere gli altri; e questo è appunto corporativismo. E' un atteggiamento che a livello di gruppo o categoria si può anche capire umanamente - sia pure non giustificandolo - ma che a livello di Ministri responsabili del governo del Paese è inaccettabile e assurdo. Dopo tutte le professioni di impegno in termini di governabilità, ecco la barca ministeriale andare in secca nel momento decisivo di mostrare una forma elementare di buona volontà e di coesione di fronte al problema nazionale numero uno. Come si dice volgarmente, ogni Ministro ha lanciato il suo "fuori mi chiamo", sottraendosi al dovere istituzionale di una visione del bene comune.
E' del suo "bene" particolare che ciascuno si è preoccupato, un bene settoriale o - a dir peggio -clientelare. Si parla infatti di demagogia, ma non è certo che sia questa una scelta opportuna, che cioè sia pagante. Si può anche pensare che ci sono altri modi per conseguire il premio della sperata popolarità: chi mai oggi in Italia negherebbe consenso ad un uomo politico che si mostrasse consapevole della gravità della situazione generale? Con la sua pratica della lesina, Quintino Sella ottenne ai tempi suoi benemerenze che lo hanno raccomandato alla storia. Per la sua serietà nel valutare impietosamente il cattivo andazzo seguìto dalla politica economica italiana, uomini del calibro di Luigi Einaudi e di Ugo La Malfa si sono guadagnati un prestigio che il passare degli anni continua a ingrandire.
Ci vuole onestà, naturalmente, e questa è una virtù che, al pari del coraggio, chi non ce l'ha non può darsela: ma chi l'avesse - e non è detto che in Italia manchino uomini politici dotati di ciascuna delle due - farebbe un ottimo investimento a fini di carriera, se ne desse la prova. Chi rompesse le regole corporative sarebbe - a dirla in linguaggio corrente - il più furbo di tutti, anche perché sul piano della serietà la concorrenza è scarsa, per disgrazia, oggi, in Italia. Perciò il successo gli sarebbe assicurato in un Paese, come il nostro, afflitto dalle esasperate frantumazioni degli interessi.
Queste frantumazioni hanno portato a un'insostenibile dilatazione della spesa pubblica che Alan Whittome, Direttore per l'Europa del Fondo Monetario Internazionale, ha calcolato in circa 27 mila miliardi, equivalenti all'ingrosso al sette per cento del Prodotto Interno Lordo. Ha postillato in tono di rimprovero: "Ma la crescita rapida della spesa sociale (sanità, istruzione, ecc.) non ha, come ci è stato detto, portato ad un miglioramento della qualità di questi servizi". Glielo hanno detto, a Whittome; ma noi ne siamo tutti testimoni oculari, protagonisti e vittime: basta avere la sfortuna di ammalarsi; basta mandare un figlio a scuola.
Ora - mentre siamo in fondo al pozzo - si riparla di meritocrazia: un pò dovunque, sia da parte imprenditoriale sia da parte sindacale, constatati i disastrosi effetti dell'appiattimento salariale. Gli argomenti sono noti: da quelli morali a quelli materiali, dal bisogno di non perdere consensi medio-alti da parte dei sindacati, alla necessità di valorizzare i più capaci da parte delle aziende. Gli esempi di altri Paesi avanzati insegnano che non si può vivere nel libero mercato e sperare di sviluppare competitività con una filosofia da paese pianificato, egualitarista e perciò antiindustriale. Né si può avere una cosa e insieme il suo contrario.
Bisogna pagare molto chi dà molto. Ci si stupisce dei favolosi guadagni del grande manager americano, ma non ci si chiede quali responsabilità intellettuali ed operative abbia e che quantità di ricchezza egli contribuisce a creare e che quantità di occasioni di lavoro ne conseguono. Con i funzionari sonnolenti e mal pagati non si risaneranno mai le aziende italiane malate. Occorre ripetere ancora delle ovvietà: il dirigente industriale deve avere un'ampia possibilità di guadagno, ma deve essere assieme misurato con rigore e punito con coerenza. E non si dica che questa è una filosofia selvaggia, da industria ottocentesca. Nessuno obbliga una nazione a industrializzarsi. Esistono ancora nel mondo economie agricole e pastorali. Neppure si dica che le regole del libero mercato costringerebbero tutti alla lotta contro tutti, "homines hominibus lupi". Perché è vero il contrario: le regole internazionali, ancora perfettibili, danno largo spazio alla tutela dei lavoratori a tutti i livelli, dalle indennità di disoccupazione alle garanzie sanitarie, alla difesa dei più deboli, ai trattamenti di quiescenza, alla sorveglianza continua sulle condizioni di vita e di lavoro. Lo spazio può essere ulteriormente allargato e gli strumenti d'intervento esistono: sono leggi sanitarie, previdenziali, fiscali. Si deve proteggere sempre più (e per davvero) il debole e prelevare eque e proporzionate fette di reddito ai livelli più alti. Ma non si può proteggere e punire solo per demagogia, per ottenere consensi nel breve periodo, distruggendo opportunità di sviluppo nei tempi più lunghi.
Occorre uno scrollone robusto. E sia consentito ripetere che esso dev'essere in primo luogo morale. Le prediche e il tono predicatorio non sono simpatici, e ad insistervi si è giustamente presi per guastafeste. Ma se non ci si convince tutti che esiste di nuovo una giustizia nel mercato dei valori e dei talenti, per cui ha di più chi più vale e di meno chi vale meno, è premiato chi fa profitto e punito chi genera perdite; che si deve far piazza pulita delle imprese sorte come si gioca al lotto, che sono passive e che, per essere mantenute, ci sottraggono ricchezza, o meglio, moltiplicano povertà, costi quel che costi, allora è meglio chiudere e non pensarci più. C'è, dalla grande base del popolo, una enorme richiesta di decisione e di governo. C'è la richiesta di programmi chiari, non parolai e demagogici; c'è la necessità dello sviluppo del Sud, della sua agricoltura, delle sue aree ed autentica vocazione industriale; c'è - diffusa in tutti, e non certo come semplice stato d'animo, o come pura categoria dello spirito, ma come stato di necessità, anche "materiale", per uscire dal tunnel - la richiesta della pulizia, dell'accantonamento degli incapaci, dell'esilio degli imbroglioni, dell'incarcerazione dei profittatori e degli speculatori, veri e propri terroristi disarmati che hanno messo in ginocchio il Paese, insieme con i politici da strapazzo, abilissimi intermediari di affari ad alte rese e ad altrettanto alte tangenti; c'è la necessità di porre un ragionevole freno ai corporativismi sindacali, che hanno chiesto tutto e per anni hanno ottenuto tutto, al consumismo e allo sperpero, al vivere al di sopra delle proprie possibilità, allo spendere denaro altrui. Una autentica, immensa riforma morale e civile è alla base della ripresa.

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